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“Ci vorrebbero più maestri uomini”
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“Ci vorrebbero più maestri uomini”

Quante volte abbiamo sentito questa frase? Soprattutto da docenti di scuola primaria e tra genitori di bambini e bambine, questa frase ritorna spesso quando si analizzano i rapporti di parità nella società e il ruolo dell’educazione scolastica, diventando così quasi un luogo comune.

Questa frase dimostra che il problema della parità a scuola è percepito, come molti altri problemi di parità, in un modo particolarmente distorto. Si parte da una visione superficiale del problema di parità: dove manca un genere, mettiamocelo. Ci sono solo maestre alle elementari e alla scuola dell’infanzia? Mettiamoci i maestri ed equilibriamo i numeri, e così l’educazione per genere sarà equilibrata. Nessuna questione legata a ciò che insegnano, agli strumenti che si usano per la didattica, alla specifica preparazione dei e delle docenti a proposito di questioni di genere: basta che siano in pari numero uomini e donne, e a posto così. Questo del personale scolastico è un ottimo esempio di come vengano generalmente percepiti i problemi di genere nelle istituzioni e nei luoghi di lavoro. Per molte persone la parità numerica basta e avanza per determinare parità di diritti, di trattamento, di considerazione, di risultati, di valutazione. Purtroppo non è affatto così e per un doppio ordine di problemi.

In primo luogo, gli stereotipi e i pregiudizi di genere colpiscono indifferentemente chiunque, anche se hanno effetti diversi su persone diverse. Quindi potremmo avere un ambiente di lavoro con un personale equamente distribuito tra i generi ma maschilista, perché quella è la cultura vigente in quel gruppo di persone; come si potrebbe avere un ambiente a maggioranza maschile nel quale la parità di genere è garantita da regolamenti e strumenti di formazione. Non è la presenza dei generi a garantire l’esistenza di una pratica paritaria, in qualsiasi situazione, e neanche a certificare che non sia possibile. In secondo luogo però, è anche vero che senza una precisa conoscenza dei problemi di genere, ciascunǝ potrebbe continuare a polarizzare la propria posizione secondo i tradizionali ruoli assegnati al proprio genere. In breve, in qualsiasi ambiente nel quale sono presenti persone di genere diverso sarà inevitabile che s’instauri una tradizionale gerarchia tra uomini e donne, se non intervengono fattori di contrasto alla mentalità patriarcale vigente. Il problema di genere è sempre un problema di sistema. Pensare di riequilibrare una situazione dispari per genere collocandoci le persone del genere “mancante” può essere utile, ma fino a un certo punto, se non si individuano e rimuovono i motivi per cui in quell’ambiente è presente tale disparità.

Nel caso dell’insegnamento nelle scuole dell’infanzia ed elementari, i fattori che incidono sulla presenza massiccia delle donne rispetto agli uomini sono noti e sono diversissimi:

– la tradizionale figura femminile vista e voluta socialmente come la più adatta a occuparsi di bambinǝ e al lavoro di cura (intrinseco nel ruolo della scuola)
– l’idea – sbagliata – che sia un lavoro sostanzialmente privo di aspetti che riguardano la ricerca e l’aggiornamento, cioè privo di impegno al di fuori dell’orario scolastico e quindi compatibile con la vita familiare di una donna più che con quella di un uomo, più “idoneo” a quello che ci si aspetta da una donna;
– lo stipendio basso quindi poco appetibile dal “primo” portatore di reddito familiare, tradizionalmente un uomo;
– il fatto che l’insegnamento sia socialmente considerato (almeno in Italia) di scarso prestigio sociale e di scarse possibilità di carriere prestigiose, e quindi non attragga gli uomini.

Tutto questo porta a guardare in modo “strano” e ironico l’uomo che sceglie di diventare maestro, come se si stesse in qualche modo svalutando, ridimensionando; come se si stesse tarpando le ali e auto-limitando le sue possibilità date dal ruolo che potrebbe svolgere in società.

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In più, va ricordato che i docenti sono uomini e donne natǝ e cresciutǝ in una società (italiana) che ancora fatica molto a rendere le persone consapevoli di stereotipi e pregiudizi legati al genere, e non è affatto certo che nel loro percorso di studi siano preparati su questi argomenti. L’idea che una secolare disparità strutturale si possa “riequilibrare” semplicemente disponendo i generi a coppie, come in un ballo di gruppo, risulta inutile se non è accompagnata da un investimento culturale ed educativo, e dimostra di non aver capito nulla della questione parità, del patriarcato. C’è un mondo culturale che va “equilibrato” (cosa vorrebbe dire, poi?) e proprio perché è un problema sistemico, questo principio non vale solo per la scuola. Le disparità di genere sono tutte legate l’una all’altra, e non si può pensare di correggerne una e lasciar stare le altre: le nostre società sono organismi viventi, osmotici, permeabili e le dinamiche dei condizionamenti culturali non sono fermate da pareti, istituzioni, titoli accademici o confini comunali.

Non ci vorrebbero più maestri uomini, allora, ma più persone e una società che si rendano conto delle responsabilità dei propri condizionamenti di genere. È più complicato? Certamente. Ma il risultato può fare davvero la differenza.

Bibliografia:
Irene Biemmi, Genere e processi formativi. Sguardi femminili e maschili sulla professione di insegnante, ETS
Manuel Rapino, Essere maestro. Uomini e lavoro di cura, Tabula Fati
Artwork di Chiara Reggiani
Con immagini di Bima Rahmanda, NeONBRAND, Lucas George Wendt su Unsplash e di LIGHTFIELD STUDIOS, Gorodenkoff.
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  • La cosa grave è che le docenti non sono riconosciute nella loro professionalità. Questo è il mio trentesimo anno di insegnamento e la cosa che comincia a pesarmi è la squalifica professionale di cui siamo oggetto. Il nostro lavoro ha più ore in smart working, a prescindere dalla pandemia, di qualsiasi altro lavoro, ma questo non è mai stato riconosciuto. Durante la pandemia la DAD è stata asfaltata, perché noi non abbiamo insegnato, in quanto è mancata la parte più importante: la babysitter di stato. Non veniamo valutate come insegnanti siamo solo accudenti. La pubblicità, patetica, che vediamo in questi giorni è la peggiore versione dell’idea di insegnante a cui si fa riferimento:
    1)un uomo anzichè una donna ( il settore che vede più donne impiegate è quello dell’insegnamento, dato matematico al quale si abbina quello dell’INVALSI che ricorda il basso livello dell’insegnamento);
    2) una classe di 13 alunni mai vista nella scuola pubblica ( la mia classe ne conta 23);
    3) il sogno di tutti i genitori, il bravo insegnane che tiene i figli anche di notte;
    4) l’incubo di tutti gli insegnanti che si ritrovano gli alunni anche di notte ( inqualificabile perché di notte dobbiamo occuparci delle scartoffie!!!)
    Quando si dice che ci vuole il maestro non è per pareggiare i conti, ma per dire che solo un uomo può essere maestro. Qualche tempo fa su tv talk, venne invitata la mitica Leosini e un giornalista la chiamò maestra, subito aggiungendo “in senso buono”; quando si parla di maestri invece si dà per scontato che il senso è sempre buono.
    Il problema è che noi donne-insegnanti non ci siamo mai fatte valere. Abbiamo molto da insegnare ai nostri bambini come ai nostri detrattori, a cominciare dal rispetto per la nostra professionalità!

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