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Il femminismo non è intersezionale senza antispecismo

Il femminismo non è intersezionale senza antispecismo

Quando sentiamo parlare di intersezionalità, termine introdotto nel 1989 dalla giurista e attivista Kimberlé Crenshaw, che indica la sovrapposizione di diverse identità sociali e le relative discriminazioni, raramente si parla dello specismo. Ma innanzitutto, diamo una definizione. Di questo se n’è occupato Peter Singer, filosofo noto come profeta della liberazione animale, nella sua opera Animal Liberation (1975): lo specismo è un pregiudizio o atteggiamento di prevenzione a favore degli interessi dei membri della propria specie e a sfavore di quelli dei membri di altre specie.

È molto comune che la teoria intersezionale venga applicata pienamente e in modo esclusivo ad un’unica specie, ossia quella umana, poiché considerata culturalmente superiore e dotata di una maggiore dignità rispetto a quella animale. Ciò rende le pratiche di allevamento, di macellazione e di perpetuazione della violenza legittime . Dunque è molto facile imbattersi in un tipo di femminismo che viene presentato come intersezionale, ma che esclude la teoria antispecista. 

Possiamo sicuramente dire che lo specismo sia strettamente coniugato al capitalismo e alle logiche di profitto di quest’ultimo, che, sorretto da una cultura specista fortemente interiorizzata, porta a un’eliminazione della soggettività dell’animale in quanto essere senziente. Infatti è ampiamente dimostrato che gli animali, esattamente come noi, sono in grado di provare sensazioni di dolore e piacere, tuttavia consideriamo le altre specie come oggetti-merce da cui trarre profitto e da cui estrarre valore. Vi ricorda qualcosa? La stessa oggettificazione perpetrata nei confronti degli animali la subiscono anche le donne.

Carol J. Adams, nel saggio Carne da macello si occupa proprio di indagare le associazioni implicite, cioè di come la cultura patriarcale legittimi il nutrirsi di animali, evidenziando le intersezioni tra femminismo e antispecismo. 

Innanzitutto vi è una rinominazione dei cadaveri animali, infatti vengono presentati ai cittadini-consumatori come corpi consumabili. Pertanto avviene una mistificazione della parola attraverso con  il linguaggio gastronomico, dietro al quale sono ben evidenti gli interessi economici. In effetti nessuno comprerebbe un “cadavere di bovino” quanto piuttosto si preferisce acquistare un “hamburger”. In questo modo per la maggior parte delle persone non c’è consapevolezza né senso di colpa:  come se si fosse interrotta quella catena animale-allevamento-piatto che dovrebbe essere scontata e riconosciuta

Esiste una forte connessione tra mondo animale e rappresentazione femminile in termini di oggettificazione sessuale. Infatti spesso capita che le donne sessualmente libere vengano definite ad esempio come delle “cagne”. Per di più anche in contesti di violenza molte di loro dichiarano di essersi sentite “pezzi di carne”. 

Come non menzionare che le vacche vengono costrette ad inseminazioni artificiali costanti solo per il mero scopo di produrre latte? Nello specifico il loro corpo viene oggettificato e ridotto a una macchina, a un contenitore.

Verranno separate successivamente con forza dai loro piccoli alla nascita (vitellini considerati di scarto, uccisi a 6-8 mesi) e infine munte in maniera estenuante per estrarne profitto (vengono poi macellate a 3-4 anni, anche se una vita media di un bovino arriva fino a 20). È quindi evidente una forte connessione con lo stupro perché ha un’etimologia di puro dominio e rivendicazione sia se parliamo di animali o di umani. Infatti, in entrambi i casi, esiste una forte connotazione di origine patriarcale. Vi è l’idea che l’oggettificazione di altri esseri viventi sia parte essenziale e inevitabile. Questo costituisce la base della cosiddetta politica sessuale della carne.

Si deve notare che le pubblicità spesso sfruttano questo messaggio implicito, servendosi di immagini di parti anatomiche femminili per vendere carne. Come Adams ci illustra nel libro, gli animali e le donne vengono impiegati nelle campagne pubblicitarie di catene alimentari e ristoranti in maniera intercambiabile. Vi è, quindi, uno smembramento culturale e di fatto dei corpi tanto animali quanto femminili. La parola donna è un singolare collettivo astratto che nell’immaginario sessista si manifesta in peculiari tratti del corpo femmile che invitano a “un consumo di carne” cioè a un rapporto sessuale. Come se essere donna significasse possedere un corpo pensato per soddisfare gli uomini.

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Nel libro di Adams viene anche illustrata l’immagine di un maiale femmina in posa allusiva pronta per essere consumata: è un rimando molto forte al sesso e al legame tra consumo alimentare e sessuale.

All’interno del saggio Le tre ghinee del 1938 Virginia Woolf associa la guerra con l’uccisione animale e con il dominio maschile-patriarcale. La carne è rappresentata da animali e donne, pertanto il rifiuto di essa simboleggia un coraggioso rifiuto  alla guerra, alla violenza e alle dinamiche di prevaricazione di una cultura patriarcale e colonialista. Secondo Woolf la carne è l’alimento virile e di dominio per eccellenza, mentre il cibo vegetale alimenta lo stereotipo della passività femminile. Cibarsi di carne significa nutrire la mascolinità bianca e colonizzatrice.  

Per concludere, vorrei semplicemente offrire uno spunto alle persone che hanno letto questo articolo ed invitarle ad una riflessione sulle interconnessioni dell’oppressione nei confronti di persone e animali, provando a pensare senza alcun pregiudizio.

E dunque, siamo davvero così diversi?

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