La decisione della rivista Fucsia di rendere la modella Julieta Piñeres, originaria della città di Cartagena, protagonista del numero dedicato al festival afro più grande dell’America Latina, il Petronio Álvarez, ha provocato un’ondata di indignazione sui social network e sui media colombiani rispetto alle tematiche della rappresentazione e appropriazione culturale.
La rivista di moda Fucsia, pubblicata a Bogotà dalla casa editrice Semana, si trova ad affrontare pesanti critiche per aver voluto “omaggiare” un festival afrocolombiano con la foto in copertina di una modella bianca. E con tutte le ragioni del caso, dal momento che in un Paese come la Colombia, che sbandiera ai quattro venti la propria multietnicità e multiculturalità, l’appropriazione culturale e il razzismo sono apparsi in copertina più di una volta, contribuendo così a rafforzare i ruoli di potere, i privilegi delle persone bianche meticce, il razzismo e l’emarginazione sistematica della popolazione afrocolombiana.
Il Petronio Álvarez è una delle più grandi celebrazioni latinoamericane di discendenza afro. Prende il nome dall’omonimo grande musicista e compositore afrocolombiano nato a Buenaventura nel 1914, e le sue 23 edizioni hanno riunito più di 600.000 persone con l’obiettivo di rivendicare e celebrare le manifestazioni musicali, gastronomiche e culturali dei popoli della regione pacifica della Colombia, abitata da un’alta percentuale di persone afro che, nonostante siano state vittime di saccheggi ed emarginazione sistematica, costituiscono anche un esempio di resistenza contro i casi di razzismo strutturale e discriminazione verificatisi nel Paese.
Tuttavia, nonostante gli obiettivi dell’evento siano piuttosto chiari, è proprio dallo stesso festival che, anno dopo anno, emergono casi di razzismo perpetrati da parte della popolazione colombiana. E in questa occasione le protagoniste dell’episodio di razzismo e appropriazione culturale sono state la rivista Fucsia e la modella raffigurata in copertina.
Il razzismo nei media colombiani è considerato la norma così come lo è nella vita sociale quotidiana dell’intero Paese. Infatti è solo in situazioni in cui il razzismo è davvero evidente, come nel caso della copertina della rivista Fucsia, che la gente si indigna e riconosce le dinamiche dell’appropriazione culturale e del razzismo. È interessante notare come la maggior parte degli utenti che commentano le foto di Fucsia abbia intuitivamente percepito ed espresso che c’era qualcosa che non andava in quell’uscita; è tuttavia incredibile notare anche come continuino a essere pubblicati commenti razzisti come questo, condiviso da una donna afro sul profilo Instagram della modella Julieta Piñeres: “I più razzisti sono i neri che discriminano questa donna come se il fatto di essere bianca fosse per lei una colpa”.
Povera Julieta. Non è colpa sua se gode di talmente tanti privilegi da non rendersi conto di quanto lei stessa abbia una condotta razzista. Quel razzismo che tante donne con (e fortunatamente anche senza) discendenza afro hanno tentato di spiegarle in tutti i modi e con tutte le argomentazioni.
Come donna afrocolombiana che ha lavorato nel mondo dei mass media in Colombia ho potuto vedere il razzismo, la discriminazione e il privilegio bianco sotto molte forme. Sia nel limitato ventaglio di opportunità di rappresentazione nei media che viene offerto a noi donne nere, sia nelle differenze abissali in materia di trattamento e remunerazione economica che viviamo nel nostro lavoro.
Di conseguenza vediamo i mass media inondati di gente bianca perché “gli afro e gli indigeni sono una minoranza”. La Colombia è il secondo Paese latinoamericano con la maggior popolazione afro, e, senza svalutare il lavoro, l’impegno e il talento delle cinque presentatrici nere che lavorano per la televisione nazionale, sono sempre loro a essere prese come esempio per dimostrare che i media sono “inclusivi”. Come se vantare una “minima quota di persone di colore” li rendesse meno razzisti.
Vorrei far presente che non ho mai visto nessun colombiano indossare gli abiti che portava Julieta nella foto di copertina della rivista. E sebbene per parlare in maniera più approfondita di questo avrei bisogno di svolgere un’indagine piuttosto accurata, vale comunque la pena chiedersi se tutti i capi d’abbigliamento di un Paese o comunità del continente africano siano in grado di rappresentare tutti i contesti e le regioni in cui si riscontri la presenza di una parte di popolazione di colore. Siamo sicuri che una donna della regione pacifica della Colombia, ad esempio, si senta rappresentata da un capo d’abbigliamento, supponiamo, nigeriano? E questo è proprio il principio base dell’appropriazione culturale: banalizzare, decontestualizzare, commercializzare e privare di significato e radici gli elementi di una cultura sconosciuta da quanti se ne appropriano. E la domanda che ho appena posto vale sia per le persone bianche che per i nostalgici discendenti afro della diaspora.
In Colombia si giustifica l’appropriazione culturale e si nega la realtà della discriminazione che subisce la popolazione afro vittima dell’ideologia del meticciato (“processo che si concretizza nell’omogeneizzazione – dei popoli – della nazione e nell’occultamento di una realtà di esclusione razzista dietro una maschera di inclusività”, NdT). In uno dei miei ultimi post su Instagram ho condiviso un estratto scritto da Ochy Curiel, docente universitaria, lesbica e femminista, pioniera degli studi decoloniali, in cui cita (Lovell:1991):
“Il dare visibilità al razzismo nelle società latinoamericane e caraibiche è stato l’arduo compito di cui si sono dovute occupare le organizzazioni di donne con discendenza afro. A causa dell’ideologia del meticciato, il razzismo si associa a esperienze legate all’apartheid o al segregazionismo come nel caso degli Stati Uniti o del Sud Africa” (Curiel, 2007).
Tuttavia è indubbio che le società latine siano profondamente razziste e che si facciano scudo con il meticciato per rinnegare il proprio razzismo e per impadronirsi degli spazi di rappresentazione e visibilità. Anche Julieta Piñeres ha agito in questo modo, nella sua prima dichiarazione riguardo il dibattito:
“Sono molto orgogliosa di rappresentare una delle feste nazionali più belle alle quali io abbia mai partecipato. La Colombia è un incrocio di molte culture e ciascuno di noi ne porta con sé una parte, nel proprio sangue e nella propria pelle, nonostante il colore della propria carnagione non lo dimostri. Mi rammarico profondamente del fatto che alcuni credano che la cultura afro appartenga a un solo gruppo di persone. Il fatto che chiunque desideri rendere omaggio a questa cultura da un punto di vista insolito venga attaccato mi lascia incredula. Sarebbe auspicabile che smettessimo di considerarci regioni o colori e cominciassimo a vederci più come un Paese. Troveremmo sicuramente un cammino più rapido per progredire verso una società inclusiva, liberandoci degli stigmi del passato. Appropriamoci tutti delle nostre radici e sfoggiamole con orgoglio e senza timore. Grazie @revistafucsia”.
È evidente che la modella ha inteso molto bene l’obiettivo della strategia del meticciato in Colombia: eliminare ogni traccia della cultura nera. Non siamo un Paese meticcio perché qui non c’è razzismo, lo siamo perché la Colombia è un Paese razzista che ha sempre auspicato una supremazia bianca. Per fare in modo che svaniscano alcune di queste tracce nere. E questo è quello che ha fatto la rivista Fucsia scegliendo di pubblicare una donna bianca in copertina, affinché tutte le attenzioni rimangano concentrate sul modello di donna bianca e borghese e non sulle figure nere più importanti del Petronio.
Nel post condiviso da Julieta, quest’ultima include il tipico concetto del “benché non si noti, abbiamo tutti discendenze afroamericane”. L’antropologo Eduardo Restrepo, direttore del master in studi afrocolombiani dell’Universidad Javeriana di Bogotà, ha commentato così le argomentazioni di Julieta Piñeres: “Tali affermazioni evidenziano l’opportunismo culturale proprio del punto di vista multiculturalista liberale sulle diversità, che oltre a confondere colore e cultura, disconosce le relazioni di potere che storicamente hanno costituito il retaggio e l’immaginario dominante sulla fisicità delle persone di colore”.
Inoltre la modella “si rammarica” del fatto che “alcuni credano che la cultura afro appartenga a un solo gruppo di persone”, invitandoci, con il suo “rammarico”, a porre in discussione il fatto che in un Paese che ha reso invisibili le persone nere che hanno dato un contributo rilevante alla creazione di questa Nazione, in un Paese che esclude le persone nere da luoghi di prestigio e di interesse, in un Paese che ci bombarda di standard di bellezza eurocentrici sulla maggior parte dei media, in poche parole: in un Paese razzista come la Colombia, non sia possibile lodare la cultura afro da una posizione di privilegio bianco.
Dal mio punto di vista, è decisamente assurdo e offensivo che la rivista Fucsia dica di rendere omaggio alle persone rappresentate dal Petronio pubblicando in copertina una donna bianca che indossa un’accozzaglia di capi che nemmeno appartengono alla regione pacifica della Colombia (senza nemmeno un riferimento all’origine dei capi o al loro significato, magari perché nemmeno sanno quale sia) e utilizzando, all’interno della rivista, una foto in cui la medesima figura femminile viene raffigurata, ancora negli abiti di cui sopra, circondata da sette uomini neri in posa dietro di lei, come se non si trattasse di esseri umani, bensì di oggetti scenografici.
La cultura afro è dunque esclusiva di quanti sono di colore? Per quanto mi riguarda, una cosa è godere della bellezza della cultura afro: tutti possiamo farlo. Altro discorso è invece appropriarsene senza riconoscerne l’origine delle tradizioni, come se si trattasse di qualcosa di esotico, un semplice travestimento, scavalcando completamente quanti l’hanno ideata. Un esempio è dato dalla recente disputa sul Viche, una bevanda tradizionale dei popoli pacifici di cui hanno tentato di appropriarsi individui estranei alla popolazione nera a cui deve le proprie origini al fine di BREVETTARLA! Chiaramente tutti noi possiamo berci un buon Viche, non è quello il problema. Il problema è voler detenere il monopolio della produzione, della storia e del potenziale economico di tale prodotto. L’appropriazione culturale risulta violenta, poiché si concretizza nelle dinamiche di privazione, esclusione e annullamento delle tradizioni afro. L’appropriazione culturale viene utilizzata per impossessarsi degli spazi che spettano alla popolazione nera, quali la copertina di questa rivista sulla quale sarebbe dovuta comparire una donna afrocolombiana di Buenaventura.
L’invito da parte di Julieta ad “appropriarci delle nostre radici” e a smettere di “considerarci come regioni o colori” è assai problematica, poiché non si tratta di un semplice invito che fa comodo alla popolazione bianca e privilegiata come Julieta, ma di un meccanismo che ottiene lo stesso risultato subìto storicamente dalle popolazioni afro: rendere invisibili, escludere, disperdere ogni traccia. E il discorso di Julieta Piñeres è più comune di quanto immaginiamo. Si comincia parlando in modo quasi romantico della nazione meticcia, multietnica e multiculturale, per giustificarne la presenza discriminatoria nei ruoli di potere, per giustificare e perpetuare l’esclusione della popolazione nera. Per non parlare della prevedibilità della reazione di Julieta all’indignazione generale del pubblico, aspetto che evidenzia l’insensibilità e la poca coscienza del razzismo perpetrato dalla classe colombiana bianca e privilegiata.
Quante persone del team editoriale si sono trovate tra le mani il progetto di copertina, con una donna bianca come protagonista dell’omaggio che la rivista “desiderava” rendere a una celebrazione afrocolombiana? Qual è il livello di diversificazione nei media e nei team editoriali per arrivare al punto che nessuno si sia reso conto di quanto sia razzista una copertina del genere? Hanno idea di quanto sia importante la rappresentazione positiva delle femminilità afro nei media di massa? Sono al corrente di quanto sia fondamentale per le bambine vedere donne nere nelle quali potersi identificare degnamente? Queste sono solo alcune delle domande che inondano i post condivisi da Julieta Piñeres e dalla redazione della rivista Fucsia.
Trascorsi un paio di giorni dalla pubblicazione del post precedente e a fronte dell’indignazione collettiva scatenatasi dalle parole della modella, Julieta non ha potuto far altro che ammettere pubblicamente di essere stata protagonista di una situazione di razzismo. Non sappiamo se abbia cambiato idea da un giorno all’altro o se le centinaia di commenti che spiegavano le conseguenze del fatto che avesse partecipato a questa iniziativa le abbiano fatto aprire gli occhi; occorre però sottolineare che quando ci rifiutiamo di essere complici di una situazione di razzismo, quando non difendiamo l’indifendibile, quando assumiamo una posizione rispetto a casi di razzismo e discriminazione, l’altro non può che prendersi la responsabilità dei propri gesti, imparare, scusarsi e porre rimedio.
C’è ancora tanto da fare. Il razzismo è talmente radicato nell’animo di chi riveste ruoli di potere e lavora nei media che persino quando invitano donne afrocolombiane a intervenire in dibattiti necessari come questo nei loro programmi rispondono loro in modo aggressivo. Le mettono persino a tacere, come ha fatto Julio Sánchez Cristo con Angélica Castillo Balanta nel programma radiofonico del 20 settembre sull’emittente W.
Non è nemmeno poi così strano che le scuse tardive di Julieta abbiano convertito l’indignazione in lusinghe, sebbene risulti ancora sorprendente che alcuni continuino a difenderne l’iniziale indifferenza con commenti razzisti e discriminatori. Continuano a ripetere con zelo che il “razzismo non esiste”, che “i neri sono i più razzisti” e che siamo dei “permalosi”, rendendo ancora più evidente la lunga battaglia che dovremo combattere contro il razzismo in Colombia.
C’è tuttavia un aspetto che restituisce un po’ di speranza in questo sfortunato episodio: poco a poco la gente sta prendendo consapevolezza del problema del razzismo in Colombia. Siamo un passo più vicini al comprendere che la lotta contro il razzismo non è esclusiva responsabilità della gente nera, bensì di tutti. È stato sicuramente incoraggiante vedere così tanta gente che cerca di comprendere la situazione e di opporsi pubblicamente al razzismo. Essere antirazzista non è solo compito della gente di colore, essere antirazzista dev’essere un compromesso etico-politico di tutti i membri della nostra società. Senza distinzione di provenienza, genere, classe sociale, origine e colore della pelle.
Fonte
Magazine: NÓMADA
Articolo: La portada racista en “honor” al festival afrocolombiano Petronio Álvarez
Autrice: Sher Herrera
Data: 19 settembre 2019
Traduzione a cura di: Elisa Sanguineti
Immagine di copertina: NÓMADA