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C’è ancora domani per il queer e il femminile?

C’è ancora domani per il queer e il femminile?

L’anno scorso Cortellesi con il suo C’è ancora domani ci ha regalato una storia di donne per le donne. Purtroppo, in generale le registe faticano ad farsi strada nel cinema italiano. Se poi andiamo a cercare donne queer la situazione diventa anche più desolata. Questo titolo in relazione al queer e al femminile non può non rimandare al lavoro di José Esteban Muñoz secondo cui il queer rappresenta un ideale impalpabile, un’utopia che possiamo osservare solo da lontano. Le narrazioni che rappresentano le donne queer seguono a mio parere questo schema: sono spesso invisibili e appaiono solo per brevi momenti nella storia cinematografica, spesso con narrazioni stereotipate. Sembra quasi che non abbiano mai un presente o un passato ma solo un futuro a cui aspirare costantemente.

Le rappresentazioni di donne queer nel panorama cinematografico italiano cominciano negli anni Ottanta dove troviamo soprattutto narrative stereotipate di donne trans e lesbiche che continuano fino al 2000. Nonostante le donne queer e soprattutto la loro prospettiva sia invisibile nel panorama cinematografico italiano non significa che non ci siano stati tentativi di raccontarsi, magari usando mezzi un po’ più economici e accessibili, come la fotografia. Vi vorrei raccontare dell’esempio delle Papesse, un collettivo lesbico che riesce a ritagliarsi uno spazio artistico e di espressione personale nella Sicilia degli anni Ottanta.

Credo sia importante inoltre non semplificare quest’assenza di narrazione e ridurla alla mancanza di talenti, in questo modo la diamo vinta al patriarcato. È invece fondamentale esplorare le assenze ed esaminare le poche narrazioni stereotipate, queste tracce storiche sono infatti fondamentali per imparare dal passato. Per questo vorrei soffermarmi su alcuni esempi problematici che ci aiutano però a capire il contesto storico italiano e la contronarrativa che cerca di affermarsi. Ad esempio perché Lina Wertmüller in Sotto sotto: strapazzato da anomala passione (1984) decide di raccontarci di due donne che si innamorano, in un contesto violento in cui l’unico legame accettabile è quello con gli uomini? Perché Immacolata e Concetta (1980) di Piscicelli ci racconta di un amore fra donne violento e ossessivo? La risposta è a queste domande è semplice e complicato allo stesso tempo. Da una parte è semplicemente il risultato di un sistema patriarcale che esclude le donne e dall’altra questo sistema si insinua nel modo di pensare delle donne stesse che ne riproducono le strutture.

Le cose cambiano leggermente, ma non così tanto, quando le donne cominiciano ad avere voce nel linguaggio cinematografico. Ci sono certamente le produzioni indipendenti raccolte nel festival Immaginaria, ma credo sia interessante guardare al mainstream per capire come queste narrazioni si stabiliscono fuori dalla comunità che le produce. Siamo nei primi anni 2000 quando le donne queer cominciano a raccontarsi e ad essere raccontate. In questo contesto putroppo gli stereotipi e le narrazioni violente continuano a ripetersi con esempi come Benzina (2003) tratto dall’omonimo romanzo di Elena Stancanelli. Questo film riproduce infatti il cosiddetto “sapphic slasher”, un tropo comune sia nella letteratura che nel cinema e studiato da Lisa Duggan saggio Sapphic Slasher (2000). Secondo la studiosa questo tropo si riprone in varie culture occidentali e crea queste immagini violente legate alle donne lesbiche, vorrei aggiungere anche bisessuali, pansessuali, ecc…, viste come responsabili di azioni ignobili.

Vorrei raccontarvi però di come le donne che si uniscono e si organizzano riescono ad ottenere successo nell’attivismo e a rovesciare le narrazioni stereotipate. Questo racconto vuole essere anche un momento di riflessione su come il Sud Italia viene spesso etichettato come retrogado su certi temi, quando invece è stato spesso il centro di organizzazioni importanti per la comunità LGBTQIA+. Le Papesse sono state un collettivo lesbico attivo in Sicilia dal 1984 al 1987. Nonostante se ne parli abbastanza poco esistono documenti d’archivio sul loro lavoro che include documentari e mostre fotografiche. Vorrei anche aggiungere che il dialogo con questa storia non è sempre dei più semplice, il modo di sentire contemporaneo dei millennial e genZ su determinate questioni è spesso antitetico a quello dell’attivismo degli anni ’70 e ’80 ma ciò non significa che non possa esserci un dialogo e che non si possa imparare dal passato.

Foto di Sara Ruscica, soggetto Sara Crescimone Messina in L’ambiguo non materno, 1984

 Sara Crescimone Messina per esempio in questa foto parte della mostra “L’ambiguo non materno” ci racconta del modo in cui il genere veniva vissuto in quegli anni e di come l’etichetta del materno pesasse su queste attiviste. La mostra nasce in risposta al documentario di Alessandra Bocchetti “L’ambiguo materno”, in cui si argomenta che la maternità è un passo necessario per la comprensione della differenza sessuale. È certamente interessante che nel ribellarsi al ruolo materno questa foto metta anche in discussione il modo in cui il genere viene performato. Nonostante la mostra si fondi sul rifiuto del materno biologico io credo che queste donne abbiano in realtà adottato forme di materno simbolico nell’aiutarsi e sostenersi l’un l’altra quando la società tendeva ad escluderle. In questa foto vediamo come veniva esplorata la possibilità di riappropriarsi dell’ideale di maschile e femminile creando una nuova performance di genere che rimane comunque separata. Questa visione è certamente in contrasto con le teorie queer contemporanee per cui il genere è fluido e in continua trasformazione. Nonostante le differenze di prospettive credo sia importante riconnetterci con questa storia che rappresenta un importante passo per ricostruire una genealogia queer. Il pensiero della differenza sessuale è certamente antitetico alle teorie queer e si basa molto sul genere biologico ma ciò non significa che non possano essere in dialogo. Un ottimo esempio in tal caso è il dialogo fra Judith Butler e Adriana Cavareo. Il lavoro delle Papesse è inoltre un importante esempio di come nonostante le risorse limitate si possa creare prodotti culturali importanti. È fondamentale poi ricordare che questo tipo di lavoro viene spesso dimenticato dalla storia e sopravvive solo fragmentato in archivi personali e nelle storie di chi l’ha vissuto. 

See Also

Riferimenti e risorse utili
Cavarero, Adriana, et al. Toward a Feminist Ethics of Nonviolence. Fordham University Press, 2021.
Bocchetti, Alessandra. L’anno dell’ambiguo materno, 2022.
Duggan, Lisa. Sapphic Slasher, 2000.
Immaginaria https://www.immaginariaff.it/
Muñoz, José Esteban. Crusing Utopia, 2009.

 

 

 

Credits
Immagine cover sito
Foto di Mo Eid: https://www.pexels.com/it-it/foto/luce-leggero-tramonto-arte-9829615/
Illustrazione di Gea Testi
Immagine sito orizzontale
Foto di Luis Quintero: https://www.pexels.com/it-it/foto/persone-sedute-sulle-sedie-delle-gang-2774556/
Immagine sito verticale
Foto di Agata Ruscica, soggetto Sara Crescimone Messina in L’ambiguo non materno, 1984 (presente all’interno dell’articolo)