Quando ci sentiamo, Raffaella Perna è a Lisbona per l’allestimento della mostra di Paola Di Bello, autrice di Lucciole, opere che ha realizzato sulla falsa riga di quelle che sono state le ricerche degli anni Venti e Trenta sulla sperimentazione senza la macchina fotografica, sul contatto diretto tra oggetto e superficie sensibile, e per illuminarle, invece di utilizzare una fonte di luce esterna ha utilizzato la luce delle lucciole.
Paola Di Bello, insieme ad altre cinquanta artiste tra fotografe e fotoreporter, fa parte della mostra L’Altro Sguardo, ospitata da La Triennale di Milano fino all’8 gennaio 2017, che permette di approfondire con gli occhi delle artiste, quindi con uno sguardo totalmente femminile, com’è cambiata dagli anni Sessanta ad oggi la fotografia ed il modo di utilizzarla per esplorare la sfera intima e sociale.
Le fotografie e libri fotografici esposti provengono dalla Collezione Donata Pizzi e sono tutte opere in cui traspare l’impegno sociale delle artiste che sempre parlano di politica, ma non per forza in modo esplicito.
Raffaella, storica d’arte e veterana del rapporto tra arte e femminismo in Italia – al quale ha dedicato diversi lavori – è la curatrice di questa rassegna che ha con noi approfondito.
Come ha preso vita l’esposizione?
Le opere della mostra vengono tutte dalla stessa collezione, la collezionista si chiama Donata Pizzi ed è a sua volta una fotografa.
Ci siamo conosciute proprio perché mi sono occupata di arte e femminismo negli anni Settanta, sia con delle pubblicazioni, sia con alcune mostre.
Durante la mostra di Marcella Campagnano, fatta al Museo Laboratorio de La Sapienza, lei era venuta ed in quella occasione abbiamo iniziato a collaborare; quindi la mostra è nata proprio rispetto ad un lavoro degli anni Settanta.
La fotografia come strumento: cos’ha permesso e concesso alle donne in un periodo di grande fermento come quello di quarant’anni fa?
All’epoca, intorno agli anni Sessanta/Settanta, prima di tutto la libertà di azione, proprio come campo professionale, il fotoreportage ed il giornalismo si sono aperti in Italia anche alle donne, cosa che negli altri paesi era già avvenuto, da noi invece hanno prese piede proprio in quel momento, insieme quindi alla possibilità di viaggiare e scoprire il mondo.
All’inizio la fotografia era vista come un lavoro solo maschile, le fotografe fino agli anni Trenta erano solo ritrattiste: ritraevano nature morte, fotografia d’arte, la loro però rimaneva un’opera confinata nell’ambito chiuso dello studio, non c’era un rapporto col mondo esterno.
In mostra c’è un bellissimo servizio di reportage realizzato da Augusta Conchiglia sulla guerra di liberazione in Angola, ed è uno dei primissimi reportage fatti in zone di conflitto ed in zone così lontane.
Da un lato c’è il fatto che, per la prima volta, le donne in quel momento sono diventate fotografe riconosciute, fotoreporter riconosciute, dall’altro c’è la fotografia, pensiamo alla sezione in mostra che si chiama Cosa ne pensi tu del femminismo, più legata alla capacità del mezzo fotografico di far parlare l’identità ed il corpo, c’è questa idea di usare lo strumento fotografico che ha la capacità di convocare anche il passato e la memoria legato a discorso più identitario.
Attraverso il mezzo fotografico, queste artiste riescono a parlare da una parte di problemi legati al corpo, all’identità alla sessualità, dall’altra a svelare, mettere in luce tutti quelli che sono i clichés mediatici che passano attraverso il corpo delle donne.
Emblematica, in mostra, è una sequenza di prove fotografiche realizzate all’inizio degli
anni Settanta per la copertina del numero zero di Effe Rivista Femminista da Agnese De Donato.
Lei ha fotografato un uomo seminudo con un pellicciotto ed i pettorali coperti e sotto c’è questa didascalia che accompagna la foto: chi è costui? assolutamente nessuno, è l’equivalente delle tante donne seminude che si vedono sui rotocalchi. C’era quest’idea, attraverso la fotografia, di denunciare delle situazioni, degli stereotipi, come l’utilizzo del corpo della donna quale oggetto, che è una delle tematiche molto affrontate in quegli anni.
La fotografia risulta essere uno degli strumenti più efficaci per parlare del corpo.
Sia di corpo sociale e come il corpo viene visto dalla società in quel momento storico, sia il corpo come una sorta di esplorazione della fisicità femminile.
E poi permetteva anche dei lavori in gruppo, ci sono tutta una serie di esperienze collettive in cui la fotografia è uno strumento, per esempio in mostra ci sono le maquettes di un libro che si intitola Ci vediamo mercoledì. Gli altri giorni ci immaginiamo. Era un gruppo di autocoscienza che invece di parlare e sfruttare la parola come strumento di analisi ed esplorazione del proprio vissuto, utilizzava l’immagine.
Quindi attraverso uno scambio, queste artiste si incontravano appunto di mercoledì sera e discutevano insieme i lavori, e spesso li facevano in collaborazione. Emerge l’aspetto della fotografia come strumento di gruppo e di comunicazione.
Oggi il tema del corpo, il suo studio, la sua ostentazione e rivendicazione ha ancora un senso come soggetto? O è così, quasi abusato, che ha perso il significato che aveva tempo fa?
Credo che sia ancora un campo di indagine e di interesse per le artiste più giovani molto molto importante.
Sempre rimanendo sulle opere della mostra, diciamo che c’è più che un lavoro sul corpo esibito o usato come forma di denuncia e protesta, un discorso sul tornare a una dimensione più personale anche utilizzando fotografie del passato.
Un modo può essere quello dell’autoritratto, come quelli di Moira Ricci, che sono particolari perché lei usa il proprio corpo all’interno di fotografie dell’album di famiglia della madre che è venuta a mancare nel 2004. C’è questa sorta di rielaborazione del lutto attraverso il proprio corpo rivissuta fotograficamente in quanto sono montaggi fatti con Photoshop.
C’è un’esigenza di parlare della propria esperienza, di vedere la storia collettiva del paese attraverso una dimensione più intima, affettiva, legata alla relazione con la madre.
Ci sono varie opere che parlano della relazione con la madre in mostra, e i corpi rappresentati sono spesso autoritratti, il taglio è meno politico ed esplicito.
Qual è la più marcata differenza tra l’utilizzo della fotografia ieri ed oggi?
Da una parte c’è una denuncia più esplicita, quindi un impegno più esplicito; dall’altra, negli anni Novanta e Duemila, emerge una sperimentazione linguistica molto più evidente.
Da una parte, come dire, si perde in grinta politica, dall’altra c’è una consapevolezza del mezzo e del linguaggio maggiore.
Vista la provenienza delle opere, è stato fisiologico non ampliare l’approfondimento oltre i nostri confini?
Donata Pizzi ha deciso di darsi come campo di ricerca quello italiano, la sua è una collezione che sta continuando a crescere quindi probabilmente nei prossimi anni si orienterà anche su altre realtà, non soltanto quella italiana.
Diciamo che quella italiana rispetto ad altre realtà è stata poco indagata mentre in altre aree come in Francia o in Inghilterra gli studi sono molto più avanti.
Essendo lei collezionista italiana, essendoci nel nostro paese un ritardo di approfondimento, l’area di ricerca italiana è stata congeniale.
Probabilmente in futuro si allargherà e si estenderà su uno sguardo più internazionale, però in futuro.
Per ora ci si è voluti concentrare su quella italiana, sulla quale c’è ancora tanto da scoprire.
Per esempio, il reportage di Augusta Conchiglia è presentato in Triennale per la prima volta in assoluto, esiste solo un libro pubblicato nel 1969, che poi però non è stato più esposto: le donne sono state da questo punto di vista penalizzate, per questo la scelta di concentrarsi sull’Italia risulta anche come risarcimento di quella che è stata una mancanza.
Quale tra le foto esposte incarna al meglio il titolo della mostra, L’Altro Sguardo?
L’autoritratto di Anna Di Prospero, che poi è l’immagine scelta per il catalogo.
L’abbiamo selezionata per una serie di ragioni, sicuramente, visto che è un’artista molto
giovane – ha 28 anni – abbiamo considerato come un aspetto positivo il fatto che fosse la più giovane in mostra.
Nella sua foto c’è questa idea della madre che copre gli occhi alla figlia per invitarla ad una riflessione più personale, all’interno, piuttosto che esteriore.
C’è questa idea che si lega a concetti più metafisici, già De Chirico parlava di una visione interiore, il tema dell’occhio chiuso, quella cecità sul mondo che ti consente però di guardare meglio in te stesso.