Abbiamo intervistato Etta, giovane cantautrice casertana, che il 3 maggio dello scorso anno ha pubblicato “Scemi e Contenti”, un nuovo concept album che ha voluto raccontarci!
Com’è nata la tua passione per la musica? Te la porti dentro da sempre, o c’è stato un episodio particolare nella tua vita che ha fatto scattare la scintilla?
«Io ho sempre amato la musica, ne sono sempre stata affascinata, fin da quando vedevo mio padre suonare la chitarra in casa. A tredici anni ho iniziato a scrivere le prime canzoni, pensavo che da grande sarei potuta diventare come Laura Pausini, perché ero una sua grande fan (ride – NdR). Io sono nata a Sessa Aurunca e cresciuta a Sparanise, in provincia di Caserta, fino ai miei diciotto anni; con l’Università mi sono spostata, per poi trasferirmi a Napoli. La musica, sia nel paese che in famiglia, era vista come un hobby, non come una possibile carriera. A livello accademico io avrei voluto frequentare il DAMS, ma alla fine ho studiato Beni Culturali. Quando poi ho conosciuto il mio producer, V_Rus, andavo ancora in giro a suonare con la mia band. Lui mi ha consigliato di tornare a scrivere, e da allora non mi sono più fermata. Il percorso è stato lungo, ho ricominciato a comporre nel 2017, ma la vera svolta secondo me è arrivata due anni fa, quando ho iniziato a fare qualcosa che non avevo mai fatto prima: il rock. Per me fare rock è stata un’esigenza; volevo parlare di alcune tematiche, essere in qualche modo più incisiva, e la musica che facevo allora non me lo permetteva. Il mio produttore, pur avendo sempre fatto rock, non mi ha mai spinta a farlo; un giorno gli ho mandato un pezzo, “Fuck Your Mama”, che lui ha prodotto in due ore. Lì ho capito che quella era la direzione giusta, con lui via via ci siamo conosciuti sempre meglio, e anche io ho capito cosa stessi davvero cercando nella musica: prima la intendevo come un sogno esclusivamente mio, adesso invece la vedo come un mezzo per arrivare agli altri. Cambiando genere ho capito cosa desideravo davvero dalla musica, e devo dire che in questo momento mi sento particolarmente appagata.»
Hai calcato vari palchi, come il Primo Maggio, Arezzo Wave Love Contest & Festival, X-Factor, Area Sanremo. Come sono state queste esperienze, sia in ambito televisivo che più puramente musicale?
«Mi impegno sempre a fare e inventare nuove cose, quelli che potrebbero sembrare tanti traguardi per me in realtà sono ancora pochi, perché io esigo sempre molto da me stessa, ricerco sempre una sicurezza, non tanto nell’approvazione degli altri, quanto nella mia. Tutto è forse iniziato da X-Factor, che per me è stato il momento in cui ho capito che era necessario cambiare qualcosa nella mia musica. Il brano che presentai, “Bang Bang”, era un brano urban. Di quel momento non ricordo quasi nulla, ricordo solo la paura e l’ansia del palco, e questo a mio avviso è molto triste, perché significa che non ero sicura di me stessa, della canzone, di ciò che stavo facendo. Ad Area Saremo ho partecipato con “Woman”, e anche lì ho percepito il sentore di dover cambiare qualcosa. In giuria c’era Piero Pelù, un grande rocker, che mi ascoltò e mi disse che a suo parere stavo molto bene nel rock. “Woman” era in realtà anch’esso un pezzo urban, ma con delle sfumature particolari, che non si inserivano precisamente in un genere. Il Primo Maggio per me è stata la conferma di tutto, del fatto che l’aver iniziato a fare rock dopo Area Sanremo era stata la scelta giusta. Quel palco me lo ricordo come fosse ieri, l’ho proprio sentito come se fosse casa mia. Sempre con un po’ d’ansia da prestazione, certo, ma è stata una vera e propria conferma. Lì ero con la mia band, e la condivisione del palco è stata importantissima. Ci siamo approcciati alla TV in diversi modi, anche quest’anno, col brano “Amadeus” e tutto il marasma di Sanremo. La musica e la TV tuttavia non vanno di pari passo, la seconda è ancora più veloce della prima, e il livello di attenzione è ancora più basso. Nella musica l’ascoltatore si pone comunque attivamente, andando a ricercare un qualcosa, mentre la televisione spesso è vista come una distrazione. E’ difficile che la si accenda perché lo si vuole; spesso lo si fa più per compagnia o sottofondo. Quindi la TV deve attirare in ogni modo chi guarda, con contenuti semplici, veloci, che poi vengono subito dimenticati. Spero che la musica non diventi così, anche se purtroppo il mainstream sta già contribuendo a operare questa trasformazione. Mi dispiace molto per i tanti artisti emergenti validi che non hanno il substrato giusto per poter promuovere il loro lavoro, perché le persone oggi sono troppo abituate al non pensare e al distrarsi.»
La musica è politica, e per come questi due mondi si sono interconnessi, forse oggi la loro commistione è quasi inevitabile. Ascoltando i singoli che hanno anticipato il tuo disco, si nota il filo conduttore del messaggio che vuoi portare con la tua musica: tra gli altri, quelli della salute mentale e dell’emancipazione femminile.
«Tutta l’arte è utilizzata anche per fare politica; non si può impedire di fare un determinato tipo di musica, perché questa è un’effettiva privazione della libertà. Personalmente il mio scopo è provocare l’ascoltatore, far sì che egli immagini e si metta in discussione, magari anche non apprezzando ciò che faccio, ma comunque esprimendosi in qualche modo. Il processo fa tutto parte del concept album; abbiamo fatto uscire un pezzo ogni quindici giorni per creare una sorta di climax, che è culminato con l’uscita del disco. Il percorso è iniziato a Febbraio con il singolo “Nervous”. Ho immaginato una serie di personaggi che interagiscono in una casa di cura, diretta da una psichiatra che vuole trattare i propri pazienti con una terapia che renderà tutti felici e tutti uguali, omologati. I pazienti non soffrono in realtà di veri e propri disturbi: penso alla donna che vuole emanciparsi sessualmente in “Pornostar”, o a Jason 2.0 (protagonista del brano “Nervous” – NdR), un personaggio iconico e ironico, ispirato alla saga horror, ma più colorato: uccide solo anziane signore che passano l’aspirapolvere la mattina presto. Questo personaggio dà un peso diverso alle mancanze di rispetto che subiamo tutti i giorni, dovute a una società fortemente individualista, dove ci dimentichiamo dei bisogni degli altri. Vederle dal lato di un assassino per me era forte, provocatorio, utile a fermarsi a riflettere un istante. Mi collego sempre al tema della salute mentale, pensando anche alle necessità e alle sensibilità dei ragazzi più giovani, al bisogno di conoscerle e di parlarne. Oggi questa cosa non è ancora ricompresa nella nostra mentalità: andare in terapia non è ancora visto come una cosa di cui si ha bisogno, quando invece oggi per noi giovani è una circostanza del tutto normalizzata e pacifica.
In “Game Over” il personaggio protagonista è un NPC, un personaggio non giocante, costretto dal Game Master che ha programmato il videogioco a ricoprire un ruolo che lui non può cambiare: penso alle tante persone che fanno un lavoro che non gli piace, o a quei figli che per soddisfare le aspettative dei genitori si ritrovano dentro vite che non hanno davvero scelto. Il mio incoraggiamento è quello di uscire dal gioco, di perdersi per ritrovarsi, di scappare via dal programma e dal sistema che vuole controllarci, cercando di essere noi stessi e di lottare per i nostri sogni.»
Veniamo al disco: come è composto?
«Contiene sei singoli che abbiamo pubblicato prima del 3 maggio, il giorno dell’uscita. Ci sono poi altri sette pezzi, con molti featuring, tra cui quelli con Vipra e con le Bambole di Pezza. C’è anche una cover molto particolare.»
Parliamo dei social: in alcune occasioni li hai utilizzati come mezzo di denuncia sociale, integrandoli anche con la tua attività musicale. Ultimamente alcuni artisti hanno iniziato a denunciare le problematiche del mondo musicale, in termini di iper-produttività e di sfruttamento della creatività.
«In questo caso specifico, oltre ai social, parliamo innanzitutto del mercato musicale, che spesso chiede cose che poco hanno a che fare con l’arte e la creatività. Produrre a questi ritmi è sfiancante, io ho lavorato a questo disco per un anno intero; adesso sono sicuramente un po’ stanca, ma devo rimboccarmi le maniche, perché una volta uscito abbiamo iniziato a lavorare per il prossimo. Un problema enorme è legato ai numeri, al dover mantenere degli standard di risultato altissimi. Penso ad artisti come Sangiovanni o Mr. Rain, ma anche a Salmo, che recentemente ha denunciato problematiche sul copyright, a causa delle quali noi, che siamo proprietari della nostra musica, spesso paradossalmente non possiamo utilizzarla. C’è da dire inoltre che dallo streaming si guadagna pochissimo, i maggiori introiti provengono soprattutto dai live. Tutti questi discorsi diversi secondo me vanno nella stessa direzione, e per chi è emergente la situazione è ancora peggiore. Anche se io ho la testa dura e vado avanti comunque, la notte in cui escono i singoli la passo insonne come tutti, mangiandomi il fegato nell’attesa che le piattaforme mi inseriscano nelle loro playlist: se non ci rientri, praticamente è come se tu non fossi nessuno. È come la gestazione di un figlio: sei tu a portarlo in grembo, ma saranno poi altre persone a decidere se questo figlio deve vivere o deve morire. Il mio consiglio è buttarsi sui live e cercare di ridimensionare molto questo contesto di apparenze, alimentato moltissimo anche dai social, che io uso come mezzo per arrivare agli altri e a volte anche per parlare di cosa non va, non per “spararmi la posa”. I social devono essere usati nel modo giusto, e noi dobbiamo capire che sono e devono essere semplicemente una vetrina. Le persone sui social spesso credono a tutto ciò che tu gli mostri; dobbiamo svegliarci, andare oltre lo schermo e le piattaforme. La vita è un’altra cosa.»
In Italia sussiste ancora un forte gender gap in ambito musicale, non solo dal punto di vista economico, ma anche da quello della rappresentanza.
«Le donne che fanno musica sono il 10% del totale, e ciò si riflette sulla presenza e sulla rappresentanza. Cantanti, produttrici, musiciste sono davvero poche. Tutto ciò dipende da una forte cultura patriarcale, che purtroppo ci portiamo dietro e che sarà molto difficile da sradicare. Le giovani di oggi non capiscono davvero cosa stanno affrontando: per esempio, mi è capitato in una circostanza di cercare comparse per girare un videoclip, e ad alcune ragazze è stato impedito perché i fidanzati non gliel’hanno permesso. Sono fortemente dispiaciuta per loro; questi messaggi negativi vengono alimentati anche dai social, ma non dovrebbero più passare. Anche musicalmente, dobbiamo sempre lavorare il doppio degli uomini, perché il pregiudizio ci precede. In “Pornostar” canto “la nostra libertà è porno”, perché nella ricerca di essa continuiamo a essere discriminate, non parificate agli uomini; nonostante sia un diritto costituzionalmente garantito, non è veramente presente nella realtà. Pensando alla musica ma a qualunque altro ambito professionale, questo succede ovunque. Bisogna arrivare al fulcro del problema: perché le donne subiscono attacchi che gli uomini non subiscono? Io cerco sempre di appoggiare le altre donne e di sostenere le amiche artiste. Purtroppo i posti pensati per le donne sono pochi: ma noi non dobbiamo prenderci a pugni per quei dieci posti, dobbiamo aspirare anche agli altri novanta riservati ai maschi.»
Come sintetizzeresti in una frase il messaggio che vorresti trasparisse dalla tua musica?
«Sicuramente quello di pensare, di mettersi sempre in discussione, di non fermarsi alle apparenze. Credo comunque che l’amore sia la sintesi di tutto: amate in maniera pura, propositiva, non oppressiva o distruttiva. Un piccolo cambiamento ne può portare sempre uno più grande. E’ ciò che auguro a me stessa e a tutti i ragazzi che ascoltano la mia musica: cerchiamo di essere predisposti al cambiamento, e siamo noi i primi a cambiare.»
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