Articolo di Beatrice Carvisiglia
“A quel tempo ogni cosa
si spiegava con parole note.
Sillabe da contare sulle dita
scandivano il ritmo dell’invisibile.
Tutto era a portata di mano,
tutto comprensibile
e immediatamente dietro l’angolo
non si annidava ancora l’inganno.
La poesia era uno scrupolo
d’altri tempi, un muto richiamo
alla vera natura delle cose.
Così dissimulata da confondersi
con i palloni, con le bambole
dell’infanzia.
In quei tempi non c’erano disastri
da centellinare, difformità
da curare dentro abiti larghi,
padri da rifiutare e nomi
da pedinare in fondo agli stagni.
Finché non è arrivato il transito
a rivoltare le zolle su cui il passo
aveva indugiato, a rovesciare
il secchio dei giochi – richiamando
la poesia invisibile che mi circondava.
Non mi sono mai conosciuta
se non nel dolore bambino
di avvertirmi a un tratto
così divisa. Così tanto
parziale”.
“Transito” è una parola importante per la poetessa Giovanna Cristina Vivinetto, una parola che fa da spartiacque. Nella sua vita infatti c’è un prima, fatto di giochi e spensieratezze, e un dopo, gonfio di dolore e di confronti spietati. Di questo Vivinetto parla in Dolore minimo, sua opera prima che non è soltanto la raccolta poetica di una talentuosa esordiente, ma è anche e soprattutto il racconto della conquista di sé, dell’accettazione, dell’amore per il proprio io.
Questo piccolo e prezioso romanzo in versi è stato pubblicato con una prefazione-consacrazione di Dacia Maraini, ma ha provocato anche (sterili) polemiche da parte delle associazioni a sostegno della famiglia che loro definiscono “naturale”. “Ci mancava solo che finisse in versi poetici, la transessualità” ha scritto su Facebook l’associazione ProVita, allegando una semplice foto in primo piano di Vivinetto, colpevole di aver raccontato – e bene – la sua esperienza. Eppure, non mi abbandona il pensiero che chi ha attaccato questa raccolta non abbia in realtà neanche letto i versi. Perché sì, Giovanna parla di transito e di identità confuse, ma parla anche e soprattutto del percorso di una giovane donna in cerca di se stessa: un qualcosa in cui ciascuno di noi può rispecchiarsi.

Il grande merito di Giovanna Cristina Vivinetto è quello di aver saputo raccontare un fatto intimo e straziante come la scissione della propria identità in maniera aggraziata, delicata. I suoi versi mostrano una cura lessicale notevole ed emanano una peculiare sensibilità. La storia si dipana dall’infanzia, dalle prime avvisaglie di metamorfosi: “Crebbi con una dicotomia nelle ossa”, scrive l’autrice, la cui piena transizione avviene a diciannove anni. I versi sono pervasi da immagini boschive, dalla forza della natura con la sua linfa vitale, con la volontà di attingere al cuore pulsante della vita. La natura è accogliente ma anche feroce, non dimentica quello che è stato, lascia cicatrici sul corpo. Questo filone tematico evoca suggestivamente l’antichità classica: il dono di Giovanna è quello “antichissimo” dell’indovino Tiresia, il quale mutò sesso nel mito ovidiano dopo aver diviso i serpenti. Il mito insegna che la metamorfosi non è straordinaria: è il riflesso di un’identità frammentata, agonizzante. Così è per l’io vagante di questo romanzo in versi, sempre alla ricerca di un centro stabile, di un’immagine ferma in cui specchiarsi.
Con delicatezza, Giovanna racconta questo passaggio, mostrando un dolore che è comune e personale, un’esigenza di affermare il proprio corpo. Non a caso, il modello di Vivinetto è la poetessa polacca Wisława Szymborska, autrice di versi feroci in cui il corpo brucia d’urgenza:
“Nulla è cambiato.
Tranne il corso dei fiumi,
la linea dei boschi, del litorale, di deserti e ghiacciai.
Tra questi paesaggi l’animula vaga,
sparisce, ritorna, si avvicina, si allontana,
a se stessa estranea, inafferrabile,
ora certa, ora incerta della propria esistenza
mentre il corpo c’è, e c’è, e c’è
e non trova riparo”
Così scriveva Szymborska nella poesia Torture.
Giovanna Vivinetto nel suo passaggio si confronta con la sua identità finalmente intera, ma anche con la madre, privata del figlio e capace ora, incredibilmente, di specchiarsi nella sua figlia femmina. Un senso di pietà e poi un perdono senza condizionamenti emergono tanto verso la madre quanto verso il padre. Giovanna e i genitori sperimentano due sofferenze diverse: quello della figlia è un dolore minimo che resta conficcato nelle ossa, una specie di estraneità al mondo circostante. Quello che prova la madre è un dolore non comune: è lo strazio di aver dato alla luce un essere umano in crisi, lacerato nel corpo e nell’anima. Il racconto è intervallato da immagini di pillole, ormoni, sconvolgimenti tutt’altro che spirituali: il traguardo della femminilità è però intimo, una vittoria da proteggere dallo spietato sguardo degli altri.
Vivinetto mette in versi una presa di coscienza che è innanzitutto un inno alla vita, un orgoglioso richiamo al diritto di esistere, per sé e per il resto del mondo. Tra le pagine della raccolta Dolore minimo, riecheggiano i versi virgiliani dell’Eneide: “Forse un giorno proveremo piacere anche a ricordare queste cose”. In questa tenera promessa si scioglie il dolore di un’esistenza scissa e inquieta, finalmente libera di amare e lasciarsi amare.
Bossy ha raggiunto Giovanna Cristina Vivinetto e con lei abbiamo parlato della sua raccolta poetica Dolore minimo, delle sfide della società odierna e della missione della cultura nell’abbattimento degli stereotipi.
B.: Un romanzo ha di per sé una forma più estesa, esplicativa. Perché invece hai scelto proprio la poesia per raccontare la tua esperienza? Credi che i versi possano essere più potenti narrativamente della prosa? Come nasce questo interesse?
Giovanna: Sin dall’adolescenza sono sempre stata affascinata dal mezzo poetico per la sua capacità di condensare significati profondissimi, spesso dirompenti e necessari, in uno spazio limitato, fatto anche di pochi versi. Per questo motivo, per la sua intrinseca essenzialità, nella stesura di Dolore minimo – mio esordio poetico che, appunto, definisco “romanzo in versi” – mi è venuto naturale utilizzare la poesia, perché con essa mi è stato più semplice arrivare al cuore della “questione”, centrare con efficacia l’obiettivo che mi ero prefissata. Oggi si parla della poesia come “bene inutile”, “non necessario”; e invece, anche con la testimonianza racchiusa in Dolore minimo, voglio ribadire esattamente il contrario: l’assoluta necessità della poesia come mezzo che, oggi più che mai, si fa interprete (e, talvolta, risolutore) in sommo grado dei conflitti del reale.
B.: Il tuo libro ha ricevuto diverse critiche dalle associazioni Pro Vita. A fronte anche del riscontro positivo che hai avuto, ritieni che la società “reale” sia in qualche modo più aperta e inclusiva di quello che ci si immagina?
G.: Le numerose presentazioni che, in quasi un anno, ho avuto la fortuna di svolgere in lungo e in largo per l’intera Penisola mi hanno dimostrato innanzitutto una cosa: le persone sono aperte al cambiamento e questa “diversità” tanto ostentata dai Pro Vita (e non solo da loro) come mezzo per creare ostacoli e divisioni, non solo non è percepita come un dato minaccioso ma, anzi, è vista come un’inesauribile risorsa da condividere e fare propria per diventare cittadini migliori. Allora, checché se ne dica, è importante parlarne, sensibilizzare, fare in modo che la conoscenza abbatta il pregiudizio e la cultura ci guidi verso l’apertura mentale.
B: A fronte di ciò, cosa ne pensi delle innumerevoli manifestazioni di odio sui social nei confronti delle minoranze (migranti, comunità LGBT+…)? Ritieni che la letteratura abbia anche una missione di tipo divulgativo, culturale?
G.: I social, purtroppo, sono un’arma a doppio taglio. Se infatti da un lato – ove ciò avvenga civilmente e con cognizione di causa – possono permettere il confronto e la diffusione di idee positive, volte all’accrescimento della cultura e della consapevolezza circa il proprio ruolo in relazione all’altro da sé, dall’altro lato – e il più delle volte, purtroppo – al confronto subentra lo scontro, fatto di ignoranza, pregiudizio e analfabetismo funzionale. Una delle soluzioni, allora, potrebbe essere proprio questa: far sì che la letteratura inizi a permeare anche il mondo virtuale dei social, facendo propria una missione civile e culturale finalizzata in primis ad abbattere questi muri invisibili costruiti sull’odio, sull’intolleranza e sulla mancanza di rispetto per tutto ciò che è percepito come diverso e minaccioso. Personalmente sono molto attiva sui social anche per questo: dimostrare che la transessualità può essere una cosa normale come tante altre e verso cui è totalmente illogico provare paura.
B: Dolore minimo può forse essere un aiuto nei confronti di chi sta vivendo una fase di transizione simile? Cosa diresti a un ipotetico lettore/lettrice che sta attraversando la presa di coscienza che tu hai avuto in passato?
G: Assolutamente sì, e sono dell’idea che la lettura di Dolore minimo possa aiutare particolarmente i più giovani, alla ricerca del sé e della propria identità in una fase della vita – l’adolescenza – che è incerta e tormentata per definizione. Potrei, allora, facilitarli a dissipare le loro incertezze, appianare i conflitti offrendo il mio supporto attraverso la poesia. A chi si trova ad affrontare un percorso come quello che è stato il mio, direi di avere tanta pazienza, ascoltare il proprio corpo e, una volta convinti di ciò che si è, perseguire con coraggio e determinazione la propria scelta. Solo dandosi del tempo per acquisire piena consapevolezza della trasformazione si potrà diventare persone serene, felici, soddisfatte.
B.: Che posto occupa attualmente la scrittura nella tua vita? Hai già progetti futuri?
G.: La scrittura ha un posto essenziale nella mia routine perché la poesia, a mio avviso, è consustanziale alla vita: corre in parallelo a essa, se ne appropria, la assorbe, la comprende, la reinterpreta in sommo grado. Attualmente sto lavorando al seguito di Dolore minimo, che sarà pubblicato non prima del 2020 nella collana di poesia contemporanea dell’editore BUR.
molto importanza la descrizione della sofferenza e della lieta liberazione finale
provo ammirazione infinita per la tua persona oggi veramente libera di esprimere una splendida femminilità, il tu che ti do è frutto del rispetto fraterno per te. un cordiale affettuoso saluto
bellissmo