Articolo di Angelo Serio
“173 sì. Il Senato approva.”
Con queste parole è passata al Senato la fiducia al testo sulle Unioni Civili, dopo trent’anni di attesa. Un testo maneggiato, rimaneggiato, monco.
Via l’articolo 5 sulla Stepchild Adoption.
Via il riferimento all’obbligo di fedeltà.
È il prezzo da pagare ad Alfano.
Ma vengono aggiunti i riferimenti agli articoli 2 e 3 della Costituzione.
E si divorzia subito, senza costi, con una semplice scrittura civile.
Per alcuni, Alfano, senza volerlo e a sua insaputa, ha modificato la legge evirandola di alcuni attributi patriarcali, di retaggi antichi e penetranti.
Al di là delle intenzioni negative del proponente, dicono, nella legge si intravedono addirittura elementi di iper-progressismo.
Ciò che per il ministro è sacro, per altri è evidentemente una zavorra.
Chi, infatti, vede nel divorzio una punizione per aver infranto un voto sacro, lo ha reso un percorso tortuoso e proibitivo.
E così non sarà per le unioni civili, che eviteranno bizantinismi burocratici in caso di separazione.
Per alcuni viene sancita una differenza, per altri è una liberazione.
Lo stesso dicasi per l’eliminazione dell’obbligo di fedeltà.
Furono proprio i primi vescovi cristiani ad istituirlo, come ci ha ricordato di recente il filosofo Umberto Galimberti, come rimedio alla concupiscenza. Il senso era: se non puoi essere casto, sposati e falla finita.
In Italia, poi, tale requisito sopravvisse nel codice civile come frutto di un retaggio maschilista, alla cui base vi era addirittura il delitto d’onore. Tale obbligo è infatti assente nella maggior parte delle normative matrimoniali europee.
Ma se per alcuni è la cancellazione di un orpello, per altri è la maligna sottolineatura della promiscuità degli omosessuali.
E vorrà dire che saremo fedeli per amore e per morale, non per legge.
Il riferimento alla lotta al patriarcato, fondatore dell’istituto matrimoniale, per alcuni si deve estendere fino a limitarsi a un istituto giuridico separato (le unioni civili), quale risultato di una vera liberazione dalla schiavitù patriarcale.
Per altri la vera uguaglianza si raggiungerà solo con il matrimonio egualitario: nessuna differenza, stessi diritti. In questa corrispondenza, per costoro, vive la vera eliminazione delle tassonomie negative.
Questo dibattito corrisponde al dialogo che alcun* intellettuali, esponenti del mondo femminista o lgbt, stanno affrontando.
Da una parte Judith Butler visualizza nella rappresentazione dello stato coniugale (matrimoniale) un dispositivo di normalizzazione e di addomesticamento sessuale che porta gli omosessuali a scimmiottare la norma eterosessuale. La filosofa americana afferma che “essere legittimati dallo Stato significa entrare a far parte dei termini della legittimazione offerta e scoprire che la percezione di sé in quanto persona, pubblica e riconoscibile, dipende essenzialmente dal lessico di tale legittimazione”.
Schierata sul versante opposto c’è una parte consistente della comunità lgbtqia per la quale questo “dono ambivalente della legittimazione”, servirebbe a tutelare un diritto, non certo a sancire un obbligo. Così, strappando il matrimonio alla sua definizione eterosessuale, si dovrebbe logicamente contribuire ad allontanarlo dal vituperato modello patriarcale.
“È su queste basi che vogliamo fondare l’uguaglianza, sui retaggi?”, si chiedono alcuni.
Gli altri rispondono citando Fassin, per cui “l’invenzione di stili di vita non si confonde necessariamente con le delizie della controcultura”.
Il dibattito è, per fortuna, aperto e vivo.
La fedeltà è la base di un rapporto tradizionale, questo lo sappiamo. Ma come scrive il radicale Marco Cappato, se “per adottare sarebbe importante una legge, per la fedeltà non sono importanti né la legge né lo Stato”.
E infatti più che sulle sfumature ci si dovrebbe concentrare sul vero vulnus della legge: l’assenza di una norma sulle adozioni. Non solo la stepchild adoption. Ma delle adozioni come le conosciamo noi, di quelle classiche.
Questo dispiace molto ed è l’unico punto su cui la comunità è davvero unita.
E su questo punto bisognerà lavorare, leggere, ricercare per sfatare un tabù che, dobbiamo dirlo, in pochi osano svelare. Bisognerà aprire riflessioni e dibattiti nelle sedi dei partiti, nelle redazioni dei giornali, nelle aule universitarie. Bisognerà farlo con laicità, senza partigianerie, affidandoci all’aiuto di un’amica preziosa: la scienza.
Ma ora dobbiamo sorridere perché, come ha scritto Cristiana Alicata, l’assedio è finito. Siamo dentro la città.
Mi sto scervellando da giorni a riguardo della citazione di Fassin. Cosa vorrebbe dire?
Fassin ha voluto dire che gli omosessuali possono riconvertire il matrimonio in qualcosa di lontano dai domini del patriarcato e che tra l’altro non è certo che a particolari stili di vita (le unioni civili) corrisponda una resistenza a quel dominio (la controcultura).