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Leggere gli Hunger Games al tempo del genocidio a Gaza

Leggere gli Hunger Games al tempo del genocidio a Gaza

La prima volta che misi mano sul romanzo distopico Hunger Games, scritto da Suzanne Collins, era il 2012. Ricordo che dovevo partire per una vacanza studio a Parigi con la Pro loco del mio paese e ricordo di aver infilato in valigia quel libro dalla copertina nera con al centro un cerchio infuocato, con a sua volta al centro un uccello infuocato, appollaiato su una freccia infuocata. 

Non ricordo di aver letto o meno il libro durante i sette giorni passati a visitare la capitale francese, ma ricordo che quella stessa estate andai a vedere con la mia migliore amica l’omonimo film al cinema all’aperto del mio paese, l’Arena comunale. Trovai il film emozionante, puro intrattenimento. Non mi resi conto dell’ironia della situazione: mi trovavo in un’arena a guardare un film che criticava la spettacolarizzazione mediatica del dolore di ragazzinǝ costrette a uccidersi a vicenda dentro all’arena degli Hunger Games. Il secondo libro e il secondo film, Hunger Games – La ragazza di fuoco, mi tennero incollatə alle pagine e allo schermo ancora di più, dato che l’arena si era fatta più bella, più complessa, questa volta c’era addirittura il mare, e le torture inventate dallǝ strateghǝ di Capitol City erano diventate ancora più spettacolari. Non mi resi conto di nessun messaggio sociale, non feci nessun paragone con la realtà. Il terzo libro e il terzo (e quarto film), Hunger Games – Il canto della rivolta, sono abbastanza divisivi per lǝ fan della saga, c’è chi ama e chi, invece, detesta l’opera conclusiva. Personalmente, non mi dispiacquero. C’era una sorta di arena, è vero, ma non era l’Arena, quella con la lettera maiuscola, il cielo non si illuminava la notte con i volti dǝi cadutǝ, il cannone non suonava quando una vita veniva recisa dai giochi e non c’erano combattimenti violenti tra lǝ tributǝ. Da un punto di vista narrativo e dell’intrattenimento, credo che chi odia Il canto della rivolta abbia tutte le ragioni per farlo: manca la tensione dei libri precedenti e poi, diciamocelo (mezzo spoiler!), nell’ultimo libro muoiono alcunǝ dellǝ personaggǝ migliori (Distretto 4… non dico altro). 

Dal 2012 sono passati tredici anni (!) e ho deciso di rileggere e di riguardare gli Hunger Games in vista dell’uscita del prequel, Hunger Games – La ballata dell’usignolo e del serpente. Le opere, è inutile dirlo, cristallizzate nella pagina e nella pellicola, non sono cambiate. Anche il mondo, per molti versi, non è cambiato. Chi è cambiatǝ sono io e ritornare su questi testi è stato più difficile di quello che pensassi. La cosa che più mi ha smosso è stato vedere come un’opera iscritta nella cultura pop e scritta per giovani adultǝ sia così simile a ciò che accade nel nostro mondo non immaginario, anche se la distopia di solito fa proprio questo, no? Crea specchi della nostra società. Solo che negli specchi l’immagine si ribalta di solito… 

La parte di me che ha studiato letteratura all’università sa che quando si analizza un libro, un’opera fittizia, bisognerebbe limitarsi a ciò che nel libro c’è scritto, senza dare sfogo a voli pindarici e paragoni forzati con fatti storico-politici realmente accaduti. E, anche se la stessa Suzanne Collins ha affermato di essere stata ispirata da immagini di guerra (Vietnam e Iraq), unǝ critichǝ letterariǝ troverebbe ingenuo e azzardato cercare Gaza negli Hunger Games. Oppure, forse, penserebbe che Gaza c’è negli Hunger Games proprio come, però, potrebbe esserci qualsiasi altro conflitto armato. 

E poi c’è la parte di me che non sa cosa dire davanti a un genocidio. La parte di me che si sente stupida per aver letto i libri e visto i film e averli trovati divertenti, intrattenenti. 

Nel tentativo di mettere in dialogo queste due parti di me, riporto alcuni passi del capitolo 7 di Hunger Games – Il canto della rivolta. Non propongo nessun paragone, nessuna interpretazione, mi limito a lasciare qui il testo nella speranza che anche qualcunə altrə rilegga l’opera con occhi nuovi. Forse rischio di rovinare un testo caro a moltə, ma credo che il femminismo (un femminismo decoloniale) faccia questo: ci fa vedere un realtà più dura di quello che pensavamo che fosse, ma ci aiuta a trovare anche gli strumenti per migliorarla

Quando sbuchiamo sulla strada, è come se fossimo entrati in un altro mondo. Stanno radunando i feriti del bombardamento di questa mattina, con barelle di fortuna, carretti, portandoli a spalla, stringendoli tra le braccia. Sanguinanti, mutilati, incoscienti. Sospinti da gente disperata fino a un magazzino che ha una croce dipinta alla meglio sopra la porta. È una scena che viene dritta dalla mia vecchia cucina, dove mia madre assisteva i feriti gravi, ma moltiplicata per dieci, per cinquanta, per cento. Mi ero aspettata edifici distrutti dai bombardamenti, e invece mi ritrovo faccia a faccia con quei corpi straziati. […] mi faccio forza e la seguo nell’ospedale. Una specie di pesante tenda industriale pende per tutta la lunghezza dell’edificio, formando un corridoio piuttosto grande. I cadaveri giacciono fianco a fianco, le teste sfiorate dalla tenda, i volti nascosti da panni bianchi. — Abbiamo scavato una fossa comune, qualche isolato a ovest da qui, ma ancora non dispongo degli uomini per spostarli — dice la Paylor. Trova una fessura nella tenda e la spalanca. […] Oltrepasso la tenda e i miei sensi vengono aggrediti. Il mio primo impulso è coprirmi il naso per tenere fuori il fetore di biancheria sporca, carne in putrefazione e vomito, acuito dal calore del magazzino. Hanno aperto i lucernari che intersecano l’alto tetto di metallo, ma quel po’ d’aria che riesce a penetrare all’interno non può intaccare la nebbia sottostante. I lievi raggi di sole forniscono la sola illuminazione disponibile e, quando i miei occhi si adattano, distinguo file su file di feriti, nelle brande, sui pagliericci, sul pavimento, perché sono in tanti a contendersi lo spazio. Il ronzio delle mosche, i lamenti di quelli che soffrono e i singhiozzi dei familiari che li assistono si fondono in un coro straziante. Nei distretti, non abbiamo veri ospedali. Moriamo a casa nostra, il che in questo momento sembra un’alternativa più attraente di quella che ho davanti. Poi ricordo che molte di queste persone forse hanno perso le loro case nei bombardamenti. […] — È così in ogni distretto? — Sì. Sono quasi tutti sotto attacco. Stiamo cercando di portare soccorso ovunque possiamo, ma non basta. — Si ferma un attimo, distratto da qualcosa nel suo auricolare.  […] — Bombardieri in arrivo — risponde Boggs.  […] Il cielo è vuoto, azzurro e senza nuvole. La strada è sgombra, se si eccettuano le persone che trasportano i feriti verso l’ospedale. Nessun nemico, nessuna agitazione. Poi le sirene attaccano a urlare. Nel giro di qualche secondo, uno stormo di aerei di Capitol City in formazione a V compare a volo radente sopra le nostre teste, e le bombe cominciano a cadere.  […] Il terreno ondeggia sotto di me, mentre le bombe, una dopo l’altra, cadono dagli aerei ed esplodono. È una sensazione spaventosa essere inchiodati contro un muro sotto una pioggia di bombe. Qual era l’espressione che usava mio padre per le prede facili? Come pescare pesci in un barile. Noi siamo i pesci, la strada il barile. […] Abbiamo appena raggiunto un altro vicolo, dobbiamo solo attraversarlo per arrivare alla porta, quando inizia la seconda ondata di bombe.  […] — Voglio dire, non ci stanno seguendo. — No, hanno mirato a qualcos’altro — dice Gale. — Lo so, ma là non c’è niente, tranne… — Ce ne rendiamo conto di colpo, nello stesso momento. — L’ospedale. — In un attimo, Gale è in piedi e urla agli altri. — Mirano all’ospedale! — Non è un problema vostro — dice Plutarch in tono deciso. — Raggiungete il rifugio. — Ma là ci sono solo i feriti! — esclamo.  […] Compaiono nel cielo all’improvviso, due isolati più giù, forse novanta metri sopra di noi. Sette piccoli bombardieri in formazione a V.  […] Colpisco un velivolo all’ala interna, facendogli prendere fuoco. Gale manca del tutto l’aereo di punta.  […] Senza alcun preavviso, sbuca una terza formazione a V. Stavolta, Gale colpisce in pieno l’aereo di punta. Io strappo un’ala al secondo bombardiere, che si avvita e va a sbattere contro quello che lo segue. I due velivoli si sfracellano sul tetto del magazzino che si trova dall’altra parte rispetto all’ospedale.  […] Le fiamme e il denso fumo nero che si levano dai rottami ci oscurano la visuale. — Hanno colpito l’ospedale? — Credo proprio di sì — risponde, cupa.  […] — Oh, no — sussurro quando scorgo l’ospedale. Quello che una volta era l’ospedale. Supero i feriti e le carcasse in fiamme degli aerei con lo sguardo fisso sul disastro che mi sta davanti. Gente che urla, che corre frenetica di qua e di là, ma non è in grado di prestare aiuto. Le bombe hanno fatto cedere il tetto dell’ospedale e dato fuoco all’edificio, in pratica intrappolando i pazienti. Si è radunato un gruppo di soccorritori che cerca di aprirsi la strada verso l’interno. Ma io so già cosa troveranno. Se non se li sono presi il crollo e le fiamme, li ha soffocati il fumo.  […] — Perché l’avrebbero fatto? Che ragione avevano di prendere di mira gente che stava già morendo? — gli chiedo. — Scoraggiare gli altri. Evitare che i feriti chiedessero aiuto — dice Gale. — Le persone che hai incontrato erano sacrificabili. Per Snow, almeno. In caso di vittoria, cosa se ne fa Capitol City di un mucchio di schiavi ammaccati? Ricordo tutti quegli anni nei boschi, quando ascoltavo Gale inveire contro Capitol City. Senza prestargli molta attenzione. Chiedendomi perché si disturbasse tanto a sviscerarne le motivazioni. E perché pensare come il nostro nemico fosse così importante. È chiaro che oggi avrebbe potuto esserlo.  […] trovo Cressida […] — Katniss — dice — il presidente Snow ha appena fatto trasmettere il bombardamento in diretta. Poi è comparso in TV dicendo che questo era il suo modo di mandare un messaggio ai ribelli. […] Vorresti dire qualcosa agli insorti? — Sì — bisbiglio. […] So di essere registrata. — Sì — dico, in tono più convincente.  […] — Voglio dire ai ribelli che sono viva. Che sono proprio qui, nel Distretto 8, dove Capitol City ha appena bombardato un ospedale pieno di uomini, donne e bambini disarmati. Non ci saranno sopravvissuti. —  […] — Il presidente Snow dice che ci sta mandando un messaggio? Be’, io ne ho uno per lui. Potete torturarci, bombardarci, incenerire i nostri distretti, ma vedete questo? — […] Il sigillo di Capitol City brilla chiaramente tra le fiamme. — Il fuoco sta divampando! — Urlo adesso, ben decisa a fare in modo che Snow non si perda una sola parola. — E se noi bruciamo, voi bruciate con noi!  […]

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Concludo ritornando alla ragione per cui ho fatto il rewatch di questa saga: andare a vedere il prequel, uscito a novembre del 2023 nelle sale. La ballata dell’usignolo e del serpente (il romanzo e credo anche il film) ha lasciato delusə molte fan della saga originale. Problematiche strutturali, troppa poca tensione, Lucy Gray non è all’altezza di Katniss Everdeen… così dicono moltə.

Da un punto di vista narrativo, sono parzialmente d’accordo. Ma credo che la vera ragione per cui il prequel non è piaciuto è che Collins ha avuto il coraggio di raccontare la storia del presidente Snow: del cattivo. Ha avuto il coraggio di raccontarci come una persona oppressa, che ha vissuto la guerra e che ha visto cose orrende, una persona che ha avuto l’occasione di interagire con altre persone oppresse, seppur provenienti dal fronte opposto, di essersi perfino innamorato di una di loro, sia comunque diventato lui stesso l’oppressore. 

Hunger Games 1 e 2 sono la parte divertente, ma forse sono Il canto della rivolta e La ballata dell’usignolo e del serpente, che trattano della caduta e della nascita di una dittatura, le due opere che hanno di più da insegnarci.