Partiamo da un presupposto: i fatti della vita ci coinvolgono emotivamente solo quando ci riguardano. È vero, ogni persona ha una diversa sensibilità e un proprio grado di empatia nei confronti del mondo, ma – chi più chi meno – siamo sempre “scossi” dalle cose che succedono a noi direttamente o alle persone a cui vogliamo bene. È un dato di fatto, è normale che succeda e probabilmente è anche giusto così: se ci addolorassimo per ogni goccia di sofferenza che c’è nel mondo non riusciremmo a vivere. Però ci deve essere un momento-limite in cui questo ragionamento semplice e lineare, su cui tutti credo concordiamo, non vale più. Ci deve essere, ne sono convinta, e purtroppo me ne sono resa conto solo un paio di giorni fa, all’età di 21 anni e mezzo. Permettetemi di spiegare.
Domenica mattina mi sono svegliata trovando un messaggio insolito sul mio cellulare, il messaggio di un mio caro amico che provato dal dolore mi raccontava che nella notte c’era stato un bruttissimo episodio di violenza nella sua città natale: moltissime persone erano state uccise da dei folli mentre stavano festeggiando o passeggiando in centro, in particolare era morto un suo amico molto stretto insieme ai suoi bambini e alla sua famiglia. Oltre al racconto mi aveva inviato dei video amatoriali trovati in internet che mostravano la pazzia omicida spezzare la spensieratezza di una calda e festosa sera di inizio estate.
Ero triste, provavo dolore nel sapere che una persona a cui voglio bene stava soffrendo perché la sua città era stata ferita, dei suoi amici erano morti e probabilmente anche la sua famiglia era in pericolo, o comunque stava passando ore terribili. La prima cosa che mi è venuto spontaneo fare è stata aprire Google News e cercare dettagli sull’accaduto, per capire cosa fosse successo. Mi aspettavo di trovare la notizia in cima alla rassegna stampa dell’app del mio smartphone, e di vedere ovunque sui social network post che parlassero dell’accaduto.
Invece niente.
Il nulla.
Solo un articoletto di una testata inglese riportava la notizia in modo stringato.
In un primo momento ho provato sgomento e rabbia: ma com’è possibile, muoiono più di cento persone in una notte – tra cui moltissimi bambini – e nessuno dice niente? Nessuno si indigna? Nessuno prova dolore?
Poi, dopo due secondi il mio cervello ha finalmente connesso e mi ha suggerito la risposta: a chi deve mai importare dell’ennesimo attentato in Iraq? Sì perché se il mio amico si fosse chiamato Mark e fosse stato originario di Londra avrei probabilmente visto le testate di tutti i giornali monopolizzate dal racconto di questa strage per settimane, invece si chiama Ali ed è di Baghdad.
È così che mi sono resa conto di questo paradosso, e di quanto fosse assurdo. Mi sono resa conto che è da quando ho memoria che la televisione mi mostra immagini di massacri e violenze inenarrabili in Iraq, in Afghanistan e in tutti quei paesi lì, eppure me ne importa davvero solo adesso per la prima volta. Ho rabbrividito. Mi sono trovata confusa di fronte al mio provare rabbia perché il telegiornale di uno dei principali canali televisivi aveva dedicato un quarto d’ora alla sconfitta della nazionale di calcio agli europei e non aveva detto una sola parola sulle vittime di uno dei più brutali attentati commessi dal’Isis fin ora.
E tutti i morti che ci sono stati prima? Tutte le guerre che ho visto passare sui giornali? Tutte le esplosioni che hanno ucciso centinaia di persone negli anni passati? Tutte quelle stragi di cui negli anni scorsi nessuno mi ha mai parlato perché i campionati di calcio del momento erano più importanti?
Come ho potuto essere così cieca, così sorda, così insensibile per tutto questo tempo?
Ecco che ritorno quindi alla premessa iniziale: forse sarà anche normale che tutto ciò mi sia successo, ma adesso so per certo che non è giusto. Il rendermene conto mi ha scioccata e rassicurata allo stesso tempo.
Mi ha scioccata perché realizzare che le persone sono diventate insensibili di fronte al dolore, e che hanno iniziato a considerare la violenza “normale” è uno dei pensieri più brutti che siano passati nella mia mente. Significa il fallimento del nostro essere umani.
Dall’altro lato però dentro di me ho sentito nascere un sentimento di speranza: ADESSO ho aperto gli occhi, adesso vedo le cose da un altro punto di vista, adesso la realtà ha un altro colore e così come è successo a me può succedere ad altri. Non è troppo tardi per diventare più umani.
L’intento di queste mie parole non vuole essere una critica nei confronti di tutte quelle persone che hanno pianto per gli attentati di Parigi o che si sono commossi per i nostri connazionali uccisi a Dacca ma non hanno battuto ciglio leggendo qualche trafiletto sui morti di Baghdad. Se non avessi avuto la fortuna di incontrare quasi per caso un amico speciale che ho il piacere di poter chiamare affettuosamente “fratello” quando ci parliamo, probabilmente farei parte della stessa categoria. Non vuol dire essere senza cuore, significa solo essere nati e cresciuti in una realtà che ci insegna fin da quando siamo bambini che noi siamo il centro del mondo, quindi quello che succede nel cortile di casa nostra è un fatto degno di nota, mentre quello che succede nell’isolato a fianco, beh non ci riguarda, “è casa loro” e “tanto vale che si ammazzino tra loro”.
L’intento di queste mie parole è invece quello di trasmettere un semplicissimo messaggio: CI RIGUARDA! Non è sbagliato indignarci e dolerci se viene commesso un attentato a Bruxelles, ma se delle persone vengono barbaramente uccise in un paese “lontano” e martoriato da anni di violenze la cosa ci riguarda comunque, in quanto parte dell’umanità.
John Donne ha sicuramente fatto un lavoro migliore del mio nell’esprimere in poesia questo concetto:
<<Nessun uomo è un’isola, completo in sé stesso
Ogni uomo è un pezzo del continente, una parte del tutto.
Se anche una zolla venisse levata via dal mare,
l’Europa ne sarebbe diminuita
come se le mancasse un promontorio,
come se venisse a mancare una dimora di amici tuoi, o la tua stessa casa.
Così la morte di qualsiasi uomo mi sminuisce,
perché io sono parte dell’umanità.
E dunque non mandare mai a chiedere per chi suona la campana,
sta suonando per te.>>
So che questo mio cambio di prospettiva non cambierà le cose: non porterà la pace in Iraq, non consolerà Ali per la perdita dei suoi cari e non fermerà il prossimo attentato ovunque esso sarà. Ma so anche che una sola persona che cambia è un pezzetto di mondo che cambia. È una goccia in un oceano, è vero, ma una goccia può contagiare le altre gocce. Se ognuno fa tutto quello che è in suo potere fare, allora forse piano piano il mare cambierà, a piccoli passi. È l’unica possibilità che abbiamo, è l’unico modo che abbiamo.
Io in primis ho deciso di fare tutto ciò che potevo fare: prendere il mio computer e scrivere. Dopo questa piccola grande rivelazione esistenziale ho sentito dentro di me il bisogno di condividere questi pensieri, di raccontare questa storia. È il massimo che so fare, ma intanto ho iniziato a farlo e non credo che sia poco.
La mia speranza è che questa riflessione che ho voluto condividere possa arrivare alla sensibilità di altre persone che magari, proprio come me fino a qualche mese fa, non sono mai state toccate direttamente da fatti del genere e non hanno mai avuto occasione per osservare la realtà da questo punto di vista. Questa volta vorrei essere stata io a fornire questa occasione, e vorrei anche che ogni persona che legge queste parole trovasse sempre la motivazione per fare tutto quello che può, sempre. È in primis un monito per me stessa, mi ci metto dentro anche io ovviamente: questa volta ce l’ho fatta, ma non ho detto che sia facile.
