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Il nuovo Ventennio

Il nuovo Ventennio

Il dissenso è politico; la repressione del dissenso è politica.
Una politica scelta ed agita con maestria e furbizia, non certo un tiro fortunato, una mossa scissa da un progetto ben studiato e preventivato.

La repressione del dissenso è un impiego rigoroso per la realizzazione di un fine: uno strumento in mano ad un potere definitorio che delinea un modello sulla base di esperienze passate, vincenti tanto ieri quanto oggi.

Qualsiasi definizione illustrata nei saggi avrà con sé la fortuna di mostrare il funzionamento di un potere assoluto; una serie di attuazioni ferme, ben delineate nel loro avanzare strategicamente. Ma il confine è più labile, e spesso diviene impossibile accorgersene finché non resta più niente a cui appigliarsi per smuovere le coscienze. Ed è ahimè solo con le coscienze e fiori rossi legati ad una resistenza armata che si arriva alla libertà di poter notare quel confine labile e offuscato. Quale miglior eredità poteva in effetti esserci lasciata – forse una dove potevamo spezzare la riproduzione ciclica della storia: un’eredità libera dal ritorno di una mano bramosa di un potere dispotico, o libera da un agire che sopprima popoli interi – se non quella di poter vedere dove sembrano non volerci far volgere lo sguardo. 

Quando il dissenso diventa politico, e non più prassi naturale, le reazioni concretizzabili sono molteplici, eppure si tende sempre verso una scelta che silenzia deliberatamente. Dissentire il dissenso, in un mondo sano e tendente all’ascolto, non dovrebbe trasformarsi in un’azione politica di repressione, in un’agenda di azione volta allo spegnimento della voce dissonante.

In questo mondo non sano la voce dissonante è stata trasformata in tale senza che essa potesse far niente per impedirlo. È così che ha inizio la presa di potere assoluto, con la creazione di una voce unica, una verità unica, un’immagine, un’idea, una verità, una. Il potere, singolare, piega a sé il popolame tramite atti legali – sempre legali finché è in grado di renderli tali –, discorsi, interventi, interviste, comizi, fino a plasmare l’immagine che vuole far percepire di sé. È un lavoro meccanico, scaltro, che, come primo obiettivo, ha quello di identificare il bisogno della massa, il malcontento, la fiducia, la speranza, eleggendo a programma politico una promessa che di politico ha in realtà solo l’aspetto. Poco importa che, una volta detenuto il potere, la mano non attui quanto promesso in precedenza: sarà trovando la nemesi del paese che le bocche verranno sfamate. Di soppiatto, la mano inizia a venderci un riflesso di lei come di un’unicità in pasto alle malelingue, e le malelingue vedranno additarsi come Altro, e quello che non è il pensiero della mano sarà Altro, e il programma che non sia della mano sarà Altro, e l’ideologia che non sia della mano sarà Altro, e allora sei con o contro di lei?

Conquistata la massa e il consenso e venduta una verità unica, l’obiettivo è ora quello di piegare a sé il bilanciamento della cosa pubblica, le indipendenze su cui si poggia la garanzia di uno Stato equo e non dispotico. C’è chi scrive le leggi; arrivar lì al potere legislativo è stato piuttosto semplice, accaparrarsi la maggioranza facendo leva sullo scontento popolare come bere un bicchier d’acqua, e adesso è la mano a scriverle, a dettar calendarizzazioni e programmi, a decidere cosa merita d’esser discusso, votato, di avere attenzione, cos’è più urgente di altro – è tutto urgente solitamente, meno che la preservazione di una vita dignitosa ed eguale davanti alla legge –. C’è chi le leggi le fa rispettare; il potere giudiziario è sì bloccato nella sua indipendenza, ma tra nomine specifiche e nuove leggi è impensabile immaginare il corpo della magistratura non attuare quelle che sono le direttive legislative – è un esempio quella che configura la fattispecie di raduno su terreno privato o pubblico al fine di realizzare un raduno musicale o avente altro scopo di intrattenimento[1] –. C’è chi le leggi le deve far applicare, col compito ulteriore di dettare l’indirizzo politico dello Stato, ossia l’individuazione e l’attuazione degli obiettivi da perseguire: inutile dire che la mano-assoluta è proprio del potere esecutivo che ha voluto impossessarsi. Definire il fine ultimo dello Stato significa avere la libertà di orientare arbitrariamente una modalità governativa, che è la stessa che reprime il dissenso; dettare l’indirizzo politico significa avere il margine per criminalizzare qualsiasi voce sia dissonante da quella della mano-dispotica, ed è qui che la rotta inizia a suonare pericolosa. La criminalizzazione di chi dissente dà accesso a maggior consenso, che amplia la possibilità di creare, per vie legali, scatole dove criminalizzare chiunque dissenta col pensiero, l’agire o la parola, l’immagine e l’ideologia del potere-assoluto-dispotico[2]. È disegnando come delittuoso il dissenso che si acquisisce la legittimità di reprimerlo.

La repressione del dissenso è una pratica dittatoriale, una violazione del diritto naturale e inviolabile della persona. L’occultamento della verità, il controllo di chi dissente, l’affermazione di un’unica obiettività e il dominio sull’informazione pubblica saranno forze dispiegate da chi ha tutta l’intenzione di mantenere una linea di potere tramite l’esercizio della forza.

Il braccio armato risponde al potere esecutivo, quindi alla visione di chi presiede il Governo: dipingere la resistenza come una ribellione legittima la risposta violenta, che si traveste da preservazione dell’ordine e della sicurezza. Hanno dipinto il pensiero Altro come ribelle e criminale, ed è così che le immagini di chi dissente vengono ora presentate come attacchi diretti al Governo, allo Stato o ad altri non-Stati. E sebbene la criminalizzazione funzioni perfettamente, questa non può essere abbastanza: bisogna ricordare ai Ribelli quanto grave è il loro affronto, e quanto giusta è la repressione a suon di sprangate sul cranio. La polizia è legittimata, in primis dal potere assoluto, a dispiegare una forza che non è lei concessa[3], tutto al fine di ripristinare l’ordine unico. E che brava, polizia, asservita ad un potere dittatoriale che usa la forza per eliminare la contrarietà al proprio agire; che bravo, Governo, che asservisci a te il braccio armato per annientare la voce contraria al tuo politicare[4].

In un’era digitale vien da chiedersi però com’è possibile non vedere oltre all’unica informazione che permea da questo velo; la Costituzione viene in soccorso, garantendoci il diritto fondamentale ad un’informazione libera da interferenze politiche e governative.

L’articolo 21 della Costituzione italiana, co.1-2, recita «Tutti hanno il diritto di manifestare il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione. La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure».

Che pensiero confortevole per una popolazione civile sapere che una legge suprema e inviolabile garantisce la non ingerenza della politica nell’informazione pubblica; una neutralità che promette una televisione, un giornale, una radio, una stampa scevri dal pensiero unico. È un pensiero talmente confortevole che non verrà notata l’ingerenza, nemmeno qualora un amministratore delegato Rai obblighi in diretta nazionale alla lettura di un comunicato che afferma la trasversalità dell’ideologia unica. L’incostituzionalità. Autonomia e indipendenza del servizio pubblico non possono essere asservite al potere, dice la Costituzione, perciò laddove accada non può star accadendo; eppure accade, e la società civile Ribelle lo ha visto, e scende in piazza, e le macchie di sangue coprono l’asfalto perché la censura da parte del potere non esiste finché non è messa in atto divenendo prassi.

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Una Costituzione garante dei diritti inviolabili anche quando non viene nascosta la Censura, tanto nell’asservimento dell’informazione pubblica quanto nella repressione delle manifestazioni pacifiche. Garante dell’indipendenza dei tre poteri dello Stato anche quando alla luce del sole questi vengono asserviti ad un’ideologia partitica che non è più solo partitica, ma fascista nel metodo, nell’immagine, nel fine.

Garante nell’impossibilità di un ritorno ad uno Stato Fascista, anche se con fascismo oramai non sono più intese esclusivamente vicende storiche, ma attuazioni formali e sostanziali di un regime ove la perdita di diritti e il susseguirsi di violenze contro la popolazione resistente si sono già concretizzate nella repressione, nella censura, nell’occultamento della verità. Garante dell’impossibilità di un ritorno allo Stato Fascista mentre le piazze si riempiono di saluti romani.

La Costituzione riconosce i diritti fondamentali della persona, riconosce perché anteriori a lei, a chi l’ha scritta e a chi la scriverà; riconosce perché non un solo potere può disporre di questi diritti, può limitarli o revocarli; riconosce perché ad uno Stato Fascista spaventa l’esistenza di essi, e laddove si può riconoscere, il disconoscere diventa nuova metodologia.

Il vecchio Ventennio Fascista portava con sé la fortuna di una mancanza di controinformazione, di mezzi attraverso i quali veniva resa possibile la conoscenza degli accadimenti. Il nuovo Ventennio Fascista deve fare i conti con i mezzi utilizzabili per il risveglio delle masse. Nessun manganello e nessuna censura possono silenziare le voci che vedono e che possono volgere lo sguardo dove sembrano non volercelo far volgere.

[1] Decreto Rave, dapprima decreto legislativo (d.l. 162/2022) e successivamente convertito in legge (l.199/2022 che introduce il nuovo articolo 633bis nel Codice penale). È il famoso decreto-legge ampiamente problematizzato negli ambienti di attivismo vista la sua fattispecie non definita, che in luogo di attuazione può rischiare di venir interpretata con formule troppo ampie fino a criminalizzare le semplici manifestazioni.
[2] Disegno di legge depositato dalla Lega che prevede delle misure di contrato all’antisemitismo, dall’impegno della Repubblica nel constatarlo, all’insegnamento nelle scuole fino a corsi di formazione per la polizia di stato. Nell’art.2 del ddl viene inserita la possibilità di negare l’autorizzazione per una riunione o una manifestazione pubblica per ragioni di moralità se si pensa che vi possano essere «simboli, slogan, messaggi e qualunque atto considerato antisemita»
[3] L’uso della forza deve essere eccezionale e deve rispondere ai principi di legalità, necessità e proporzionalità. La polizia non deve apparire come intimidatoria. L’uso delle armi durante le manifestazioni è limitato: i manganelli, ad esempio non devono essere utilizzati per disperdere un raduno pacifico o contro persone pacifiche che oppongono resistenza passiva. Da Amnesty International: https://www.amnesty.ch/it/campagne/diritto-di-manifestare/guida-per-manifestare/come-la-polizia-puo-intervenire-per-disperdere-o-contenere-una-manifestazione#:~:text=%E2%9C%94%20I%20manganelli%20possono%20essere,possono%20verificarsi%20lesioni%20pi%C3%B9%20gravi.
[4] Le manifestazioni che hanno preso luogo in questi giorni a sostegno della Palestina e contro la censura agita direttamente dal servizio pubblico hanno conosciuto tutte lo stesso esito: repressione tramite la forza con l’uso di manganelli e scudi da parte della polizia di Stato. Nonostante gli svolgimenti pacifici, la repressione ha conosciuto escalation pericolosamente significative, anche a danni di manifestanti estranei alle richieste di Cessate il Fuoco: in data 16 febbraio 2024 infatti un collettivo di sindaci, che richiedevano un incontro col potere esecutivo, hanno conosciuto la repressione delle forze di polizia.
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Foto di Anete Lusina: https://www.pexels.com/it-it/foto/foto-in-scala-di-grigi-della-televisione-crt-su-strada-5721862/

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