L’abbiamo vista tuttə quella t-shirt con la scritta “Feminist” o quel libro che ci sprona, in quanto donne, a impegnarci di più per far sentire la nostra voce. Magari li abbiamo pure comprati. Come biasimarci dopotutto? Oggi questi messaggi sono dappertutto, e cosa c’è di male nell’assecondare un marketing che si dice finalmente dalla nostra parte? Pian piano però tra studio ed esperienza, iniziamo anche a chiederci dove sia stata prodotta quella maglietta con scritto “Feminist” (l’avrà cucita una donna sottopagata dall’altra parte del mondo?) e se quella speaker di successo, che ci esorta a farci sentire, sta tenendo conto del privilegio della propria esperienza personale.
Questi sono due esempi di un femminismo neoliberale, diventato mainstream, che professa di spiegare perché solo pochissime donne raggiungano ruoli manageriali… rischiando però di rimanere superficiale. Questo fenomeno ha, se vogliamo, il vanto di aver portato ormai il femminismo sulla bocca di tuttə, averlo reso in qualche modo “pop”, così da superare quel rifiuto che molte persone nutrivano a priori nei confronti dell’argomento. Il rischio è d’altro canto quello di un messaggio vuoto, uno slogan commerciale, a tratti incoraggiante, ma privo del significato storico del femminismo e scevro dal contesto sociale patriarcale in cui siamo immersə. Un consiglio idealista ma non applicabile nella vita reale di molte donne: donne nere, donne transgender, donne che vivono in condizioni di povertà o senza possibilità di sostegno materiale o reti di supporto. Per tutte queste donne alzare la voce spesso potrebbe non funzionare o addirittura essere controproducente, perché per esempio potrebbe attirare mobbing o violenze. Non considerare questi vissuti significa dare per scontato il proprio privilegio e considerare la propria esperienza come universale.
Nel suo libro “L’ascesa del femminismo neoliberista”, l’autrice e studiosa Catherine Rottenberg parla di “effetto individualizzante e politicamente anestetizzante” di questo femminismo che ha voluto studiare da vicino, dopo essere rimasta colpita dalla grande visibilità che il fenomeno sembra aver guadagnato. Per “neoliberalismo”, Rottenberg intende
“La continua e incessante conversione, a opera della razionalità neoliberista, di tutti gli aspetti del nostro mondo in “atomi” del capitale, compresi gli stessi esseri umani, produce soggetti individualizzati, “imprenditori di se stessi”, costretti a investire su di sé, considerati peraltro i soli responsabili della propria cura e del proprio benessere.”
Questa ascesa è coincisa con l’identificarsi di diverse donne agiate e di successo con il femminismo, tra cui Ivanka Trump, Theresa May e Sheryl Sandberg. Uno dei motivi della diffusione di questo pensiero, secondo Rottenberg, è “l’ingresso di un numero sempre crescente di donne del ceto medio nel mondo del lavoro professionalizzato”. Una delle criticità maggiori del femminismo cosiddetto neoliberale è infatti che finisce per parlare solo ai ceti medi e medio-alti.
Per quanto sia importante quindi che il femminismo non rimanga un concetto di nicchia e che, anzi, si faccia strada in canali che godono di maggiore visibilità, questa è comunque un’arma a doppio taglio. L’esempio forse più conosciuto è il libro “Facciamoci avanti. Le donne, il lavoro e la voglia di riuscire” di Sheryl Sandberg, direttrice operativa di Facebook, uscito in Italia per Mondadori nel 2013 dopo essere diventato un caso editoriale negli Stati Uniti. Sandberg incoraggia le donne a farsi un esame di coscienza e sconfiggere innanzitutto i propri pregiudizi per poter fare carriera e avere successo nel mondo del lavoro. Ad esempio, l’imprenditrice parla di come trovare un equilibrio tra la maternità e la carriera e di come spesso le donne smettano troppo presto di cercare nuove opportunità di crescita se stanno pensando di mettere su famiglia o a una gravidanza, diversamente dagli uomini. Se a un livello superficiale, il risultato che vuole ottenere Sandberg è condiviso e auspicato da moltə, il suo approccio è stato criticato e giudicato elitario. Sandberg si concentra su quello che le donne possono fare come individui, guarda alla loro responsabilità di fare un passo avanti per essere ascoltate, come fanno gli uomini, anche se questo comporta dei sacrifici; le discriminazioni strutturali nei confronti delle donne, in particolar modo delle madri, che lavorano sembrano però passare in secondo piano nel suo discorso.
La giornalista Katherine Goldstein racconta su Vox come sia passata dall’essere una grande fan del motto di Sandberg allo sperimentare sulla propria pelle che un approccio del genere non funziona sempre. Goldstein si rende conto che il mancato avanzamento di carriera di molte donne non è tanto dovuto al non saper mettersi in gioco, bensì alla discriminazione nei confronti delle madri sul posto di lavoro e che l’approccio di Sandberg tende a portare le donne a colpevolizzarsi per i propri insuccessi quando, di base, il problema è molto più grande di loro.
Un esempio di come politiche di inclusione e parità siano invece la strada de seguire lo dà la Svezia, il Paese dell’Unione Europea con il più alto tasso di occupazione femminile (circa 80%). Come scrive Caroline Criado Perez nel suo libro “Invisibili. Come il nostro mondo ignora le donne in ogni campo. Dati alla mano”*, la Svezia detiene il record mondiale dei permessi di paternità: “nove su dieci usufruiscono di un congedo, con una durata media compresa fra i tre e i quattro mesi”. Questo permesso non può essere trasferito alla madre e decade se non viene sfruttato. Quindi, commenta Perez, “in sostanza, gli uomini non hanno approfittato dell’opportunità finché lo Stato non li ha obbligati a farlo”.
Sostenere che solamente un atteggiamento diverso, più ambizioso e proattivo da parte delle donne possa offrire una spinta significativa alle donne sul lavoro e risolvere problemi quali la disparità salariale o l’assenza delle donne in posizioni apicali è un’estrema semplificazione. Le motivazioni di queste problematiche sociali vanno invece ricercate nelle politiche e negli individui che creano ostilità, mettono in dubbio le competenze delle lavoratrici, non le prendono sul serio. Come scrive Rottenberg, il femminismo neoliberale nega quanto le strutture socioeconomiche e culturali determinino le nostre vite.
Questo non significa che dobbiamo rassegnarci davanti a un contesto socioeconomico sfavorevole senza cercare di far sentire le nostre esigenze o migliorare la nostra condizione, né tantomeno scoraggiarci dal seguire le nostre ambizioni. Se l’approccio di cui si fa portavoce Sandberg funziona per alcune donne, ben venga che queste donne si facciano sentire. Ma fino a che punto l’individualismo è la strategia vincente? Le donne che possono semplicemente farsi avanti dovrebbero continuare a farlo incuranti di come altre donne in posizioni più svantaggiate o marginalizzate non abbiano la stessa possibilità?
Se non riconosciamo che alla base c’è un sistema compromesso che premia chi sacrifica maggiormente la vita privata per dedicarsi al lavoro, questo approccio non ci porterà lontano. “Farsi avanti” in questo senso implica un’omologazione, un adeguamento al mondo del lavoro così com’è stato progettato dagli uomini per gli uomini, senza prendere in considerazione esigenze tradizionalmente assegnate alle donne come il lavoro di cura. Un mondo del lavoro davvero inclusivo deve uscire da questi schemi, prevedere una flessibilità diversa, dare valore a vissuti differenti e soprattutto deve smettere di far ricadere sulla donna il peso di un necessario equilibrio tra famiglia e carriera, facendo (subdolamente) sentire in colpa quelle che non ci riescono. Se farsi avanti e imporsi bastasse, la disparità salariale e le discriminazioni sul posto di lavoro e in fase di assunzione sarebbero già un ricordo lontano.
Il femminismo neoliberale rischia di illuderci che questo sia tutto quello che serve, un approccio più deciso, “la voglia di riuscire”. Ma questa è un’illusione pericolosa, perché spesso anche la più grande motivazione e determinazione non possono nulla contro un sistema patriarcale oppressivo che va cambiato in senso più ampio, invece di impararne le regole. Quello che serve adesso è riorientare il movimento e rivendicare il femminismo come movimento per la giustizia sociale a favore di tuttə, soprattutto per chi non può – o non vuole – farsi avanti.