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Forse non sono così femminista

Forse non sono così femminista

A volte l’ingarbugliarsi delle problematiche sociali si fa così raffinato da lasciare indietro le controversie con cui ogni persona deve fronteggiarsi negli ambienti tra i meno sofisticati – per intenderci, le vite di ogni giorno. A volte accade che qualsivoglia principio studiabile e decostruibile diventi così inattuabile in un mondo non tagliato per le pratiche femministe, da chiedersi: ma quanto lontano è questo femminismo?
Uno stato di angoscia quasi primordiale prende così il sopravvento, al pensiero di quante lenti in quel momento ci stanno studiando pur di sottolineare ogni errore o scarsa attenzione che poniamo, pur di strapparci dalle mani quella targhetta che abbiamo affisso con tanto impegno.

Oppure capita di giudicarsi in proprio, che viene quasi meglio del giudizio altrui, arrovellandosi nei pensieri ove ci imputiamo incoerenza, e annegando in quel senso di colpa che ad occhio nudo si estende per superfici infinite, tanto è potente da sovrastare ogni nostra minima conquista.
E accade che nel nostro privato pensieri impuri vengono pensati, di quelli che, se ci azzardassimo a dar loro suono e forma, probabilmente una radiata dall’albo del femminismo non basterebbe. Ed ecco scoppiare poi quella lotta tra noi e noi, un conflitto fatto di accuse, di bisogni di leggerezza, di stratagemmi trovati per campare in ambienti lontani da quelli che vorremmo abitare, di compromessi fatti per guadagnare il pane, e ancora di biasimo e di rabbia.

Il tutto perché a malincuore si sa, il femminismo è una pratica scelta e non, come vorremmo, inconscia, culturale; non lo si impara tramite la socializzazione. Accade piuttosto il contrario; con la socializzazione impariamo fallacemente a non averne bisogno, e solo successivamente arriva quel mistico, entusiasmante e appassionante mondo della risocializzazione, tutto costruito con le nostre stesse mani, certo, ma così travolgente da apparire una discesa.
E poi.

E poi succede ciò che non ci è stato insegnato; succede che spesso i manuali d’istruzione integrali non esistono, e le regole devono essere assemblate secondo un ordine ahimè ­– o per fortuna – non calato dall’alto, e che le quotidianità a volte vengono meno a quei meravigliosi soliloqui che ci ritroviamo ad ascoltare mentre scribacchiamo sui nostri appunti riportanti il titolo “come essere una femminista migliore”.
Davanti a noi, nelle nostre piccole vite quotidiane, accade che chi dovremmo supportare di più a volte è ciò che c’è di più lontano dal femminismo che stiamo imparando a coltivare. Ecco che ha inizio così la ricerca spasmodica in tutti gli studi fin lì compiuti, la risposta ad un quesito che teoricamente già trova risoluzione, ma che nella pratica diviene difficile adattare: cosa ne è del mio femminismo davanti alle donne misogine? Ché quel femminismo è come se avesse spiccato il volo, come se avesse deciso di levarsi dal nostro corpo, e noi lì a rincorrerlo, a pregarlo di tornare per conferirci la saggezza centenaria di ogni sorellanza resistita davanti alle turbolenze del percorso.

Dopo un primo momento di rabbia, come se l’esistenza delle donne misogine mettesse a repentaglio ogni nostra conquista, il primo approccio tra quelli trovati un po’ a tentoni, un po’ con la paura che si rivelino fallimentari, è quello di ricordarsi da dove proveniamo. La retorica della ‘nascita sull’altare femminista’ è facile da abbandonare come metro di giudizio quando facciamo pace con i nostri passati, più o meno tutti collegati da una matassa indefinita di retoriche discriminatorie. È facile da abbandonare quando decidiamo finalmente di far pace con le nostre origini, ricordandoci che in un mondo ove ogni persona viene cresciuta per replicare i modelli di potere inalterati dello status quo, non aver avuto gli strumenti per un risveglio non è una colpa.
La speranza che presto il loro pensiero si possa acuire dall’intorpidimento si fa spazio nel nostro agire, e il nostro corpo inizia ora a produrre molecole di pazienza, che inizialmente sembrano inesauribili. Ogni stimolo prodotto dalla donna misogina diviene così un’occasione per rilasciare piccole perle femministe, piccoli germogli decostruiti inscatolati e pronti all’uso, che speri vengano raccolti, macinati, pensati. Ciò che è valso per te a segnare il momento delle prime domande, quelle che hanno dato il via alla messa in discussione, è ciò che regali, nella convinzione che valga anche per loro. Non importa se si materializza il rischio – più che rischio, sicurezza – di accendere diverbi, e non importa neanche se nel diverbio rilasci ogni necessità di uscirne vincente, piegandoti alla comprensione, all’ascolto, al ‘porta pazienza che non è colpa sua’.
Eppure niente sembra funzionare.

Quindi, per chi lo stai facendo? Per lei, perché tu l’hai vissuto in prima persona quel momento emozionante del risveglio, quella catarsi liberatoria della traversata femminista. Perché si sa, il femminismo è scomodo, stancante, è un continuo mettere in discussione, prendere le distanze, decostruire e costruire; ed è faticoso, e a volte allontana a malincuore da ambienti che pensavi fossero tagliati per te, a volte è così diretto da far male, da richiedere una pausa, ma è ciò che permette di sperimentare una libertà mai avuta prima, nel pensiero prima di tutto – nel corpo, nell’azione, purtroppo tocca aspettare, perché si sa, il femminismo sedimentato da noi è molto lontano.

Per la causa, perché l’arruolamento di forze, il replicarsi delle liberazioni, i corpi che si uniscono per una sola finalistica modellazione culturale volta allo smantellamento del potere, sono necessari? Perché si sa, c’è una causa primaria oltre le singole intenzioni e traiettorie di vita; una speranza rivolta ad un futuro in cui seppur non saremo lì per assistervi, vogliamo immaginarci una necessaria rivoluzione per una successiva e più necessaria evoluzione transfemminista.

Per te? Perché si sa, che a volte è difficile ricordarsi che non dovremmo essere noi a percepire il disagio, e allora ce ne facciamo carico perché con la scomodità che portiamo, togliere disagio a chi appesantiamo può essere il ritorno minimo da regalare, con tanto di biglietto: “scusa, in cambio della pesantezza, ti assolverò dal disagio che provoca il tuo essere una testa di cazzo”. Perché fare i conti con tutto quello che non facciamo, soprattutto se vittime fin dalla culla di allevamenti che ci ricordavano costantemente che avremmo potuto fare di più, non è immediato come dovrebbe essere.

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Ecco che ogni pedina del sistema che ancora non si è liberata ci appare come un’occasione di redenzione alla causa, a volte personificabile in un ente senza volto pronto a scacciarci dal paradiso transfemminista con occhi in ogni dove – ogni riferimento ad entità secolarmente conosciute fin qui non è puramente casuale. Come per smacchiarci dal peccato di non aver fatto abbastanza nel nostro passato da ‘pedine replica poteri’, ci prostriamo ad ogni persona che ci appare come nuova potenziale adepta, nella speranza di emanare con noi un’energia capace di modificare chiunque – ovviamente, sia mai non succeda così, questa tornerà in futuro a ringraziarci del nostro lavoro samaritano.

E perché si sa, di donne misogine ne esistono in egual misura agli uomini misogini, doppie vittime di una cultura patriarcale; perché replicano, a loro insaputa, non solo del male per chi le circonda e per chi verrà, ma anche per loro stesse. E perché agli uomini che il male lo provocano a noi, alle donne misogine, ad ogni singola categoria di persone che esuli dal classico uomo al potere, non rivolgiamo le stesse attenzioni e le stesse speranze di una loro faticosa ma spontanea resa alla causa.

Con questa sconsolazione nel cuore, e con la consapevolezza che ogni tentativo fin lì attuato non è stato altro che una falla nel sistema, possiamo forse permetterci di riposarci, di rilasciare la tensione di tutti quei conflitti persi, di tutti quegli stimoli mai colti, di quella fatica messa in atto per un ritorno forse più egoista di quanto vorremmo ammettere.
Impariamo così a voler bene, a sperare ancora, certo, ma a smettere di sentirci chiave di un cambiamento che potrà avvenire solo quando e se non sarà più per noi, per il nostro disagio, per la nostra salvezza; chissà quante persone hanno guardato a noi con gli stessi occhi poi. Per nessuna di loro abbiamo intrapreso il nostro risveglio, o sbaglio?
Impariamo così che esiste una rabbia non sana, mal incanalata, una ‘rabbia fungo’ alla The Last of Us in grado di contaminare ciò che con fatica è stato fin lì acquisto, rovesciarne la bellezza in un qualcosa di rotto, inquinato da motivazioni corrotte. Non che da qui in poi sia facile incanalare la rabbia, attenzione, o riuscire ad essere sempre sull’attenti quando si tratta di distinguerla da quella sana: questo è ahimè un lavoro di quelli che dureranno una vita. Ciò che sarà facile, forse – e detto probabilmente con più speranza che certezza –, sarà riconoscere quei meccanismi che ci vogliono rendere al servizio di un sistema che continua imperterrito a farci puntare il dito contro le persone sbagliate.

Va detto, inoltre, che forse c’è da imparare che siamo pur sempre esseri umani dotati di una psiche che, per quanto non vorremmo, cade a volte in errore; la mal sopportazione – forse per parlar d’odio bisogna che la conversazione l’abbiate tra voi e voi –, il bisogno di discostarsi da alcune personalità, la rabbia, lo sdegno, sono pur sempre sensazioni biologiche che accomunano il paradiso terrestre a quello transfemminista. E perché no, ci rendono semplicemente inclini alla facoltà di scegliere quali rapporti umani coltivare, come e secondo quali motivazioni; c’è anche da dire che oltre che perdonarci gli errori, a volte queste emozioni sono solo frutto di chi siamo, e va bene così.
Impariamo così a voler bene in primis a noi, e a dirci che, con tutta la pazienza agibile, quel nostro “forse non sono così femminista” è solo una risposta per un manuale che leggerà chi verrà dopo di noi.

Credits
Foto di Gerd Altmann da Pixabay
Illustrazione di Caterina Savi
Foto di OpenClipart-Vectors da Pixabay