La scorsa estate, per caso o per destino, mi sono trovato a leggere libri in cui vivevano donne la cui storia, esplicitamente o implicitamente si ispira a donne vissute in Italia all’inizio del secolo. Le ho trovate storie di straordinaria potenza simbolica perché ciascuna incarna un modo di esercitare il potere, l’empowerment, alternativo, resistente. Soprattutto, queste storie sono illuminanti e necessarie oggi poiché svelano che comportamenti etichettati come indecenti, devianti, impudici agli occhi della moralità dominante, sono stati e sono tutt’oggi, in realtà strategie di resistenza estremamente complesse e al tempo stesso impresse nella genetica culturale della donna stessa, in quanto socializzata a praticarle per poter attingere in modo parziale e laterale al potere, maschile.
I libri di cui sto parlando sono Oliva Denaro di Viola Ardone, D’amore e di rabbia di Giusy Sciacca e Un giorno verrá di Giulia Caminito. Ci sono numerosi temi che accomunano queste storie e in qualche modo possono anche restituire un continuum storico che parte dalla fine dell’Ottocento con il romanzo di Caminito fino al 1981 con la narrazione di Ardone. Raccontano l’Italia abbandonata dopo l’Unità, lasciata indietro dopo essere stata colonizzata, un’Italia descritta come barbara, arretrata, primitiva. Raccontano la Prima Guerra Mondiale, e le aspettative tradite, l’ascesa del fascismo che cavalca il risentimento della nobiltà decadente, l’onda di una società che si sta disfacendo, e presta il braccio alla violenza contro i poveri, i braccianti, le donne. Raccontano i tentativi di resistenza, il movimento anarchico e quello socialista, la settimana rossa di Ancona, gli spari dei nobili contro i braccianti siciliani, la vita di piccole comunità rurali del Sud. È un racconto corale dei margini, della storia non raccontata, delle voci silenziate, è il riscatto di chi ha fatto della propria esistenza, azione politica, della propria vita, manifesto.
La prima donna che ho incontrato nelle pagine di questo viaggio, è stata, in ordine opposto rispetto al tempo cronologico, Oliva Denaro; nonostante l’autrice abbia scelto di cambiarne il nome nella biografia di questa donna si rintracciano chiaramente i fatti che hanno scandito la vita di Franca Viola. Franca Viola nasce ad Alcamo in Sicilia nel 1947, a 18 anni si rifiuta di sposare l’uomo che l’ha rapita e violentata e, schierandosi contro le usanze, la tradizione, la comunità, rifiuta la paciata e denuncia. Seguirà un processo che condanna l’uomo e grazie al quale la questione del delitto d’onore e del matrimonio riparatore entrano nel dibattito pubblico. Tuttavia solo nel 1981, con la legge 442 – che ha come prime firmatarie le senatrici Carla Ravaioli e Giglia Tedesco, si giunge all’abrogazione degli articoli 544 e 587 del codice penale che prevedevano queste casistiche attenuanti di reati violenti. La biografia di Franca Viola è facilmente reperibile sul web, e aiuta a comprendere quanto una scelta possa effettivamente, e senza retorica, avere effetti a cascata sulla vita di tutti. Ma quello che rende l’opera di Ardone particolarmente potente e incisiva, è la sua capacità di ricostruire il percorso che può aver portato a questa scelta, la non linearità, il rifiuto, il rigetto, la volontà di sbocciare e poi, dopo il tempo della cura, del risposo, di fiorire ancora. Il viaggio raccontato da Ardone è un viaggio di liberazione, di riappropriazione del sé, di scoperta della propria volontà, che mai si è avuto la possibilità di conoscere, ancora prima che di esprimere. Oliva deve scavare per svelarsi a se stessa, e in questo percorso si possono riconoscere tutte le persone che negli stampi preconfezionati dalla società non hanno mai trovato quello in cui potere stare comodi, senza smussarsi, cambiarsi, mutilarsi. La storia di Oliva è storia di una lotta politica tutta interiore e che, una volta vinta, si proietta nel mondo.
La seconda donna, invece, ha votato la sua intera vita alla politica, quella nelle piazze, quella che nel primo Novecento ti faceva rischiare la prigione, e infatti Maria Giudice è stata più volte arrestata e condannata. Maria Giudice non è la protagonista del romanzo di Sciacca, anzi compare solo per poche pagine, ma tante bastano per immaginare la potenza della sua vita, la sua statura politica, e per farci domandare perché mai nessuno ce ne avesse parlato, perché non sia citata nei manuali di storia, insieme a Turati, Costa, Gramsci. Maria Giudice nasce a Codevilla in Lombardia nel 1880, ottiene il diploma magistrale, si avvicina fin da giovane al socialismo e inizia la sua opera politica prima come giornalista e poi come sindacalista, soprattutto nelle fabbriche tessili e nelle camere del lavoro. Per il partito gira l’Italia, viene arrestata, dirige giornali -lo stesso di Gramsci, viene inviata in Sicilia dove rimane per molti anni. Se si legge la sua biografia, non sembra poter descrivere la vita di una donna della sua epoca, per come ce le hanno sempre raccontate. Sicuramente non è la vita statisticamente normale per quegli anni e la società ha fatto di tutto per farla uniformare ma Maria Giudice non si è piegata. Maria Giudice ha avuto 8 figli – tra cui la scrittrice Goliarda Sapienza – da due uomini diversi, ma senza mai sposarsi. È stata la prima donna a dirigere la camera del lavoro di Torino nel 1916, ha conosciuto Mussolini quando ancora scriveva per l’Avanti e si diceva socialista, e poi nel ‘46 ci ha scritto un libro con l’amica e compagna di una vita Angelica Balabanoff intitolato Il traditore Mussolini. La vita di Maria Giudice è una vita di scelte guidate dal desiderio di essere libera e di essere libera insieme agli altri. Una vita seguendo ideali di uguaglianza, solidarietà e giustizia. La sua storia ci fa rivivere il sogno di una comunità in cui ciascuno ha a cuore l’altro e compie le proprie scelte partendo dalla consapevolezza che si è liberi solo quando tutti sono liberi. Una comunità che va costruita tanto negli ideali quanto nell’agire quotidiano, singolo e collettivo, privato e pubblico, intimo e universale.
L’ultima donna, raccontata nel romanzo di Caminito, è Zeinab Alif, meglio conosciuta in Italia come Suor Maria Giuseppina Benvenuti. Sulla vita di questa donna è costruita la personaggia di Suor Clara, la badessa del convento del paese di Serra de’ Conti a inizio Novecento. Zeinab Alif è nata in Sudan nel 1845 o 1846 dove è stata rapita per essere venduta come schiava nei mercati del Mediterraneo. Viene riscattata da un religioso italiano, portata in Italia, e affidata alle monache Clarisse nel 1856. Convertita al cattolicesimo e introdotta alla musica e alle regole dell’ordine, si trasferisce con la sua comunità nel borgo marchigiano di Serra de’ Conti nel 1894, di cui diventerà poi badessa. Nonostante le sue opere in vita le siano valse un processo di canonizzazione iniziato dopo la sua morte nel 1985, la prima parte della sua vita è stata certamente intrisa di violenza; la sua volontà non è stata considerata, è stata un corpo utilizzato e destinato all’uso che l’uomo di turno decidesse per lei. Nonostante ciò, Zeinab Alif è diventata la benvoluta Suor Maria Giuseppina Benvenuti. Questo percorso è il più stimolante per un lettore critico che, se per le personagge precedenti sapeva chiaramente per chi tifare, in questo caso si trova spiazzato. Perché questa può essere una storia di emancipazione ma anche di esercizio di un potere dispotico e maschile. Questa donna sembra essere libera nella sua oppressione, una persona estremamente complessa e per questo potente e interessante. Suor Clara è una donna che è riuscita a raggiungere una posizione apicale, a tenere testa al mondo ecclesiastico, per sua costituzione maschile, ad avere il potere assoluto all’interno di uno spazio circoscritto, il suo convento. Suor Clara è una donna con del potere. Tuttavia, il modo in cui esercita questo potere è talvolta ambiguo e dispotico, e ricalca il modo in cui tale potere è stato esercitato su di lei, un potere autoritario, unilaterale, maschile. La potenza di questa personaggia sta proprio nella sua imperfezione, nella convivenza in sé di tratti che oggi diremmo femministi e tratti chiaramente patriarcali, nella sua capacità di dire al lettore che forse non abbiamo ancora avuto esperienza di un potere che non distrugga ma che moltiplichi, che non ci renda innamorati gelosi ma amanti curiosi, che non ci ancori al passato ma che ci espanda in tutte le dimensioni, nel tempo e nello spazio.
Per poter esperire questo tipo di potere, che forse in questa sede potremmo definire femminista, è necessario dapprima poterlo pensare, avere delle immagini per poterlo mettere a fuoco, dei gesti a cui ricollegarlo, delle storie a cui paragonarlo, dei racconti da cui attingere. È fondamentale dunque sradicare il potere dalla sua concezione statica, monolitica, naturale, e immutabile e invece darne una connotazione in divenire, un potere come spazio del potenziale, che quindi ancor prima dev’essere immaginabile, pensabile. Il potere come opera, dunque, narrativa, fantastica. Il romanzo diventa così strumento più che mai adatto per contribuire a questo percorso semantico, a questa maieutica collettiva, a questa genesi politica, tanto più efficace grazie al talento di queste tre scrittrici. Grazie a questi racconti, entrando nelle storie di queste donne, è possibile conoscere nuovi modi, nuovi spazi e nuovi tempi di esercizio del potere, un potere sfaccettato, talvolta occulto, altre volte pubblico, autoritario, oppure democratico, che ha sede in se stessi o radicato nella comunità. Questi romanzi creano quegli spazi di fantasia che attraverso storie reali mostrano narrazioni ribelli e rivoluzionarie capaci di cambiare la società di oggi attraverso il modo di concepire, pensare e narrare il potere: non più un potere maschile ma un potere femminista.