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Le Violon d’Ingres: una visione oltre un corpo o l’elaborazione di una provocazione?

Le Violon d’Ingres: una visione oltre un corpo o l’elaborazione di una provocazione?

Le Violon d’Ingres è lo scatto più famoso del poliedrico artista Man Ray.
Il più famoso e il più costoso.

Nel maggio 2022, una copia originale dell’epoca, 1924, è stata battuta per 12,4 milioni di dollari in occasione di un’asta da Christie’s. La più grande casa d’aste del mondo, fondata nel 1755 da James Christie, ha ospitato The Surrealist World of Rosalind Gersten Jacobs and Melvin Jacobs, la collezione dei coniugi Jacobs che, secondo un’ispirazione e non una costruzione di natura scientifica e commerciale, ha preservato i pezzi più rappresentativi dello spirito dei movimenti Dada e Surrealista. Nel mercato dell’arte questo è il prezzo più alto attribuito a una foto originale.
Per foto originale si intende quella serie di scatti, quindi una tiratura, o quell’unico scatto su una specifica carta e con una tecnica di stampa precisa e indicata nella descrizione tecnica, seguita nella sua realizzazione fisica se non direttamente, almeno nella scelta iniziale e nell’approvazione finale dall’artista che ha ideato e realizzato lo scatto. In questo caso alla stampa si è aggiunto l’intervento a mano. Le due f che sintetizzano la viola sul corpo della modella sono state realizzate a mano con il colore.

Per fortuna ci sono i musei! Al Musée National d’Art Moderne ospitato nel Centre Pompidou di Parigi si può vedere una delle copie dell’opera, che però si potrebbe anche identificare non come facente parte di una tiratura ma come opera unica. Perché tutte le stampe di questo scatto hanno subito una rielaborazione manuale da parte dell’artista e questo rende unico l’oggetto finito. Il termine da cui partire è tecnica mista, proprio perché sono coinvolte più tecniche, si tratta però di una definizione ombrello troppo generica. Lo scatto, 24,7×31 cm, è realizzato su carta in gelatina d’argento: il processo chimico che si usa di più per la stampa in bianco e nero ed è quello che ha permesso la nascita della fotografia di tipo industriale; su questa stampa Man Ray ha apposto a mano, con un tratto che ricorda quello del pennarello, le due f. Ogni stampa quindi non ha solo la firma del suo ideatore e realizzatore, ha anche l’indicazione dell’eventuale tiratura di stampa che è indicativa delle copie che sono state realizzate per la vendita, a esclusione delle prove di stampa e d’autore. Le P.D.S. e P.D.A. non fanno parte della tiratura e sono prove, appunto, che vengono realizzate prima della scelta definitiva, queste implicano imperfezioni e/o difetti che non si vogliono presentare nella tiratura. Nell’opera in questione il tratto a mano su carta rende l’opera unica, e non uguale alle altre stampe con la medesima impressione fotografica. Questo ha inciso indubbiamente sul valore economico che gli è stato attribuito in sede d’asta.

Nell’epoca in cui il replicabile diventa momento di esaltazione ma anche di serio sconvolgimento rispetto al concetto di opera unica, gli artisti cercano di non perdere l’aura dell’autenticità anche con questi interventi manuali. Nel caso di Le Violon d’Ingres anche quel corpo è stato riprodotto più e più volte, si tratta del corpo di Kiki de Montparnasse, scrittrice e cameriera, cantante e sex worker, illustratrice e modella anche del fotografo statunitense che amò talmente tanto gli anni ’20 a Parigi da scegliere di tornarci dopo la Seconda Guerra Mondiale. Si era allontanato dalla Capitale francese per le sue origini ebraiche tornando a vivere a New York dove iniziò a lavorare anche nell’ambiente legato alla moda. Sulle pagine di «Vogue», «Harper’s Bazar», «Vanity Fair», i suoi scatti saranno iconici per la moda surrealista di Elsa Schiapparelli, famosissima per il rosa schocking che fino a poco tempo fa veniva ricordato con il nome della stilista italiana, anche i colori hanno un loro percorso percettivo legati ai momenti storici.

Prima di diventare Man Ray, il pittore e poi fotografo e regista, era Emmanuel Rudzitsky, Man ricordava un suo appellativo da bambino, Manny, aggiungere Ray lo trasformò nell’uomo razzo.
Davanti alla sua macchina fotografica: Kiki, la regina di Montparnasse. Kiki non è un’artista nel senso più letterale del termine, non ha fatto ricerca filosofica né è stata un’attivista politica, ma la sua presenza era non solo ispirazione, ma una costanza negli ambienti intellettuali di Montparnasse. Il suo caschetto è tra i fili di ferro delle sculture di Alexander Calder, crea luce grazie ai piani di Pablo Gargallo e si allunga sulle tele di Modigliani. A lui e alla sua straziante storia personale dedicherà un intero capitolo. La sua biografia, Infinitamente prezioso, nella traduzione in italiano, è il primo libro con una prefazione di Ernest Hemingway, all’epoca la sua prima prefazione, sarebbe dovuta rimanere l’unica secondo le premesse dello scrittore, ma nel 1934 ne scrisse un’altra per il libro di Jimmie Charters, il barman del Dingo in rue Delambre, e anziano pugile professionista di Liverpool.
Hemingway sicuramente aveva una predilezione per i personaggi che creavano le storie più che per i suoi colleghi scrittori che si limitavano, come lui, a raccontarle. E Kiki de Montparnasse non solo ha creato una storia ma ha raccolto in sé un momento storico. Nella sua autobiografia racconta la sua infanzia povera e il suo arrivo a Parigi, ancora con il nome di Alice Prin, nella totale indigenza, si avvicina al mondo dei Dadaisti perché frequenta i locali, non come avventrice ma come cameriera e lavapiatti prima, e come cantate dopo, usa il suo corpo perché è quello che le permette di servire ai tavoli e di diventare un’icona negli occhi di chi la raffigura.

«Usciamo con dei tipi che si chiamano dadaisti e altri che si fanno chiamare surrealisti, ma io non riesco a vedere questa gran differenza tra loro! C’è Tristan Tzara, Breton, Philippe Soupault, Aragon, Max Ernst, Paul Éluard. […] Le notti le passiamo a parlare, il che non mi dispiace affatto, anche se non riesco a capire di che cosa si stia parlando».

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Nella sua biografia, il suo racconto della Parigi degli anni Venti/Trenta risulta naïf, ma fa entrare in un’epoca e spiega, anche se non letteralmente, il suo corpo nello scatto pubblicato per la prima volta nel tredicesimo numero, giugno 1924, della rivista «Littérature» di André Breton, Louis Aragon e Philippe Soupault.
Il lavoro di Ray richiama palesemente, e per la stessa dichiarazione del fotografo, La bagnante di Valpinçon, dell’artista francese Jean-Auguste-Dominique Ingres, e da questo prende il nome. L’olio su tela 97,5×146 cm ritrae una donna di schiena, ma con il volto ritratto dalla parte opposta rispetto a Le Violon d’Ingres. Il quadro del 1808 è conservato attualmente al Louvre, Parigi, e il suo autore ha fatto nascere un’espressione legata al suo nome: Ingres non era solo un pittore ma un eccellente violoncellista, e verso la fine dell’Ottocento si usava la similitudine Le Violon d’Ingres che intendeva dire alla persona, alla quale si rivolgeva, che sapesse fare più cose egregiamente. Si può leggere in questo titolo e nella sua citazione quindi anche una forma autoironica, che ben si confà al Dadaismo. Come già dimostrato anche in un altro lavoro dell’artista americano: i ritratti di Rrose Sélavy, l’alter ego al femminile di Duchamp, i cui primi scatti vennero realizzati da Man Ray nel 1921, più di un secolo prima del lavoro con le Polaroid di Ulay. Man Ray dedicò molto del suo tempo non solo alla sua arte ma anche ad altre passioni. In questo caso il suo violoncello sarebbe letteralmente il suo interesse costante per le figure femminili, non compagne, e neanche muse, ma un’attività con cui impiegare il tempo.
Del resto Kiki nella sua biografia, Souvenir, titolo originale in francese, ricorda il suo primo incontro con l’artista: «il primo pomeriggio non facemmo neanche uno scatto». Il loro rapporto si caratterizzava di alti e bassi e di liti che riecheggiavano nel Jockey, il locale che faceva da cornice ai bohémien che scelsero Parigi per la creazione di nuovi e indicativi movimenti artistici.
«I Surrealisti e io siamo in rotta. A parte alcuni che sono veramente convinti, come Desnos, Aragon Man Ray, Prévert e pochi altri, considero tutti gli altri personaggi inaciditi».
E successivamente dirà di Man Ray: «sono stata io a dargli il suo genio». E se questa espressione può apparire quella di una persona delusa da una relazione finita male, in realtà ha un chiaro cenno di concretezza proprio nell’opera in analisi.

La provocazione e gli stimoli esterni della realtà sono stati presi dell’artista che ha trasformato la sua contemporaneità in un atto personale che è diventato iconico, e quindi leggibile a tutti.
Durante una lite, Kiki rivolgendosi a Man Ray, urlò che non voleva essere trattata come un suo oggetto. Lui prese i colori e la trasformò in un violoncello, il suo personale Violon d’Ingres. La quotidianità è diventata l’espressione di un tempo e di uno spazio mentale e fisico che oggi legge ancora quel tempo e anche il nostro: nel 1990, il fotografo Joël-Peter Witkin reinterpreta l’opera dadaista con Woman Once a Bird, usando la citazione per descrivere la modificazione corporale e l’assenza di genere e sessualità. Un tema vagliato fortemente in quegli anni e che diventa focale nella discussione sociale contemporanea.

Bibliografia e sitografia
• Kiki de Montparnasse, Infinitamente prezioso, Milano, Excelsior 1881, 2007.
• www.doppiozero.com, Silvia Bottani Kiki de Montaparnasse; una vita larger than life, marzo 2023 (consultato il 18 novembre 2023)
• www.vanillamagazine.it, Daria Cadalt, Gli amori e i “mestieri” di Kiki – Regina di Parigi, 13 dicembre 2022 (consultato il 18 novembre 2023)
Credits
Immagine cover sito
Man Ray, Le violon d'Ingres, 1924, © Man Ray Trust / Adagp
https://itoldya420.getarchive.net/media/view-of-paris-from-the-centre-georges-pompidou-ncosfvwg-gu-e5a9c0
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Immagine sito orizzontale
https://picryl.com/media/portrait-of-man-ray-paris-1
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