Qualche giorno fa stavo curiosando nella sezione “accadde oggi” di Facebook – lo faccio spesso perché sono un’inguaribile nostalgica e mi piace rifugiarmi nei ricordi. Tra i vari post, uno in particolare di circa undici anni fa ha attirato la mia attenzione, non tanto per quello che avevo scritto (una tipica lamentela sui compiti di una liceale fin troppo diligente) ma piuttosto per i commenti. C’era uno scambio di battute tra me e mia sorella dove lei utilizzava una serie di parolacce; io a un certo punto le ho risposto in tono scherzoso: “Non essere volgare, non sei un uomo”.
L’implicazione alla base di queste parole è facilmente intuibile: a un uomo è concesso di essere volgare, a te che sei una ragazza no. All’apparenza è una banale frase scritta da una diciassettenne imbevuta di stereotipi di genere, ma in realtà rimanda a un universo di significati. Questa frase si è trasformata in un’eco che mi ha abitato la mente per qualche giorno, fino a congiungersi con una affermazione che ho letto diverse volte sui social: “Il volgare è politico”.
Mi sono spesso interrogata sul significato di questa affermazione, che allo stesso tempo mi pareva affascinante e inafferrabile; a fare chiarezza mi ha aiutato una me adolescente che di lotte femministe sapeva poco e niente.
Leggere quel commento mi ha ricordato che il volgare per me e le mie amiche a diciassette anni era qualcosa di proibito, da noi le persone non si aspettavano parolacce, espressioni gergali o discorsi sul sesso, queste erano prerogative dei ragazzi. Da noi non ci si aspettava volgarità anche perché eravamo le tipiche ragazze che frequentavano il liceo, studiavano letteratura e filosofia, dimostravano di essere colte e intelligenti. L’essere volgari stonava con questa immagine di noi, ci sminuiva agli occhi delle altre persone.
Eppure, nel nostro linguaggio quotidiano utilizzavamo spesso tantissime parolacce. Quando ə adultə non ci vedevano né ci ascoltavano, io e le mie amiche eravamo sboccate, comunicavamo tra di noi attingendo al vasto vocabolario di “maleparole” del dialetto napoletano. Ricordo che quella volgarità mi faceva sentire potente, in grado, in un certo senso, di “fottere il sistema”; essere volgare, sia nelle parole che nell’aspetto, mi faceva sentire capace di qualsiasi cosa.
Oggi, alla soglia dei trent’anni, mi rendo conto che alle volte essere volgare significa semplicemente esprimersi con sgradevoli e inutili turpiloqui, ma in molti casi la volgarità è sovversiva, si usa per esprimere rabbia nei confronti di una situazione, per rompere gli schemi o ancora per rendere un concetto più incisivo. Ma soprattutto, oggi comprendo che il volgare è politico nella misura in cui la volgarità diventa uno strumento per sovvertire un sistema che la concede solo all’uomo.
Nel momento in cui la volgarità è associata a una donna, in qualunque modo e senso, allora questa basta a svalorizzare completamente ciò che quella donna dice, fa e pensa. Ciò che quella donna è. In questo senso, la volgarità non è solo da intendersi come l’uso di parole volgari, ma anche come l’atto di denudarsi, di scoprire parti del nostro corpo, in particolare quelle maggiormente sessualizzate, cioè il seno e il sedere.
Non di rado attiviste femministe vedono le loro attività di divulgazione e attivismo delegittimate per la pubblicazione di foto in cui mostrano il proprio corpo. Per alcune persone, spesso uomini bianchi etero cis, una foto di un culo sui social basta per screditare le lotte e il lavoro di una femminista, perché quel sedere diventa la prova inconfutabile che non importa quanto si impegni nel suo attivismo o quanto le sue tesi in un dibattito siano ben argomentate, quella donna è e resta una “sgualdrina” e per questo le sue idee non contano niente. Una foto delle tette o del culo è sufficiente per svalorizzare la sua intera persona. Il valore di una donna è ancora oggi inversamente proporzionale alla quantità di pelle che scopre. In altre parole, più si denuda, meno vale. La cultura, l’intelligenza, l’arguzia e qualsiasi attributo positivo impallidiscono fino a sparire di fronte all’esposizione volontaria del suo corpo nudo.
La svalutazione della donna legata al suo denudarsi si estende oltre la bolla femminista, permeando ogni ambito della nostra vita quotidiana. Se una presentatrice indossa una maglia particolarmente scollata sarà lì solo per il suo seno; se a una donna piace indossare abiti succinti non è seria, se posta foto in costume sui suoi social è una poco di buono. Se una vittima di molestie sessuali aveva una gonna troppo corta o un pantalone troppo attillato, allora se l’è cercata.
Qualche mese fa, alcune femministe hanno lanciato sui social l’hashtag #culopolitico, proprio per rivendicare il fatto che la lotta per l’emancipazione e l’autodeterminazione passa anche per i nostri corpi. Il nostro corpo non è un’entità disgiunta dalla nostra persona, al contrario è parte integrante della nostra essenza e mostrarlo diventa un modo per riappropriarci del controllo su di esso che per secoli ci è stato tolto, e che oggi ancora provano a sottrarci. Denudarci è uno dei tanti modi per opporci all’ipersessualizzazione senza consenso e alla svalorizzazione associata all’atto di svestirci.
Perciò sì, continueremo a lottare, a incazzarci e a dire parolacce. Rigorosamente col culo da fuori, se ci andrà di farlo.