Articolo di Rossella Ciciarelli
“Le storie sono importanti. Molte storie sono importanti” scrive Chimamanda Ngozi Adichie nel suo ultimo saggio, in cui avverte del pericolo di “un’unica storia”.
Dal canto mio non mi stancherò mai di affermare che le narrazioni che creiamo – e il modo in cui lo facciamo -, quelle che scegliamo di tramandare, quelle che più o meno consapevolmente condanniamo all’oblio, quelle che condividiamo e quelle che recepiamo, costituiscono ciò che siamo e la nostra visione del mondo. E il mondo magari lo modificano anche.
Le narrazioni hanno il potere di dare forza, dignità, di far conoscere e riconoscere l’Altro, di renderlo visibile, di ampliare prospettive e di cancellare gli stereotipi imposti dall’ “unica storia”.
Oggi dunque, in occasione del Lesbian Visibility Day, poniamo l’accento sulla visibilità, intesa come fenomeno sociale volto a “normalizzare” le diversità. Lo facciamo raccontando e dando spazio a donne che nel tempo hanno amato altre donne più o meno apertamente, e lo facciamo per “salvarci”, come scrive Chimamanda, dalla “storia unica” dei sentimenti e delle relazioni umane; e dalle limitazioni che essa cerca di imporci.
IN TEMPI REMOTI
Recuperare tali narrazioni non è facile: in alcuni casi esse non sono mai esistite, restando nella segretezza della sfera privata, in altri casi non sono riuscite a restare a galla, travolte dalla fiumana del tempo e dalla corrente avversa. C’è però un nome che emerge da lontano, dal VII secolo a.C.: è quello di Saffo dell’isola di Lesbia, poetessa la cui fama resiste ai secoli, secoli che purtroppo però ci hanno restituito solo frammenti della sua opera.
Da lei, a cui indirettamente dobbiamo i termini che usiamo per identificarci e per raccontare le nostre esperienze, è giusto far iniziare questo articolo. Conosciuta per aver fondato il tiaso, una sorta di scuola femminile in cui giovani fanciulle in vista del matrimonio venivano educate al “bello” e al culto di Afrodite e delle Muse, alla musica e all’eros, Saffo ha cantato attraverso i suoi versi la sensualità femminile, l’amore – con i suoi piaceri e le sue sofferenze.
Simeon Salomon, nel 1864, dipinse un’opera a lei dedicata, dimostrando di conoscere la narrazione che vede Saffo come amante di Erinna, un’altra poetessa ritenuta da alcune fonti sua discepola (sebbene altre, accreditate, ritengano invece essa sia vissuta molto tempo dopo, nel IV secolo).
Più corretto sarebbe proiettare nell’opera la figura di Gongila, cui Saffo dedicò celebri versi, così da celebrarne una bellezza tale da superare quella della stessa dea Afrodite.
«O mia Gongila, ti prego
metti la tunica bianchissima
e vieni a me davanti: intorno a te
vola desiderio d’amore.
Così adorna, fai tremare chi guarda;
e io ne godo, perché la tua bellezza rimprovera Afrodite.»
Laddove la realtà non fornisce dati certi, come nel caso dell’antico, piccole eccezioni alla “storia unica” ci arrivano proprio dal mondo delle narrazioni per eccellenza, dal mito.
LA DEA E LA NINFA: DIANA E CALLISTO
Quello di Callisto è uno dei pochi miti antichi a raccontare un amore fra donne, e, in quanto tale, il tentativo di ricondurlo all’interno di una narrazione patriarcale non tardò ad arrivare, inserendo nella storia l’espediente della metamorfosi di Giove. Ma procediamo gradualmente.
Callisto è una delle ninfe che abitano i boschi, cacciano e vivono in simbiosi con la dea Diana, lontano dallo sguardo e dalla presenza maschile. Non solo, è la sua preferita. Uno degli aspetti interessanti di questa storia è infatti che la dea rifiuta qualsiasi interazione romantica con gli uomini e si aspetta che le sue compagne facciano lo stesso. L’altro è che Callisto risponde positivamente alle avances di Giove solo perché credeva di avere davanti una donna, ovvero Diana. Il resto della storia è nota: Callisto si accorge troppo tardi dell’inganno del dio e resta incinta, Diana nel scoprirlo si sente tradita e allontana la ninfa.
Il mito nei secoli avrebbe innegabilmente offerto l’occasione di rappresentare nudi femminili per un pubblico maschile, ma rimane comunque di grande importanza in quanto racconto alternativo, capace di resistere ai tentativi di ricondurlo nell’ unica storia eteronormativa.

L’ITALIA RINASCIMENTALE: LAUDOMIA FORTEGUERRI E LA DUCHESSA MARGHERITA D’AUSTRIA
«Non appena Laudomia vide Madama [Margherita], e fu vista da lei, improvvisamente con le fiamme più ardenti dell’Amore bruciate l’una per l’altra, e il segno più evidente di ciò fu che andarono a visitarsi più volte. […] E oggi più che mai, con note l’una dall’altra le mantengono calorosamente.»
Con queste parole un uomo del XVI sec, vicino a Laudomia Forteguerri e a Margherita d’Austria, raccontava della relazione creatasi fra le due donne, la più celebre del Rinascimento italiano.
Laudomia era una nobildonna e poetessa senese, Margherita la figlia naturale dell’imperatore Carlo V, moglie di Alessandro de’ Medici prima e di Ottavio Farnese dopo. Si conobbero a Siena nel 1535. Delle lettere menzionate da questo loro contemporaneo non è giunta alcuna traccia: tutto ciò che ci è pervenuto sono sei sonetti della Forteguerri, cinque dei quali dedicati a Margherita.
Felice pianta, in ciel tanto gradita,
Ove ogni estremo suo natura pose,
Quando crear tanta beltà dispose,
Dico mia diva d’ Austria Margherita.So ben, che mai di ciel non fe’ partita,
Ma per mostrarne le divine cose,
Scolpilla Dio, e di sua man compose
Questa a lui tanto accetta e favorita.S’ a Noi fu largo Dio di tanto dono,
Di mostrarne la gloria del suo regno,
Non vi sdegnate a me mostrarla in parte.E s’ io del petto v’ ho lasciato un pegno,
In cambio un vostro ritratto con arte
Mandate appresso, ove i miei occhi sono.
Pienamente petrarcheschi nello stile, i sonetti di Laudomia ripetevano le dinamiche dei rapporti d’amore tra poeta e amata, con la sola differenza che questa volta anche chi scriveva i componimenti era una donna. La Forteguerri dunque scriveva a Margherita usando il linguaggio e le immagini dell’amore romantico, e il rapporto fra le due era noto ai contemporanei: Agnolo Firenzuola nei Discorsi delle bellezze delle donne lo associava a quello di due anime che trovavano l’altra metà, riprendendo così il mito di Platone sull’origine dell’amore.
A CORTE: MARIA ANTONIETTA E LA PRINCIPESSA DI LAMBALLE
Tutti conoscono Maria Antonietta per l’infelice frase sulle brioche che le viene erroneamente attribuita e per la sua triste fine: fu ghigliottinata insieme al marito Luigi XVI nel 1793. Sono pochi quelli che invece sanno perché essa sia ritenuta un’icona queer d’altri tempi. Capiamolo insieme.
Austriaca di nascita, quello di Maria Antonietta con il Re di Francia fu chiaramente un matrimonio politico che portò la giovane donna a lasciare la sua terra e la sua famiglia per rinchiudersi nella prigione dorata di Versailles. Invisa sin da subito al popolo francese per la dispendiosità del suo stile di vita, la regina era anche considerata responsabile per la sterilità dell’unione con Luigi XVI: il matrimonio non venne consumato per sette anni. Il risentimento nei confronti della regnante fu espresso attraverso opuscoli, incisioni, spettacoli teatrali che rappresentavano Maria Antonietta in atteggiamenti licenziosi, adulteri e soprattutto omoerotici.
Che al di là di questo “odio mediatico” si celasse del vero? Fra le preferite della Regina, oltre alla più celebre e amata Polignac, vi era sicuramente la Principessa di Lamballe, una giovane vedova cui la Regina divenne intimamente legata, tanto da darle un ruolo centrale a corte. “Con il cuore interamente tuo” era la formula di chiusura delle loro lettere e “Caro Cuore” il nomignolo con cui si rivolgevano l’un l’altra.
Dopo la separazione dovuta ad una fuga fallita, con la Rivoluzione che si faceva sempre più violenta, la regina mandò un anello alla principessa accompagnato da una ciocca di capelli. La Lamballe rispose con un orologio per ricordarle delle ore trascorse insieme, esprimendo il desiderio di vivere o morire accanto alla regina. Quando Maria Antonietta fu infine arrestata dai rivoluzionari, uno degli ultimi possedimenti ritirati fu una miniatura della principessa.
IL RIFUGIO: LE SIGNORE DI LLANGOLLEN
«Sorelle innamorate, di un amore cui è concesso scalare […] vette che vanno oltre i confini del tempo.»
William Wordsworth
Quando parliamo delle “Signore di Llangollen” ci stiamo riferendo a Eleanor Butler (1739–1829) e Sarah Ponsonby (1755–1831), che lasciarono l’Irlanda per rifugiarsi in Galles e costruirsi una vita insieme. Così fecero, e nel loro cottage a Llangollen vissero per cinquant’anni, fino alla morte della Butler. Celebrate, da chi le conosceva, come esempio perfetto di coppia devota, si rivolgevano l’un l’altra chiamandosi “la mia amata” o “la mia metà” e, come emerge dai loro scritti, cercavano di non passare mai giornate separate e/o lontane dalla loro adorata dimora.
Ben presto però furono gli altri a raggiungerle lì: la fuga delle due donne dal mondo risultava ammirevole per gli animi romantici del tempo e il rifugio a Llangollen divenne presto meta di pellegrinaggio per scrittori come Sir Walter Scott, William Wordsworth e Anna Seward. Fra gli ospiti anche Anne Lister, che nel 1822 ancora sognava per se stessa la vita che Eleanor e Sarah erano riuscire a costruirsi.
LA DIARISTA: ANNE LISTER E ANN WALKER
Anne Lister, considerata “la prima lesbica moderna” per la chiara consapevolezza di sé e per il suo stile di vita, è stata una proprietaria terriera di Halifax. Se ci è possibile ricostruire nel dettaglio la sua vita è grazie ai diari in cui raccontava delle sue relazioni (utilizzando un codice, oggi decifrato) così come dei suoi progetti per migliorare la tenuta di Shibden Hall.
Consapevole del suo amore per le donne, la Lister ebbe un’importante relazione con l’amica Marianna Lawton Belcombe, la quale però finì con lo sposarsi, infliggendo un colpo devastante ad Anne, che nel 1823 annotava sul diario: “Il tempo, i modi, il suo matrimonio …Oh, come hanno spezzato per sempre la magia della mia fede.”
Il lieto fine arrivò negli anni ’30, quando l’ereditiera Ann Walker assunse un ruolo importante nella sua vita, sancito poi da quello che le due donne vissero come un rito nuziale: la domenica di Pasqua del 1834 presero la comunione insieme nella Chiesa di Goodramgate, considerandosi da quel momento sposate. Interpretato come il primo matrimonio omosessuale d’Inghilterra, nella chiesa oggi è presente una targa commemorativa.
In tale occasione la Lister scriveva: “Che ci sia dato vivere per godere di tanti altri anniversari del genere“. La sua storia è già divenuta soggetto di un film per la televisione e, nel 2019, di una serie tv.

ADORATA CREATURA: VIRGINIA WOOLF E VITA SACKVILLE WEST
Tra le storie riportate, quella fra Vita e Virginia è forse la più nota e dunque anche quella che necessiterebbe meno presentazioni, oltre ad essere quella a cui chi scrive è più legata (qualcuno mi aiuti a frenare la tentazione di riportare qui l’intero epistolario!). L’amore fra le due scrittrici è stato tra l’altro di recente portato alla ribalta da una nuova raccolta delle loro lettere e dal film Vita&Virginia.
Entrambe sposate, entrambe decise a non replicare gli schemi del rapporto matrimoniale nella loro relazione che durò per quasi venti anni, le due si incontrarono per la prima volta il 14 Dicembre 1922; seguì un rapido scambio di cene e di libri. L’ammirazione era reciproca e Vita dopo l’incontro scriveva al marito di adorare Virginia Woolf.
Aristocratica disinibita la prima, donna ripiegata nello scorrere interiore dei suoi pensieri la seconda. Ognuna cercava nell’altra ciò che più ammirava: Vita la mente di Virginia, Virginia (perdonate il gioco di parole) la vita.
«Sono ridotta a una cosa che desidera Virginia. Stanotte avevo composto per te una lettera bellissima, nelle ore insonni, piene di incubi, ma è tutta sparita: mi manchi e basta, in un modo piuttosto semplice, disperato, umano […] mi manchi più di quanto potessi immaginare anche se mi ero preparata a sentire molto la tua mancanza. Ecco perché questa lettera è una sofferenza continua. È incredibile come tu sia diventata essenziale per me. Penso che tu sia abituata a sentirti dire questo genere di cose dagli altri, maledetta creatura viziata. Sono un libro aperto eppure so che così non mi amerai di più: ma cosa ci posso fare? Cara, non riesco a essere furba e scostante con te, ti amo troppo per comportarmi così. È la pura verità. Non hai idea di quanto possa essere scostante con le persone che non mi piacciono. È un’arte che ho affinato. Tu, però, hai fatto cadere le mie difese e a me non dispiace affatto.»
Vita
Il rapporto crebbe su se stesso prima di trasformarsi in profonda amicizia, e Virginia mise a nudo l’amata raccontandola ne L’Orlando, definito “la più lunga lettera d’amore della storia” dal figlio di Vita.
«Ma se l’essere amata da Virginia vale qualcosa, Virginia ti ama; e ti amerà sempre, e ti prego, credici.»
Virginia
Il 28 marzo del 1941, sei giorni dopo aver scritto l’ultima lettera, Virginia si uccise. Nel settembre di quell’anno Vita annotò sul suo diario: «Sola. Acuto, improvviso rimpianto di Virginia. Non sto bene.»
GERTRUDE STEIN E ALICE B. TOKLAS
«Era una presenza dorata, bruciata dal sole della Toscana e nei suoi capelli castani brillava un tocco d’oro. Indossava un completo in velluto a coste marrone. Aveva una grande spilla rotonda in corallo e quando parlava, decisamente poco, o rideva, molto di più, era come se la sua voce uscisse dalla spilla. La sua voce era diversa da tutte le altre: profonda, piena, vellutata, come quella di un grande contralto, come due voci insieme.»
Con queste parole Alice B. Toklas descriveva Gertrude Stein dopo il loro primo incontro, avvenuto nel 1907. Le due andarono a vivere insieme al 27 di Rue de Fleurus nel 1910 e non si separarono più. La loro abitazione divenne famosa in quanto ricettacolo di artisti e scrittori destinati al successo, come i Fitzgeralds, Ernest Hemingway, Pablo Picasso, Charlie Chaplin, Henri Matisse. Un’idea della vivacità culturale del circolo ci viene restituita dal film Midnight in Paris, sebbene Woody Allen si sia dimenticato di ricordare la figura di Alice B. Toklas: molto male, dal momento che la donna fu musa e consigliera di Gertrude per tutta la vita!
Spesso la Stein restava sveglia intere notti per scrivere; lasciava allora dei teneri biglietti sul cuscino accanto ad Alice, così che lei potesse leggerli svegliandosi. Quando Gertrude morì e alla Toklas venne chiesto di scrivere le sue memorie, ella affermò che al massimo sarebbe riuscita a scrivere un libro di cucina. In realtà fece tutt’altro: I biscotti di Baudelaire è un libro in cui accanto a ricette culinarie si trovano narrazioni di ricordi, vicino a racconti di cene con personaggi bohémien, opinioni artistiche, contornati da aneddoti di una vita trascorsa insieme.

Per concludere, quelle riportate sono solo alcune delle storie sparse nel tempo che meriterebbero visibilità: dalle pittrici Rosa Bonheur e Nathalie Micas alle fotografe Claude Cahun e Suzanne Malherbe, dalle abolizioniste Sallie Holley e Caroline Putnam alle pacifiste Frances Witherspoon e Tracy D. Mygatt, la lista potrebbe ancora essere lunga.
L’invito è proprio quello di estenderla sempre più, di creare una moltitudine di narrazioni tale da distruggere l’idea dell’unica storia; di produrre e dare spazio a racconti in cui poter riconoscerci. Perché essere visibili vuol dire affermare il diritto di esistere, e di essere se stesse/i.