Il periodo estivo è terminato ed è giunto il momento di fare i conti con quello che “ci siamo persə”. A luglio si è celebrato, come da istituzione dal 2015, il Disability Pride Month. Nonostante i vari eventi e iniziative, moltə attivistə si sono chiestə come mai sia risultato un po’ “sottotono”, non “trend topic”, spesso ignorato sia da esponenti del femminismo intersezionale sia dalle corporation che nel mese di giugno ci sottopongono a vere e proprie sbornie arcobaleno in occasione del Pride Month.
La risposta al perché di questa mancanza di palcoscenici per le istanze delle persone disabili ha tantissimi motivi, soprattutto se si fa un paragone con iniziative dedicate ad altre minoranze. Ma una riflessione importante può essere fatta ripercorrendo parte della storia del Pride Month, delle istanze LGBTQIA+ e del ruolo delle aziende “-friendly”. Un’analisi storica molto lucida viene proposta nel libro Femminismi queer postcoloniali di Paola Bacchetta e Laura Fantone, volta a indagare il ruolo del lobbying nel percorso per ottenere il matrimonio egualitario negli Stati Uniti.
Lobby si traduce in italiano come gruppo di pressione: è un gruppo organizzato che cerca di influenzare dall’esterno le istituzioni per favorire particolari interessi, il cui ascendente può far leva sul denaro o il potere di varia natura di cui dispone. Il termine lobby viene usato anche per indicare gruppi e organizzazioni legati tra loro dalla volontà di esercitare l’influenza a favore di un interesse particolare e a legiferare in merito ad esso. La modalità di azione con cui esso si inserisce, esercitando la propria pressione sul sistema politico, prende il nome di lobbying.
Siamo abituatə a pensare alle lobby in senso negativo, intendendole comunemente come un’élite potente che porta avanti gli interessi di poche persone con un grosso accentramento di potere e di disponibilità economica, ma quella cui ci riferiamo ora è l’attività di lobbyng messa in pratica da attivistə LGBTQIA+ influenti, a metà con una dinamica bottom up in cui la società civile si organizza per fare pressione sull’istituzione per fini sociali e di inclusione.
Partiamo dagli anni Novanta, dagli USA e dalle persone LGB cis. La piaga della sierofobia (il pregiudizio e la discriminazione nei confronti delle persone con HIV, spesso in quegli anni identificate unicamente come persone omosessuali) costrinse la comunità tutta a tornare nell’ombra e cercare di sopravvivere nella società restando il più invisibile possibile. Questo ha consentito a molte persone LG(B) cisgender bianche di prendere coscienza di una realtà spaventosa connaturata alla società dell’epoca: la possibilità di raggiungere punti di potere e accrescere il proprio status sociale al prezzo della propria identità.
Questo sacrificio, costretto e non volontario e causa di enorme dolore, diede la “possibilità” ad alcune persone LG(B) di accedere ai ruoli decisionali all’interno delle aziende e far sì che lavorassero al servizio della loro causa. Stiamo parlando di una vera e propria attività di lobbying che non andrebbe dimenticata per avere una corretta visione storica. La parte più importante arrivò nel momento in cui si cercò di attirare l’attenzione dando valore alle persone LGB in quanto consumatrici. Varie indagini di mercato sulla popolazione americana indicarono che le coppie composte da maschi cis bianchi avevano un risparmio familiare quasi doppio rispetto alle coppie eterosessuali dello stesso livello sociale, seguite dalle coppie di donne cis bianche (appesantite dal gender pay gap ma comunque in media più ricche delle coppie eterosessuali). Questo fenomeno ha avuto alcune cause probabili e indagabili, come la pressione a compensare la non accettazione della società con il successo economico.
Le corporation hanno deciso di battersi in prima linea per il matrimonio egualitario perché soddisfaceva i bisogni delle coppie LGB eteronormate bianche, e lo facevano sotto la spinta di quelle stesse persone che lavoravano nelle corporation e utilizzavano come motivazione i guadagni derivanti da quella fetta di mercato. La conquista dei diritti è stata quindi spinta in parte da un bisogno di mercato, una pura logica capitalista…ma il risultato è stato l’ottenimento di quei diritti.
Iniziano qui le differenze con quelle comunità che non sono state individuate come sicura fonte di guadagno, che non hanno avuto accesso ai luoghi del potere economico per poter esercitare pressione e non hanno potuto contare su questa spinta indotta dal consumo. Sia beninteso, non si vuole dire che alcune comunità marginalizzate siano state più fortunate di altre in virtù della possibilità di farne delle prede del capitalismo a scapito della loro identità (sarebbe una discriminazione nella discriminazione), si vuole solo porre l’accento sul fatto che le altre comunità, quelle che non hanno ricevuto lo status di fonte di guadagno, siano state ulteriormente svantaggiate e abbiano visto i propri diritti lasciati costantemente indietro.
In questo ultimo gruppo, troviamo le persone disabili, la cui storia di rallentamento nella conquista dei diritti può essere cautamente equiparata a quella delle persone transgender. Innanzitutto, se ci riferiamo al mercato lavorativo e alla possibilità di accedere a ruoli di potere, le persone trans* hanno in media una maggior difficoltà di accesso al mondo del lavoro se non godono di un buon passing e di documenti rettificati (non volendo sottolineare come anche il passing, concetto controverso e non certo meta comune, abbia spesso un costo che in mancanza di rispetto dei diritti è a carico delle persone trans*). Un aspetto simile è evidente nel caso delle persone disabili, che si trovano ad affrontare costi aggiuntivi e minore accesso al mondo del lavoro.
L’accesso al lavoro per le persone disabili richiede una rivoluzione culturale, come per le persone trans*, oltre a un abbattimento delle barriere architettoniche e sensoriali. Le persone disabili hanno istanze fondamentali e nel richiedere giustizia sociale necessitano di investimenti che non si sa se verranno ripagati (sta qui la differenza fondamentale). Quindi? Quindi noi appartenenti alla società occidentale dobbiamo fare i conti con la strada che è stata percorsa per ottenere diritti fino a oggi e capire chi questo percorso lascia fuori e perché. Il ruolo del lobbyng è stato definito in modo non troppo felice da moltə attivistə statunitensi, ma tra le domande che dobbiamo porci figurano allora questi interrogativi: possiamo farne a meno per le battaglie a venire? Cosa ne pensano le persone che al momento dovrebbero beneficiare dei diritti assenti? Come possiamo strutturare un cambiamento che raggiunga tutte le realtà che ne hanno bisogno?
Tutte queste domande mi sento di proporle sia a chi crede che senza lobbying non si possa andare avanti (ma che deve quindi capire come usarlo senza creare ulteriori spaccature e disuguaglianze tra persone che subiscono oppressioni) e chi dipinge questo fenomeno come dannoso in ogni caso (per cercare di riflettere insieme su come sostituire questo tipo di lotta senza lasciare troppe persone scoperte da diritti necessari per troppo tempo).
Abbiamo il dovere di proseguire per non lasciare indietro nessuna persona e nessuna rivendicazione di diritti, ma non possiamo rimanere nel limbo in cui il modo precedente era sbagliato ma non se ne trova un altro. Sempre seguendo la logica intersezionele per cui, un passo alla volta, bisogna volere tutto ciò che serve per rompere le catene di tuttə. Forse a questo punto il dialogo, la strategia e l’ascolto potrebbero essere l’unica strada per non sbagliare direzione e continuare ad avanzare.
Happy Disability Pride a tuttə per un anno intero. Che non dura solo un mese (a volte nemmeno quello).