Articolo di Rossella Ciciarelli
«Un’opera d’arte è sempre la somma dei piaceri e dei dolori dell’uomo che l’ha creata».
Con questa frase Renato Guttuso affermava l’esigenza per l’artista di agire, nel dipingere, «come agisce chi fa una guerra o una rivoluzione».
E la guerra e la rivoluzione in questione sono quelle che ricordiamo in occasione del 25 Aprile, giornata in cui celebriamo la fine della prima e i risultati della seconda: ciò che era e poi, per fortuna, non è più stato.
Memorie fatte di racconti, parole, pagine di storia che è nostro dovere tenere in vita per onorare il passato e costruire un presente lontano da totalitarismi e soprusi: per resistere e dunque proteggere i valori e le libertà che ci rendono umani.
Memorie sono anche le immagini create da coloro che, rappresentando la guerra, hanno resistito, testimoniato, raccontato, lottato per la vita.
Arte contro la barbarie
È il 23 Agosto 1944 e ci troviamo nella Galleria di Roma; il Nord è ancora occupato ma la Capitale è stata liberata e all’interno dell’area espositiva possiamo visitare una mostra dal titolo “Arte contro la barbarie: Artisti romani contro l’oppressione”. Tutto intorno a noi una serie di opere sui soprusi del fascismo e sulla lotta partigiana: molte sono di Mario Mafai e di Renato Guttuso, e in tutte sono riportati i segni lasciati dalle brutture di quegli anni, sui corpi e negli animi degli artisti che si erano trovati a viverli.
Conosciamone alcuni.
L’Arte etica: Mario Mafai
«L’arte è un fatto etico prima che estetico.»
Fra le opere esposte alla mostra del ’44 vi sono sei dipinti del grande ciclo “Le Fantasie” di Mario Mafai, rese note al grande pubblico per la prima volta: immagini che di fantastico, in realtà, hanno ben poco.
Si tratta di riproduzioni satiriche ed espressioniste della disperazione e dell’umiliazione, della violenza e dei cadaveri da essa generati, di esecuzioni, grida e silenzi, di interrogatori e torture: una rappresentazione macabra del fascismo, di un incubo che si fa reale e di una realtà che diventa mostruosa. Le 23 tavole vengono realizzate fra il ’39 e il ’44, anni in cui Mafai e la sua famiglia, lasciata Roma in seguito all’approvazione delle leggi razziali, trovano rifugio presso Genova: la moglie, l’artista Antonietta Raphaël, è ebrea.
Nascono così “Le Fantasie”, “fiotti di lacrime e sangue”, come una delle figlie di Mafai, Giulia, le definirà.
«Sono quadri che, oltretutto, mio padre non ha mai voluto condividere e che, le dirò, a quell’epoca era anche molto pericoloso tenere: erano contro la guerra in un momento in cui si esaltava invece il suo misticismo. Per questo motivo le abbiamo sempre tenute nascoste e quando siamo stati obbligati a cambiare casa da clandestini, queste “Fantasie” ci hanno sempre seguito. Il compito di noi tre sorelle, io avevo dieci anni e Simona e Miriam 12 e 14, era di legare queste tavolette di legno e portarle da una casa all’altra. Sono un pezzo della mia vita e di quella del Paese.»
Giulia Mafai
Quella dei Mafai è una posizione netta contro il fascismo, resa chiara già sul finire degli anni Venti quando il loro appartamento in via Cavour e il sodalizio con Scipione danno origine a un nucleo importante della corrente artistica poi nota come “Scuola Romana”, caratterizzata da un fermo rifiuto del regime fascista.
La figlia maggiore, Miriam, giovanissima diverrà parte attiva della Resistenza.
La vita e l’angoscia: Antonietta Raphaël
L’arte di Antonietta Raphaël muove da una dimensione interiore in cui il proprio sentire, la realtà esteriore e il mito si fondono e si rafforzano a vicenda. La dolcezza e la sofferenza, personale e collettiva, viene modellata in forme essenziali e immaginifiche. Le sculture riducono la propria superficie, sino a diventare frammento, a esser definite da pochi dettagli, e i corpi dei carnefici diventano figure mostruose e scattanti. È il caso di “Il Tirannicida” (1942), una sorta di Minotauro colto in torsione con il peso sbilanciato, drammaticamente pronto ad attaccare. Le vittime, impaurite, cercano rifugio come bambini desiderosi di tornare nel ventre della madre.
Ecco che allora la “Grande Maternità” viene chiamata da Raphaël anche “Angoscia n. 2”: la vita, di cui la madre è simbolo, incontra la paura, e nella paura ci si aggrappa alla vita.
Gott mit Uns: Renato Guttuso
«Un volto, uomini in guerra o in pace, angeli nei cieli, estasi di santi, massacri, dannati dell’inferno, crocefissioni… Una crocefissione che sembri una natura morta».
Oltre al gruppo romano, a prendere le distanze dall’arte celebrativa e in linea con il potere è il gruppo milanese “Corrente”, promotore di un’arte visivamente aggressiva e contenutisticamente antifascista.
Uno dei maggiori esponenti è Renato Guttuso che col suo stile realistico, quasi cronachistico, ha come scopo quello di creare immagini capaci di arrivare a chiunque, di scuotere dal torpore, dall’assuefazione alle ingiustizie e alla violenza. I suoi dipinti sembrano ridare voce a coloro cui è stata tolta. A coloro che, privati della libertà di esprimersi, muoiono non rinunciando ai propri valori e alla volontà di comunicarli: nuovi martiri crocifissi della modernità. L’arte di Guttuso è di chiara denuncia sociale, mira a rappresentare il dolore degli oppressi, e si muove di pari passo con l’esperienza personale dell’artista, partigiano e testimone di violenze.
Vero e proprio documento per fotogrammi della lotta di Liberazione è la raccolta “Gott mit Uns – Dio è con noi”, frase incisa sulle fibbie dei nazisti. Esposte alla mostra del 1944, le illustrazioni del ciclo raccontano le atrocità della guerra, ma anche l’impegno politico dei partigiani, il valore della Resistenza intesa come rivoluzionaria ricerca di libertà.
Il riferimento cristologico torna anche in altri artisti, come in Aldo Borgonzoni. L’uomo umiliato dalle sopraffazioni diventa un Cristo deriso: la parabola del giusto perseguitato è una tragedia della contemporaneità.
La morte: Leoncillo Leonardi
Molti sono gli autori, come stiamo avendo modo di osservare, che rappresentano le vittime della violenza fascista e il dolore che ne consegue.
Premiata alla mostra del ‘44 è la “Madre romana uccisa dai tedeschi” di Leoncillo. La scultura profondamente realista che mostra una donna incinta tumefatta, colpita a morte, è realizzata dall’artista recuperando un’immagine incisa nella sua memoria: quella dell’uccisione di Teresa Gullace, in Viale Giulio Cesare, resa celebre dal film “Roma città aperta”.
La scultura è di fatto prototipo della posa di morte della donna, interpretata da Anna Magnani, nel film di Roberto Rossellini.
Il partigiano “Barabba”: Emilio Vedova
«Col mio sacco partigiano riportai una cartella di disegni, presto quasi tutta dispersa, dai quali trassi però una serie di tempere».
Entrato in contatto con movimenti antifascisti a Venezia prima e a Roma poi, il partigiano di nome Barabba è colui che noi conosciamo come Emilio Vedova, artista autodidatta che persegue attraverso l’arte i suoi ideali.
I soggetti da cui parte sono le immagini della resistenza, richiami a non dimenticare quanto accaduto e il valore delle idee che l’hanno animata. Dopo la Liberazione il figurativo viene messo da parte. Il Novecento con la sua violenza trova nella pittura di Vedova un interprete originale, capace di esprimere tale violenza per quello che è: manifestazione irrazionale, forza bruta. Energia ignota che investe drammaticamente il mondo attraverso figure, cose o eventi, sue manifestazioni. Allora la violenza come energia trova espressione nei gesti di un artista che, avendola vissuta, la riversa poi su supporti pittorici.
La Liberazione: Armando Pizzinato
Non mancano certo immagini dei momenti più felici: ne è un esempio la “Liberazione di Venezia” di Armando Pizzinato, un artista tendente all’astratto che, muovendosi in direzione contraria rispetto a Vedova, prova a mantenersi sul figurativo, a farsi realista quando si tratta di rappresentare i ricordi, i momenti importanti della Resistenza.
I Partigiani: Mirko Basaldella
Ancora i partigiani sono i protagonisti dell’opera di Mirko Basaldella, colti in azione nella scultura a mosaico “Furore”, rappresentazione insieme di un grido di battaglia e di un volto che ha visto l’orrore della guerra, non molto distante dall’Urlo di Munch.
A Basaldella si deve anche il cancello del Mausoleo delle Fosse Ardeatine, luogo in cui si commemorano 335 italiani catturati a Roma e portati nelle cave di via Ardeatina, e lì trucidati. A guerra finita si bandisce un concorso per la realizzazione del cancello e a vincerlo è proprio Basaldella, proponendo un progetto che, muovendo verso la stilizzazione senza rappresentare un episodio specifico, allontana la raffigurazione dal momento contingente per farla diventare spunto di riflessione universale e sempre attuale.
Un groviglio di figure, di linee e di tondi che rimandano a corpi avvolti nel vortice irrazionale della violenza e, allo stesso tempo, quasi in tensione per raggiungere ciò che resta di umano in tutti loro.
Tante altre potrebbero essere le testimonianze visive di questi anni: sta a noi cercarle e ricordare, parafrasando Giulia Mafai, che sono un pezzo della storia del nostro Paese e un promemoria importante per quello che sarà il suo, il nostro, futuro.