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DSA? Se ci dessero una possibilità

DSA? Se ci dessero una possibilità

A sei anni il dettato era la mia personale forma di inferno, tutte quelle lettere simili, quelle parole che la maestra urlava velocissima e io che dovevo rincorrerle prima che mi sfuggissero. I miei temi erano pieni zeppi di segni rossi contro i miei blu, e le mie parole non entravano mai in quei quadretti ma invece, sembravano sempre seguire delle linee immaginarie tutte loro. Imparare a memoria le poesie era una tortura. Un po’ come cercare di intagliare delle parole su un muro e appena finito di scrivere la prima (dopo tanta fatica perché lo hai fatto con un piccolo coltello da formaggio), immediatamente la parete la cancella. Destra e sinistra sono concetti che mi confondono come per l’orologio, sono riuscita a capire come funziona (e a non dimenticarlo subito dopo), solo in prima media. Allacciarmi le scarpe? Un insieme di sequenze confuse che dimenticavo subito. Solo quando ho smesso di cercare così tanto di imparare a fare le cose seguendo i modi che funzionavano per gli altri, ma non per me, ho iniziato a imparare per davvero. Ad otto anni è arrivata la diagnosi di DSA, che a quei tempi nessuno capiva cosa volesse dire, e appena i miei me l’hanno detto sono scoppiata a piangere convinta che stessi per morire. Nessuno mi ha mai spiegato che voleva dire avere più difficoltà della media ad apprendere, e che i metodi che funzionavano per gli altri, non funzionavano per me. Allora ero convinta che fosse questa terribile croce che il destino mi aveva lanciato, e che avrei dovuto portarmela coraggiosamente addosso per il resto della vita. Vedevo troppi cartoni animati. Ed ero convinta di essere come uno di quei coraggiosi eroi in tv che combattevano i mostri a suoni di cazzotti e spade, solo che al loro posto, io avevo una fervida immaginazione, gli occhiali fucsia di Hello Kitty e costanti malditesta per lo sforzo di studiare.

 L’AID (associazione italiana dislessia) dà questa definizione:

“I Disturbi Specifici dell’Apprendimento (DSA) sono disturbi del neuro-sviluppo che riguardano la capacità di leggere, scrivere e calcolare in modo corretto e fluente e che si manifestano con l’inizio della scolarizzazione.”

Quindi, DSA è un grande gruppo che include: discalculia (difficoltà nel calcolo), dislessia (nella lettura), disortografia (nella scrittura) e disgrafia (nella grafia).  Molte volte, però, quando ne si parla (in modo colloquiale), si dice “dislessico” perché fino a qualche anno fa era ritenuta la definizione generale, che poi nel documento diagnostico veniva specificata e divisa in disortografia, dislessia, disgrafia e discalculia, con i relativi “livelli” di gravità.

Anche se nel 2008, la piccola me, si stava preparando a dire addio a tutte le sue bambole preferite, convinta di aver sviluppato un male incurabile, gli studi che ci sono stati (soprattutto negli ultimi anni) parlano chiaro; “ i disturbi specifici dell’apprendimento” anche se hanno la parola “disturbo”, non sono una malattia incurabile,  (cosa del quale i mei insegnati da piccola mi avevano convinta) ma si tratta semplicemente di caratteristiche neurologiche che portano alla necessità di apprendere in modo diverso, non è qualcosa che si ha, ma qualcosa che si è. Non è una patologia, e non è contagiosa, mettiamola così: Giulia ha i capelli biondi, Alessia gli ha neri, è una caratteristica loro che fa parte della loro identità e di come si muovono nel mondo, non hanno “la malattia dei capelli neri” o quella dei capelli biondi. E questo concetto, nonostante dopo anni e anni di studi dovrebbe essere chiaro a chiunque (soprattutto a chi con ə bambinə ci lavora), purtroppo non accade spesso, anzi, quasi mai. Nel 2009 è stata emanata una legge che tutela le persone dislessiche (e me lo ricordo molto bene, perché i miei genitori comprarono una torta gelato per festeggiare), ci sono ancora troppe persone che non hanno idea di che cosa voglia dire essere dislessicə, e soprattutto troppe persone che lavorano in ambiti dell’educazione che hanno informazioni confuse (ammesso che le abbiano) e che non hanno la più pallida idea di come aiutare ə bambinə che si trovano in classe accompagnatə da questa diagnosi, di cui hanno sentito parlare, ma di cui di pratico non sanno niente. 

Quando dico ad amicə, genitori spaventati, ed “espertə” che ho imparato a leggere e a scrivere da sola, i loro visi si illuminano e mi guardano con un misto di ammirazione e sospetto. “Sei dislessica ma sei una ragazza molto intelligente, nonostante la diagnosi”, questa frase mi è stata ripetuta più volte, come se “l’intelligenza” avesse qualcosa a che fare con il modo in cui imparo le cose, però su una cosa hanno ragione: ho dovuto imparare da sola. Ad allacciarmi le scarpe, a scrivere, a fare i calcoli con le dita, ad usare i colori negli schemi, e soprattutto: a capire che essere dislessica non voleva dire essere stupida. La quantità di battute e sguardi preoccupati ogni volta che dicevo “ah, sì sono dislessica”, è stata senza alcun dubbio enorme. È molto triste, quando avviene da insegnanti, presidi, e educatorə che di dislessia dovrebbero saperne. Nei miei tredici anni di scuola ho incontrato diversi ragazzə con difficoltà come le mie, e moltə di loro, completamente lasciatə a loro stessə, hanno finito per lasciare la scuola a sedici anni e iniziare a lavorare in qualche pizzeria come fattorinə.  Quando mi fermavo a parlarci, mi dicevano che la scuola non era per loro, che non “sono portatə per lo studio”, con un’alzata di spalle e uno sguardo triste. Ho riconosciuto subito quello sguardo. È lo stesso che ho avuto io quando in terza elementare la mia maestra di matematica mi ha consegnato il compito in classe con un enorme “insufficiente” cerchiato in rosso. Mentre tuttə lə altrə bisbigliavano i loro voti entusiasti, a me era riservato il solito foglio pieno di sbagli rossi, e uno sguardo esausto dell’insegnante, che “non c’è la fa più con me”.  O ancora, dopo che piena di entusiasmo e paura, prendevo il tema di italiano, sicura di esser migliorata (mi esercitavo appena tornavo da scuola con i miei racconti) la mia emozione spariva dal mio viso appena vedevo tutte le parole cerchiate con la penna scura, tutti quelle regole di grammatica che continuavo a confondere, e che distruggevano la piccola storia che avevo creato. “Ottimo contenuto ma scarsa forma”, leggevo ogni volta. Ricordo, qualche anno dopo, un’aula calda, i banchi verdi sistemati in quattro file ben distinte, ə miə compagnə ridevano, lanciavano palline di carta, mentre io stavo lavorando alla mia storia su un foglio a quattro che avevo strappato all’ennesimo quaderno malcapitato. Era l’ora di matematica. Il professore ci guardò unə ad unə. Io avevo gli occhi fissi sul foglio, la mia protagonista stava sfoderando la spada contro un migliaio di piccoli alieni blu, mentre la flotta si allargava da una parte all’altra del campo. Il suono metallico delle spade, le urla di dolore, l’odore di sudore e lacrime. Il terriccio umido sotto gli stivali. Il capo alieno si fece avanti, il suo corpo blu era traslucido, assomigliava ad un enorme budino deforme, strisciava come una lumaca lasciando una patina azzurra. Aveva il singolo occhio al centro della testa fisso su Bianca, il momento che stavano aspettando era arrivato. 

Lei fece un passo in avanti, tutti i sensi in allerta. Il Capo alieno si fermò. La guardò. L’aria immobile, il rumore della battaglia attorno a loro era ovattato, c’erano solo loro due: la Comandante delle flotte ribelli, e il Capo alieno. Il momento che avrebbe definito il destino dell’umanità. Bianca urlò pronta all’attacco e in quel momento…

“Sassanelli?”

Alzai lo sguardo.

C’era silenzio in aula.

La gola mi divenne secca.

“Alla lavagna.”

Mi alzai lentamente nascondendo il foglio sotto il quaderno. Avevo la testa bassa, il cuore batteva forte.

Tuttə ə miə compagnə mi osservarono mentre raggiungevo la lavagna, alcunə si misero a ridere, presi il gessetto bianco e fissai l’espressione scritta sul fondo nero. 

“Allora, da dove iniziamo?” Mi chiese il professore. Lo guardai, poi l’espressione. 

“Dalla prima parentesi, Sassanelli.”

Annuii e iniziai. 

“Il calcolo.”

Lo guardai confusa.

“Devi calcolare”.

Sbiancai. 

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I miei compagni si ammutolirono. 

“Non mi dire che non sai fare nemmeno questo.”

“Ecco, io non dovrei, cioè non riesco senza-“

“Calcolatrice?”

Annuii. Mentre strinsi il gessetto nella mano.

“Sempre ad usare quella cosa, non mi dire che non riesci neanche a fare un calcolo così semplice, qualunque dei tuoi compagni ci riuscirebbe, uno delle elementari lo saprebbe fare.”

Rimasi immobile, gli occhi mi bruciavano dalle lacrime che volevano uscire. Voglio saperlo fare, ma senza i miei strumenti non riesco, so che non riesco. Non ci sono mai riuscita. Pensai spingendole via. 

Lui sospirò.

“Vai a posto.”


Nei miei quattordici anni di scuola, e soprattutto nei primi anni, ogni giorno per me era una lenta tortura, ero sempre quella “scema” per lə insegnanti, che mi chiedevano arrabbiatə se fossi veramente stupida o se lo facessi apposta. Mentre io volevo scomparire. Immaginavo di voltarmi verso la parete e affondare la gamba verso il muro, attraversandola. Il portale si sarebbe chiuso dopo di me, e tra me e loro ci sarebbe stata un’altra dimensione. Essere dislessica non è qualcosa che “smette di esserci”, perché appunto non è “qualcosa che ho”, ma è parte di quello che sono. E da adulta, mi capita ancora di trovarmi in situazioni in cui mi viene chiesto di “leggere qualcosa a tutti”, o di fare un calcolo veloce sul momento, che io non riesco a fare. Solitamente mi faccio forza e trovo un modo, però ci penso spesso alla me bambina. A come avrebbe iniziato a tremare mentre fissava il foglio pieno di parole a cui si sforzava di dare un senso, al cuore che mi martellava nel petto ogni volta che ero al supermercato e non avevo i soldi precisi, così che mi risparmiassi il disagio del calcolo. Il terrore di essere vista per quello che ero; una ragazzina che funzionava in modo diverso, e di essere odiata per questo. E mi chiedo come siano adesso le cose, per tuttə ə bambinə e ragazzə che si trovano sedutə nelle loro sedie scomode con i gomiti poggiati sui loro banchi verdi, mentre fissano la lavagna cercando di decodificarne la frase. Mi chiedo a come si sentano, solə, in mezzo a persone che dovrebbero guidarlə, ma che non sono sempre in grado di farlo. E mi chiedo a come invece potrebbe essere, se iniziassimo a studiare di più, a conoscere tutte quelle centinaia di studi e nuove tecniche di apprendimento, che ci dicono che esistono diversi modi per imparare, che ogni cervello è diverso, è che imparare è faticoso per tuttə e per questo è necessario avere una buona guida, in un ambiente che sia sereno. Se lə insegnanti avessero le risorse di cui hanno bisogno, se chi lə assume conoscesse a fondo l’importanza e l’enorme valore che hanno nelle loro mani. Se lə insegnanti venissero giustamente istruitə, accoltə e retribuitə. Se questo paese avesse più fiducia neə suə ragazzə, se avesse veramente voglia di ascoltarlə, di dar loro
una possibilità. La mia esperienza di studentessa è stata complicata, piena di dolore e di persone crudeli che odiavano il loro lavoro e che consideravano ə ragazzə come esseri inferiori che erano costrettə a sopportare. Ma allo stesso tempo ho avuto l’occasione di vedere la potenzialità che c’è nelle loro mani, e dello spreco che ne si fa. Se come insegniamo cambiasse, se accogliessimo invece di rifiutare, se sapessimo che ə studentə non solo allievə ma anche umanə, forse allora sì, che le cose inizierebbero a cambiare.

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