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Perché The Greatest Showman è un film per voi, anche se non amate i musical
Dark Light

Perché The Greatest Showman è un film per voi, anche se non amate i musical

Articolo di Rachele Agostini

C’è una cosa che dovete sapere: i musical sono la mia più grande passione.
È così da sempre, dal primo cartone Disney in cui un personaggio si è messo a cantare dal nulla ed io, anziché domandarmi per quale motivo lo facesse, sono rimasta imbambolata a fissare la televisione. Nel corso degli anni le persone a me vicine si sono abituate a vedermi replicare intere performance un giorno sì e l’altro pure, e sanno che per farmi felice basta mettermi davanti qualcosa in cui ci sono melodie che partono a sproposito, e almeno una coreografia corale.

Un’altra cosa che dovete sapere è che – anche a causa di questo mio smisurato amore per il genere – Hugh Jackman è per me un oggetto di culto più che un attore da ammirare (la leggera insofferenza che nutrivo verso l’Academy si è trasformata in violento disprezzo proprio quando, quattro anni fa, non gli fu assegnato l’Oscar per la sua performance in Les Misérables), mentre Zac Efron è come quel primo grande amore che ha significato così tanto per te e non se ne andrà mai davvero dal tuo cuore (ripasso periodicamente tutte le canzoni e le coreografie di tutti gli High School Musical per essere sicura di non dimenticarle mai).

E perché dovete sapere queste cose?
Per capire quanto poco obiettiva sarò nel parlare di The Greatest Showman.

Opera prima del regista australiano Michael Gracey e frutto di sforzi produttivi che durano da oltre sette anni, il film racconta la storia di Phineas Taylor Barnum, impresario circense che nella New York del XIX secolo rivoluzionò il mondo dell’intrattenimento con le sue intuizioni e le sue trovate pubblicitarie, diventando uno dei primi ad avere un approccio imprenditoriale verso il mondo dello spettacolo ed uno dei maggiori responsabili della dignità artistica di cui il circo oggi gode.
Si tratta di un musical, in cui spiccano come protagonisti Hugh Jackman nel ruolo a cui il titolo fa riferimento, e Zac Efron nei panni di Philip Carlyle – giovane e ricco drammaturgo che Barnum convincerà a diventare suo socio in affari (ecco, adesso capite le mie premesse).

Hugh Jackman ha nel teatro musicale le proprie radici, ed ha al suo attivo un Tony Award come Miglior Attore per la performance nel musical “The Boy from Oz”; Zac Efron invece è una cosa sola con l’autotune fin da “High School Musical”, ma è talmente bello e fluido nei movimenti che gli si perdona qualsiasi cosa.

È arrivato nelle sale italiane il giorno di Natale, poco dopo aver ricevuto tre nomination ai Golden Globes (Miglior Commedia o Musical, Miglior Attore – Commedia o Musical a Hugh Jackman, Miglior Canzone Originale), e riunisce al fianco di Jackman ed Efron un cast dal talento eccezionale, che dà corpo a personaggi realmente esistiti, personaggi di finzione ed altri che sono entrambe le cose [come lo stesso Carlyle, inventato dagli sceneggiatori ma ispirato a diverse persone con cui Barnum ebbe davvero a che fare].
Il risultato è un gruppo di performer incredibilmente eterogeneo, dal punto di vista etnico, ma ancora di più per la varietà di background da cui provengono: il “grande nome” di Hollywood Michelle Williams e la meno conosciuta Rebecca Ferguson interpretano rispettivamente Charity Hallett [moglie di Barnum] e Jenny Lind [soprano svedese al supporto della quale Barnum dedicò qualche anno, che nei brani musicali qui ha la voce della cantante Loren Allred]; accanto a loro brillano però anche Keala Settle nelle vesti della donna barbuta (un’autentica veterana di Broadway, come gran parte dell’ensemble dei circensi, di cui nel film lei è la portavoce) e la giovanissima Zendaya nei panni di Anne Wheeler (meravigliosa trapezista, nonché controparte romantica del personaggio di Zac Efron – con il quale l’attrice condivide l’esordio targato Disney Channel).

La ventunenne Zendaya (che con questo film è soltanto alla seconda esperienza cinematografica dopo “Spider-Man: Homecoming”) non ha utilizzato controfigure per l’esecuzione dei numeri acrobatici al trapezio.

Come se questo non fosse abbastanza, ad impreziosire il tutto ci sono un production design mozzafiato – cinematografia che rende giustizia alla spettacolarità dei numeri musicali, scenografia quasi totalmente artificiale che ricostruisce in modo impeccabile l’atmosfera del periodo, costumi che sono già di per sé delle opere d’arte – ed una colonna sonora completamente originale firmata da Benji Pasek e Justin Paul, che erano appena usciti dal college quando vennero coinvolti in questo progetto, ma nel frattempo, scrivendo le canzoni di La La Land e del musical Dear Evan Hansen, sono già stati definiti “due dei più grandi talenti musicali della nuova generazione”.

Alcuni (!!) dei premi che Benji Pasek e Justin Paul hanno ricevuto nella passata award season; attualmente sono impegnati nella stesura di nuovo materiale per il live-action del classico Disney “Aladdin”.

Il film è stato etichettato più volte come biopic e come film musicale, ma nessuna delle due definizioni è esatta: gli eventi raccontati sono solo ispirati alla realtà storica dei fatti, assumendo un tono chiaramente edulcorato, romanzato e quasi fiabesco, non raro per i musical; ed è appunto di musical che si deve parlare, perché non vi sono mai momenti in cui i protagonisti sono consapevoli di star eseguendo un numero, come invece è frequente nei film musicali (La La Land ne è un esempio perfetto).

Insomma, tutto questo sproloquio per dire che The Greatest Showman, pur essendo indiscutibilmente impeccabile dal punto di vista della realizzazione ed un prodotto dalla genesi interessante, non entusiasmerà tutto il pubblico quanto ha entusiasmato me o chi come me di musical ci vivrebbe, perché rientra in un genere che “deve piacere”, come si usa dire.

Però.
C’è un però.
In questo racconto c’è qualcosa che va al di là della realtà storica brutalmente raggirata in favore dell’effetto volemose bene, qualcosa che raggiunge anche chi già alla seconda canzone vorrebbe strozzarsi con i pop corn perché proprio non ce la fa.
Questo qualcosa è, molto semplicemente, il messaggio.

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Anzi, non è nemmeno giusto parlare al singolare: ci sono tanti percorsi personali in cui immedesimarsi e tante lezioni da ascoltare (già viste e sentite, ma ancora necessarie).

Possiamo imparare da Barnum ad insistere nel vedere il mondo per come vorremmo che fosse anziché per com’è, ma anche avere da lui un esempio di cosa succede se quella visione prende il sopravvento e se il sogno del successo smette di essere una motivazione e diventa un’ossessione.
Charity e Jenny ci parlano in modi diversi della paura di non essere abbastanza per chi amiamo (com’è facilmente intuibile, si tratta di Barnum per entrambe), ma poi ci mostrano la forza nell’allontanare sé stessi da una realtà dannosa – e senza voler rivelare troppo, anche la forza nel tornare sui propri passi.
Philip Carlyle ci insegna a buttare dalla finestra i nostri pregiudizi e liberarci dalle convenzioni della società in cui siamo cresciuti, e ci mostra che spesso la nostra casa è lì, appena fuori dalla nostra comfort zone e appena sotto il piedistallo su cui qualcuno ci ha messi o su cui ci siamo messi da soli.

E poi ci sono i circensi, il cui messaggio risuona con particolare forza. È facile risultare retorici quando si parla dell’importanza di rivendicare come una forza quel che ci rende diversi, ma qui lo si vede succedere, concretamente. La gente comune, che emargina queste persone per quelle che considera disabilità o per un aspetto che sfugge a canoni imposti da chissà chi, è la stessa che poi si svuota le tasche per vederle esibirsi. Nel corso del film passano dall’essere nascosti e pieni di vergogna perché sono diversi, al brillare sotto i riflettori e riempirsi le orecchie di applausi perché sono diversi.

È l’attrice e cantante hawaiana Keala Settle a cantare “This Is Me”, canzone che è stata da subito identificata come il manifesto del film e già viene considerata la favorita per il Golden Globe alla Miglior Canzone Originale.

Già mentre scorrono i titoli di coda, capiamo che il più grande spettacolo – quello di cui la canzone che apre e chiude il film parla – non sta nei salti mortali, nei lustrini, negli elefanti e nelle trombe che squillano.
Il più grande spettacolo è avere il coraggio di rischiare tutto, per trovare un posto in cui la cosa migliore che puoi essere, è te stesso.

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