Articolo di Elena Barumerli
C’è un’emergenza sanitaria silenziosa che si espande in Italia da decenni. Un virus che miete molte più vittime del Covid-19: l’indifferenza.
Una discriminazione dell’Istituzione pubblica sanitaria che, con un complesso iter burocratico, priva del diritto alla salute circa seicento mila persone (adulti e bambini) costretti a vivere nel terrore dell’irregolarità giuridica. Un allarme umano e sanitario che coinvolge la salute di ognun* di noi, senza esclusioni.
A livello nazionale, il diritto all’assistenza sanitaria viene erogato formalmente anche alle persone senza regolare permesso di soggiorno (legge 286/1998). Tuttavia, il regolamento di attuazione di questa legge prevede che siano le Regioni a individuare le modalità più opportune per rendere fruibili e accessibili le cure. Questa discrezionalità legislativa ha generato disomogeneità sul territorio italiano, con interpretazioni spesso restrittive da parte delle amministrazioni locali, vere protagoniste delle politiche sanitarie e sociali: in molte realtà italiane, il diritto alla salute resta confinato sulla carta generando un grave vuoto assistenziale.
La domanda sorge dunque spontanea: “Chi si occupa della salute degli immigrati e delle immigrate ‘irregolari’?”
Questo è il quesito che mi ha guidata nella stesura della tesi di infermieristica, discussa nel dicembre 2019 all’Univesità di Verona. Durante l’esposizione le gambe tremavano forte e la voce esitava ad uscire. L’inquietudine di denunciare una verità scomoda e sommersa dal mondo mediatico e ospedaliero era alta. Ma volevo prestare una voce a chi quotidianamente veniva e viene zittito dalle urla e dagli slogan – e in punta di piedi se ne va.
Con il cuore ero al 13 febbraio 2019. Il sole, il freddo tagliente e il profumo di caffè che inondava l’appartamento universitario in cui vivevo. L’orologio segnava le dieci del mattino e la mia coinquilina ascoltava ‘Imagine’ di John Lennon in terrazzino, quando senza preavviso il telefono aveva squillato: “È morto”, sussurra una voce singhiozzante. “Chi è morto?” rispondo confusa. “Camara.” Camara era un mio coetaneo, un ventiquattrenne della Guinea. La sera prima, dopo la lezione di bioetica mi ero recata all’ospedale per fargli visita come volontaria. In quell’occasione lui aveva ripercorso tutto il suo viaggio, raccontandomi la sua storia. Come per un velocista ogni secondo è prezioso, lui mi passò il testimone: “Elena, prestami la tua voce per fare giustizia a chi, come me, muore in silenzio”.
La storia di Camara è intrisa di abusi, violenze e sfruttamento durante il percorso immigratorio e soprattutto in Italia: nei centri di accoglienza e nei campi del nord Italia dove lavorava come bracciante dieci, dodici ore al giorno per cinquanta euro, senza tutele né garanzie. Se si ribellava veniva minacciato dai caporali italiani, perdeva il lavoro e quei pochi soldi che riusciva a spedire a suo figlio e sua moglie in Guinea. In quell’attimo sospeso nello spazio e nel tempo, la fotografia dei raccoglitori di cotone in America di fine Settecento era quantomai attuale.
Camara si ammalò durante le feste natalizie per le strade di Verona, dove viveva in condizioni igienico-sanitarie disumane. In mancanza dell’originale permesso di soggiorno (e per il timore di essere denunciato alle autorità) non si recò in ospedale fintanto che, stremato, fu accompagnato d’urgenza in quella che sarebbe stata la sua ultima prigione: l’isolamento in un letto ospedaliero. Ricordo la sua accoglienza, il suo sorriso dolce e i suoi occhi vispi che gridavano ‘libertà’.
Camara era un fantasma muto e la sua storia è sovrapponibile a quella di molte altre vite umane maltrattate. Nel frattempo l’Unione Europea (e l’Italia nella fattispecie) veniva accusata di crimini contro l’umanità dalla Corte penale internazionale per la crisi dei rifugiati, mentre il clima politico e il dialogo mediatico perpetuavano la discriminazione razziale. Vivevo in un caos di emozioni e consapevolezze che non potevo più nascondere a me stessa.
Stanca di questa dissonanza tra notizie e realtà dei fatti, mi adopero per conoscere la verità. Trascorro alcuni pomeriggi in un ambulatorio per stranieri ‘irregolari’ e persone in stato di indigenza, e approfondisco l’argomento grazie rigorose fonti scientifiche che mi permettessero di sradicare ogni pregiudizio che limitava la mia mente e alimentava di riflesso questi crimini. Inoltrandomi nel mondo della sanità, da questa cruda prospettiva, scopro che le disuguaglianze e gli omicidi velati sono all’ordine del giorno ma all’oscuro di tutti. Sono parole forti, ma lo sono ancor più le lacrime di tutti gli esseri umani privati della loro vita, salute e dignità.
A rattoppare questa seria lacuna assistenziale ci sono infermieri e medici e professionisti volontari che da più di vent’anni si sono assunti la responsabilità di presa in carico di soggetti vulnerabili che necessitano di un contesto promosso, garantito e tutelato dallo Stato. I volontari sono in prima linea nell’arginare queste emergenza sanitaria e ogni giorno regalano il proprio tempo e le proprie risorse per prestare servizio legale (di orientamento alle rete dei servizi) e sanitario (visite di medicina e pediatria di base e specialistiche) e medicinali gratuiti per la cura di problematiche ambulatoriali e croniche, oltre che di ascolto e accoglienza amorevole.
Per quanto preziosi siano questi ambulatori, sono pochi e insufficienti a coprire la richiesta e il bisogno sempre più incalzante di presa in carico. Inoltre, la natura volontaria e la mancanza di tutele statali li costringe alla precarietà, amplificata dalla crisi economica e sociale creatasi in questo periodo di pandemia. Per esempio l’immobilità dell’intero Paese durante la quarantena ha reso queste persone più visibili, e la paura di essere intercettati dalle autorità e subire le contravvenzioni previste dal ‘reato di clandestinità’ ha ostacolato l’accesso agli ambulatori, provocando un minor ricorso alle misure di prevenzione e monitoraggio del Covid-19 e conseguentemente una minor capacità dei professionisti di intercettare le situazioni a rischio e di garantire l’assistenza sanitaria a interi nuclei famigliari.
Inoltre con l’aumento della povertà, la riduzione dei posti letto nei dormitori, il confinamento per le strade e il sovraffollamento dei centri di accoglienza, il rischio di diffusione del virus aumenta e si espande la probabilità di innescare focolari incontrollati che dovrebbero essere accompagnati da controlli tempestivi e misure di sicurezza adeguate. Le prospettive delle sanatorie discusse in questi giorni da parte del Governo ‘concedono gentilmente’ a duecentomila lavoratori il permesso di soggiorno, dimenticandone circa quattrocentomila per strada (non figurativamente), come a confermare il concetto che le persone straniere non sono naturali portatori di diritti ma solo fruitori occasionali.
Queste cifre sfrecciano veloci mentre leggo le notizie stesa sul divano. Mi fermo, chiudo gli occhi e rivedo quei volti consumati che attendono il loro turno nel corridoio del poliambulatorio. Gli sguardi che supplicano pietà. Vedo la loro sofferenza racchiusa in ogni cifra che stringe come una morsa nel petto. Non voglio credere di essere assuefatta e anestetizzata da questi ‘numeri’ e alzando le spalle cambiare canale.
Dal momento che già nel 2018 l’Organizzazione Mondiale della Sanità suggeriva che:
“Garantire la salute agli immigrati è di beneficio all’intera comunità ospitante in termini di sanità pubblica ed economica oltre ad essere un dovere umanitario.”
Chi siamo noi per decidere della vita degli altri e giocare all’asta con i diritti fondamentali delle persone?
15 giugno 2019, durante un turno notturno al pronto soccorso pediatrico.
Osservo la mamma di una bambina nigeriana che con grande amorevolezza, la abbraccia e le ripete: “Sorry, sorry”.
Incuriosita chiedo: “Perchè le dici sorry?”
E lei gentilmente mi risponde: “Perché io sono la sua mamma, le ho dato la vita. Le dico ‘sorry’ (scusa) se ora prova dolore, perché lei merita di essere felice”.
Vorrei scusarmi con ognuno di voi, ostaggi di una legge e un sistema italiano immorale che mina il vostro benessere psicofisico e la vostra felicità. Sorry.
Credo che la clessidra del tempo da sprecare con l’odio e la discriminazione abbia terminato i suoi grani. L’emergenza Covid-19 ci avverte che siamo tutti nella stessa tempesta, e continuando a remarci contro e a farci la guerra rimarremo fermi e le nostre barche affonderanno. È urgente invertire la rotta. Ora. Con un provvedimento istituzionale che regolarizzi tutte queste persone e con misure concrete che tutelino i poliambulatori gestiti da volontari, per difendere la vita di soggetti a rischio e proteggere la salute pubblica in un momento di particolare precarietà.
Infine, credo sia fondamentale un’introspezione profonda volta a trasformare i muri di pregiudizi e d’indifferenza innalzati nel tempo in ponti di solidarietà e interculturalità. Perchè l’emergenza sanitaria finirà solo quando TUTTO questo finirà.
Qui una petizione online per estendere a tutte le persone in condizione di irregolarità il permesso di soggiorno e i diritti (anche sanitari) che ne derivano.