Storicamente, il corpo delle donne è stato escluso dalla ricerca medica, con conseguente diagnosi e trattamento ritardati, errati o inesistenti in centinaia di casi di malattia nelle donne. C’è un pregiudizio di genere nella pratica medica verso le donne, che ha cominciato a diventare visibile grazie alle scienziate, le ricercatrici e i collettivi creati dalle donne che subiscono questa violenza.
Vivere con l’endometriosi significa vivere nel dolore, un dolore che si presenta in molte forme. Per Quetzalli Sotelo, biologa e documentarista di 45 anni, si traduce in “pugnalate acute, un dolore radiante e paralizzante, un dolore intenso quando si va in bagno, o durante il sesso, dolore, dolore, dolore, dolore”.
Per sua sorella Elisa Sotelo, musicista di 33 anni, “a volte è come avere un ago nel sedere, a volte è come un mostro nella pancia con tentacoli che causano un dolore lancinante dalle ginocchia alle spalle. Un dolore accompagnato da annebbiamento mentale, stanchezza e pesantezza fisica che non ti permettono nemmeno di stare ferma, o di lavorare dal letto. Un dolore che porta con sé anche nausea, pianto, impotenza assoluta”.
L’endometriosi può essere spiegata così: si manifesta quando le cellule endometriali, il tessuto che viene disperso attraverso il sangue in ogni ciclo mestruale, crescono al di fuori dell’utero per ragioni ancora sconosciute, e invadono altri organi, come i reni, l’intestino, il colon, causando forti dolori durante le mestruazioni. Tuttavia il problema più grave non è la malattia in sé, ma quanto poco si sa a riguardo, anche se colpisce una donna su dieci e la sua esistenza è riconosciuta dal 1860. Questa mancanza di conoscenza fa sì che per avere una diagnosi ci vogliano almeno dieci anni, e che il trattamento sia inadeguato.
Non ci sono dati disponibili riguardo al Messico, ma in Spagna si stima che per almeno 700 malattie c’è un ritardo maggiore nel fare diagnosi alle donne rispetto che agli uomini. E mentre l’endometriosi è una malattia esclusiva delle persone con un utero, ci sono altre malattie che non lo sono, e non si sa il motivo per cui colpiscano in particolare donne e persone AFAB.
Esiste un pregiudizio di genere nella ricerca sulle malattie, nella pratica medica e nelle diagnosi.
Quetzalli ed Elisa lo sanno: lo hanno vissuto. Per 20 anni non hanno ricevuto un trattamento adeguato. Una vita intera ad ascoltare medicə rassicurarle che il loro dolore era normale: “Prendi questi antidolorifici, non c’è altro da fare”.
Donne escluse e invisibili
Il pregiudizio di genere nella ricerca medica, nelle cure e nelle diagnosi si manifesta nell’esclusione e nell’invisibilizzazione delle donne e dei loro disturbi. Nella ricerca medica, questo pregiudizio impedisce la conoscenza del perché le malattie colpiscano specificamente le donne, e influenza lo sviluppo di farmaci e vaccini; nelle cure mediche, l’esempio principale e più visibile è la violenza ostetrica; e nella diagnosi si verifica quando, come nel caso di Quetzalli ed Elisa, c’è uno sforzo minimo. Storicamente, le donne – e le femmine, nel caso della ricerca sugli animali – sono state escluse dagli studi clinici sulla base del fatto che le mestruazioni possono causare errori nelle analisi, o che possono esserci ripercussioni sulla prole o la fertilità, anche se è stato dimostrato che questa sottorappresentazione influenza la qualità dei risultati di queste ricerche.
Il pregiudizio si vede anche nel fatto che “la percentuale di donne che non ricevono un trattamento adeguato è più alta di quella degli uomini, e il personale medico tende a fare diagnosi più sofisticate e maggiori sforzi terapeutici per risolvere i problemi di salute degli uomini rispetto a quelli delle donne”, dice Luz María Moreno, coordinatrice del programma di studi di genere e salute nel Dipartimento di Salute Pubblica della Scuola di Medicina UNAM, nel suo articolo del 2016 “Genere: un determinante sociale in salute-malattia-cura”.
Scienza del bikini
Dal 2016 al 2019, Patricia Rodil aveva un’azienda di dispositivi medici e partecipava a diversi eventi a tema imprenditorialità, innovazione e tecnologia sanitaria frequentati da specialistə in vari campi, ma “su cento persone c’erano 96 uomini e solo quattro o cinque donne”. È dottoranda in biologia molecolare e fondatrice di Científicas Mexicanas (scienziate messicane), un collettivo che cerca di rendere più visibile il lavoro delle donne in Messico in tutti i tipi di scienza, tecnologia e innovazione, e di creare uno spazio, una rete di supporto dove discutere delle particolari sfide e difficoltà delle donne nel sistema scientifico.
La situazione che Patricia ha visto in questi eventi ha attirato la sua attenzione “perché mia madre è infermiera, le mie zie sono mediche, e ho pensato: nel corso della storia noi donne siamo state responsabili della cura in casa, e della cura dei pazienti, ma quando si parla di aspetti tecnologici, scientifici, innovativi, le donne non sono più presenti. Ho iniziato a chiedermi perché.” Quello che ha trovato è che il pregiudizio di genere nella scienza medica è un’eredità aristotelica: “Aristotele parlava delle donne come di uomini mutilati, e da lì viene questa idea che il corpo di una donna è qualcosa di alterato dalla norma, che è il corpo maschile”.
Sotto questa falsa premessa, le donne sono state storicamente escluse dalla ricerca, con alcune eccezioni non sempre fortunate che rientrano nella cosiddetta “scienza del bikini”, un concetto usato per denunciare i pregiudizi di genere. La “scienza del bikini” considera che le uniche differenze tra le donne e gli uomini siano in quelle parti del corpo coperte dal bikini: i seni e la zona genitale, come se il resto degli organi e dei processi fisiologici fossero gli stessi nei due sessi. Niente potrebbe essere più lontano dalla verità. Un’analisi del 2009 della ricerca in biologia mostra come funziona la cosiddetta “scienza del bikini”: le donne sono state incluse in tutti gli studi sulla riproduzione, ma in pochissimi sul cervello, supponendo che sia un organo che opera e funziona allo stesso modo in uomini e donne.
Un’esclusione storica
Se una persona sente un dolore al braccio sinistro, poi al petto, un crampo e le vertigini sono i sintomi di un attacco di cuore, ma solo negli uomini. Quando una donna ha un attacco di cuore può anche non avere dolore al petto, forse sentirà un dolore alla schiena, oppure stanchezza, mancanza di respiro e una serie di altri sintomi, alcuni silenziosi, diversi da quelli di un uomo. Ignorare quanto sopra è un pregiudizio di genere, avverte Luz María Moreno, medica femminista, formata in prospettiva di genere da Graciela Hierro, pioniera della filosofia femminista e principale promotrice dell’apertura di centri e programmi formativi di studi di genere.
Nella pratica medica, “pensano che noi donne siamo emotive”, sottolinea Moreno, “che siamo isteriche, che non sentiamo realmente dolore, pensano che sia gastrite, ci danno antiacidi e ci mandano a casa, e ci sono donne che tornano in ospedale con un infarto in stadio avanzato, o non tornano affatto. Questo è dovuto all’esclusione delle donne negli studi sull’attacco di cuore. Per esempio, uno studio negli anni Ottanta ha coinvolto quasi 13.000 uomini, ma nessuna donna. In un altro studio clinico per sviluppare un farmaco, solo il 20 per cento dei partecipanti erano donne; dopo alcuni anni in cui hanno raccomandato l’uso di questo farmaco per alleviare le malattie cardiovascolari, hanno analizzato l’evoluzione deə pazienti e hanno scoperto che aveva accelerato la morte in alcune donne che lo prendevano. Questa reazione al farmaco è stata identificata dal gruppo di studio iniziale, ma poiché ha colpito proporzionalmente poche persone, è stata trascurata. Infatti, solo nel 2016 l’American Heart Association ha pubblicato un articolo che riconosce le differenze delle malattie cardiovascolari nelle donne e negli uomini.
“Questo ci fa pensare a quante altre condizioni non stiamo riconoscendo che sono diverse tra i sessi”, osserva Patricia Rodil. La questione per lei è personale, perché soffre di una malattia autoimmune e, quando parla con altrə pazienti, la maggior parte dellə quali sono donne, trova troppe domande e ben poche risposte. Ci sono pochi studi sulle malattie autoimmuni, quelle in cui il sistema immunitario viene attaccato da agenti esterni o dal nostro stesso corpo, come lupus o artrite reumatoide, e la percentuale di donne che ne soffrono (80%) è drammaticamente superiore a quella degli uomini.
Come Patricia, anche Elisa ha trovato più domande che risposte sull’endometriosi, finché un giorno in cui non riusciva a far cessare il dolore ha deciso di indagare da sola: “Ricordo solo che mi sono sdraiata lì a piangere e ho detto: non ne posso più, sono stanca.”
Colei che cerca
Elisa ha trovato Nancy’s Nook Endometriosis Education, un gruppo Facebook che condivide informazioni sull’endometriosi e il suo trattamento. Trovare il gruppo è stato facile, la parte difficile è stata leggere tutti gli articoli disponibili, un processo che ha richiesto un anno e mezzo. Così ha imparato “che l’endometriosi può essere diagnosticata attraverso una risonanza magnetica e in presenza di qualcuno che la sappia leggere, e non solo, è curabile con un intervento chirurgico di escissione, un intervento molto complicato che deve essere eseguito da uno specialista che sappia riconoscere e rimuovere le lesioni endometriosiche nel groviglio di nervi, vene e arterie che è l’utero umano”. Lo stesso gruppo ha stilato una lista di medichə della European Academy of Gynaecological Surgery certificatə per eseguire questo intervento. In Messico ce n’è solo uno, un unico medico per trattare una malattia cronica invalidante che colpisce una donna su dieci. Si tratta di Ramiro Cabrera Carranco, un chirurgo specializzato in ginecologia e ostetricia, esperto in endoscopia ginecologica, che si concentra sulla cura delle pazienti con endometriosi.
Dal primo appuntamento con Cabrera, Elisa ha spiegato i suoi sintomi e quelli di sua sorella. Ha ricordato quando Quetzalli finì al pronto soccorso dopo che non era riuscita ad andare in bagno per 12 giorni di fila, e che poco prima del ciclo sanguinava dal retto. Era un segnale d’allarme che il suo precedente medico, un presunto specialista dell’endometriosi, non aveva notato. “Probabilmente si tratta di emorroidi”, ricorda di essersi sentita dire Quetzalli, con l’invito a consultare un proctologo.
Per Luz María Moreno, i pregiudizi di genere nelle cure cliniche e nelle diagnosi si traducono in maltrattamenti e violenza, non solo ostetrica. “La violenza esiste in tutte le cure mediche, alle pazienti donne non vengono spiegate a fondo le malattie, perché si pensa che loro non capiscano e si dà loro meno attenzione, viene chiamato anche il partner ad ascoltare la spiegazione, tutto ciò fa parte di questo maltrattamento; spesso vengono interrotte, non si permette loro di dire cos’hanno o si pensa che parlino troppo, che non sappiano spiegare i sintomi”.
Dare alla luce me stessa
Infine, un giovedì di marzo, Elisa si è sottoposta a un’isterectomia contro il protocollo medico, poiché non è raccomandata per le donne in età fertile: “ə medichə trattano il tuo apparato riproduttivo come se fosse il loro, ‘proteggeremo il tuo utero a tutti i costi’. Non ne ho bisogno, non voglio rimanere incinta, se mi provoca solo dolore perché dovrei tenerlo”. Oltre all’isterectomia, il suo medico ha eseguito un intervento chirurgico escissionale per rimuovere i danni riscontrati nel peritoneo, la membrana che copre la superficie interna dell’addome; nel centro nervoso del plesso sacrale, che controlla i glutei, il bacino e gli sfinteri; e ha trovato anche delle lesioni intorno al suo uretere.
A differenza di Elisa, per Quetzalli accettare l’intervento è stato un processo molto più complicato, a causa delle implicazioni personali del rimanere senza un utero. Il suo desiderio di diventare madre ha avuto la precedenza sui consigli medici, e ha dovuto fare una valutazione approfondita di ciò che voleva per se stessa e per il suo futuro. “Avevo detto ‘no’ all’isterectomia, no, punto e basta. Perché ho pensato: il mio utero è super danneggiato, ma se lo perdo, cosa sono, cosa rimane, sarò come un mostro. Era una questione molto seria, volevo avere la possibilità di…” Quetzalli fa una pausa di qualche secondo. Trattiene le lacrime. Continua senza finire la frase: “Ho dovuto affrontare la cosa dicendo a me stessa: nella tua vita non ci sono matrimonio e figli, hai 45 anni e a causa di qualunque cosa ci sia lì dentro, non hai dato valore alla tua vita, e penso che questa sia un’occasione molto bella per dire: dai valore a tutto quello che hai e se questa cosa ti sta distruggendo, lasciala andare”.
“Era qualcosa di molto personale, molto privato, e ho voluto fare l’isterectomia partendo da lì, come per dare alla luce me stessa. Per dire che questa sono io, con queste decisioni, e mi fa male all’anima pensare che il mio utero non ci sarà più, ma ho bisogno che questo accada”, dice con calma. La sua idea di poter rimanere incinta è stata nutrita per anni dal suo ginecologo, che le ha assicurato che era ancora fertile. “E questa era l’unica frase che volevo sentirmi dire, quindi quando me l’ha detto, non mi importava se stavo cadendo a pezzi, (ho pensato) sono ancora fertile, è fantastico.”
Il pregiudizio di genere si verifica anche quando vengono minimizzati i sintomi, neutralizzando la paziente attraverso altre diagnosi, ingannandola e colpevolizzandola, dicendole che ha avuto un attacco d’ansia, che è isterica, che ha problemi psicosomatici, o dicendole apertamente che ciò che sente non è una malattia, o non esiste se non nella sua testa.
“Qualcosa che probabilmente non direbbero a un uomo”, dice Rodil.
Vaccini contro la COVID-19
È impossibile sapere chi è stata la prima, ma improvvisamente diverse donne hanno iniziato a denunciare sui social network che il vaccino anti-COVID-19 aveva alterato il loro ciclo mestruale, un’alterazione che non era uguale per tutte, né sembrava essere associata a un vaccino in particolare. A questo proposito, Thalia Garcia Tellez, dottoressa di ricerca in malattie infettive dell’Università Paris-Diderot e dell’Istituto Pasteur di Parigi, immunologa, virologa e coordinatrice di studi clinici di vaccini in Francia, spiega che per ogni studio clinico c’è una lista di effetti collaterali previsti, e questa lista non considera mai l’impatto ormonale o ginecologico. In altre parole, “c’è un pregiudizio nel modo in cui viene pianificato uno studio clinico”, ma aggiunge che c’è un rapporto di causa ed effetto: “non possiamo includere questo impatto nella ricerca clinica, perché non l’abbiamo osservato, ma in realtà non abbiamo dati, perché anche l’altra parte (ə partecipanti agli studi clinici) non considera necessario segnalarlo”.
Sottolinea anche un altro fattore: crede che nel trattamento delle malattie ci siano più informazioni sugli uomini che sulle donne, perché i primi “hanno più accesso ai servizi sanitari o cercano cure mediche più frequentemente delle donne”.
Un articolo pubblicato nel luglio 2021, che analizza l’inclusione del sesso e del genere negli studi clinici sulla Sars-Cov-2 – COVID-19, rivela che la maggioranza del campione (66,7% degli studi) non lo prende in considerazione.
Verso l’inclusione
Le dinamiche che producono questi pregiudizi di genere nella medicina si sono perpetuate su scala globale e non sono regolamentate, poiché anche quando esistono leggi sanitarie, non viene dichiarata la necessità di includere le donne nella ricerca. A livello internazionale esiste la Dichiarazione di Helsinki, per i Paesi che l’hanno firmata, tra cui il Messico, che detta una serie di principi per l’autoregolamentazione medica in termini di ricerca, ma anche qui non viene proposta l’inclusione delle donne.
Ad oggi, l’unico documento che promuove una ricerca equa, sia negli studi sugli animali che in quelli sugli esseri umani, con un’analisi differenziale dei risultati per sesso, per identificare le differenze e segnalarle, sono le linee guida Sager (Sex and Gender Equity in Research), progettate nel 2016 dal Gender Policy Committee della European Association of Science Editors, e da applicare in tutto il mondo.
Tuttavia, Moreno, che da dieci anni tiene un corso opzionale sul genere alla facoltà di medicina dell’UNAM, riconosce il progresso: “Quando ho iniziato a parlare di genere venivo letteralmente derisa, ma ora vedo che c’è una maggiore apertura”. L’inclusione di materie con una prospettiva di genere nei piani di studio di tutte le facoltà sanitarie, dall’infermieristica e medicina alla biomedicina, è una soluzione proposta sia da Moreno che da Rodil per l’inclusione delle donne nella scienza e nella ricerca, però attraverso corsi che non siano opzionali, ma obbligatori. Perché dovrebbero davvero dedicare alle donne corsi più estesi”, suggerisce Luz María Moreno, “e anche non tanto teorici, ma piuttosto teorico-riflessivi, sulla condizione delle donne e sulla violenza stessa, su quelle cose che il personale medico non considera nemmeno maltrattamenti, per esempio fare battute misogine e sessiste a pazienti o studenti di medicina”.
Una speranza
Un mese dopo Elisa, anche Quetzalli è stata finalmente operata, e durante l’intervento è stato registrato un video. Ecco come descrive ciò che ha visto: “Le mie tube di Falloppio attaccate all’utero, come una camicia di forza, un’ovaia totalmente distrutta, l’intestino e l’uretere schiacciati contro l’utero, un’unica massa avvolta in una rete di tessuto connettivo, gli organi premuti insieme, rigidi, agonizzanti. Il mio medico mi ha detto che il mio uretere era già in quel groviglio, ma è riuscito a salvarlo e, se non avessimo fatto questo intervento, tra qualche mese o un anno avrebbe dovuto asportarmi anche un rene”.
Una volta libere dall’endometriosi, Quetzalli ed Elisa hanno iniziato a condividere le loro esperienze sui social network, perché sono consapevoli dei loro privilegi, che hanno permesso loro di guarire.
“Perché tutte le informazioni (sull’endometriosi) sono in inglese. Quindi come diavolo fai a sapere cosa ti sta succedendo se non trovi informazioni nella tua lingua”. Tra le altre barriere che Elisa elenca per l’accesso a diagnosi e trattamenti adeguati ci sono la carenza di personale dedicato, formazione e attrezzature nel sistema pubblico. “E c’è una speranza molto importante verso cui dobbiamo puntare”, dice Quetzalli, “ovvero la diagnosi precoce. È molto importante, e penso che dovrebbe essere un servizio disponibile a tutti i livelli socio-economici: andando nelle scuole, attraverso una pagina di Facebook. Sappiamo che, se la malattia si scopre presto, l’operazione può essere molto semplice.”
Fonte
Magazine: Pikara Magazine
Articolo: Contra la exclusión y la violencia médica
Scritto da: LADO B
Data: 27/04/2022
Traduzione a cura di: @michelaperversi
Immagine di copertina: Hush Naidoo Jade Photography
Immagine in anteprima: freepik