Quello che stiamo vivendo è un momento di grande rivoluzione per quanto riguarda la consapevolezza individuale e collettiva: sempre più spesso e negli ambiti più disparati ci ritroviamo a parlare di inclusione, di apertura, di parità. In questo vortice di stimoli, la sensazione però è spesso quella di non arrivare mai a un compimento ultimo e definitivo della riflessione, alla realizzazione dell’obiettivo o del valore prefissato, alla concretizzazione del proposito che ha portato alla nascita di un certo movimento.
Oggi, in un tempo dominato dal web e scandito dalle restrizioni Covid, teatro di discussione e confronto sono soprattutto i social. È lì che emergono con una frequenza impressionante profili che si occupano di attivismo relativamente a un determinato tema che poi, richiamandosi vicendevolmente, fanno tra loro rete. Le loro voci, insieme, risuonano e raggiungono un pubblico sempre più ampio, al punto che diventa quasi impossibile che restino del tutto inascoltate o sconosciute. Assistiamo così all’intrecciarsi, costante e profondo, delle considerazioni sistemiche delle persone esperte di settore con il vissuto personale nostro e altrui, prendendo finalmente coscienza delle oppressioni che subiamo e dei privilegi di cui godiamo.
Eppure, per quanto necessari, questi discorsi sembrano lasciare indietro sempre qualcuno, non rappresentare tutte le persone a cui sono rivolti, rivelare dei limiti che possono metterne in discussione la loro stessa ragione di essere.
Contestualizzare
Intorno a noi fioccano (e meno male!) esempi virtuosi di emancipazione, di riscatto, di riappropriazione: persone più o meno comuni che, quotidianamente e con una dedizione lodevole, fanno dell’attivismo la loro ragione di esistere.
E della loro esistenza, con tutte le condizioni circostanziali del caso, dobbiamo sempre tenere conto. Inquadrare il posizionamento della persona che ci sta parlando non vuole rendere parziali le sue parole o svilirne la portata. Al contrario, significa inverarne il senso, approfondirlo, attualizzarlo. Ricordarsi che non siamo esseri disincarnati e astorici può aiutarci a comprendere i limiti di ogni discorso per poter eventualmente adottare misure volte al loro superamento. Universalizzare un messaggio senza che questo davvero abbracci tutte le possibili implicazioni, equivale a operare una forzatura intellettuale su un certo ragionamento, appesantirlo di senso e di responsabilità senza che questo sia pronto a sopportarli o a farsene carico. E comporterà anche, inevitabilmente, che qualche persona si senta invisibile, messa da parte, dimenticata.
Margini, confini, limiti
Ecco quindi che all’interno di questi movimenti si mettono in luce degli elementi di eterogeneità, delle differenze più o meno marcate, delle discontinuità o addirittura contrapposizioni. Chi fa attivismo, anche sui social, dovrebbe tenere a mente anche questo: che l’attivismo non assimila, non uniforma, non omologa. Compito dei movimenti per l’autodeterminazione e l’emancipazione (quindi anche dei profili o pagine social che si occupano di questi temi) è, al contrario, quello di creare spazio e preparare il campo per il caso particolare, per l’eccezione che non era prevista dal sistema, per quella che è vista come un’anomali e che che non può essere normata.
Dobbiamo quindi mettere in conto che, anche rispetto ai profili più eversivi, ci saranno sempre persone più al margine, a mostrarci, dentro e fuori dai social, un ulteriore punto di vista, che il nostro privilegio non ci aveva fatto notare e che risalta tutti i limiti dei discorsi tanto convincenti e fondati delle nostre pagine preferite. Questo però non ne svilisce l’operato, semmai lo rende ancora più utile e necessario: ci dimostra che la loro missione non è ancora stata raggiunta o che, addirittura, potrà o dovrà cambiare, richiedendo integrazioni, ampliamenti, approfondimenti.
Anzi, i movimenti necessitano dell’apporto costante, molteplice e plurale di chi vi aderisce e di chi vi orbita intorno. È necessario infatti ricordarsi che l’attivismo, pur muovendo anche dalle singole soggettività, richiede che queste spinte individuali vengano convogliate in una direzione condivisa e, superandone la parzialità, approdino ad un’identità comunitaria. I movimenti sono dei cori di voci che, per quanto diverse e plurali, cantano insieme, e non dei virtuosismi di qualche solista. Occorre costruire una coscienza collettiva che orienti le coscienze individuali, che le ricomprenda e al tempo stesso le rappresenti. La comunità (meglio ancora le comunità) è la destinazione dell’attivismo, la sua realizzazione e il suo compimento.
Tensioni, resistenze, sintesi
D’altro canto, nelle comunità le tensioni non solo sono lecite, ma spesso inevitabili. I movimenti sono dinamici, plastici e non conclusi in se stessi. Chi fa attivismo sa di essere perennemente in cammino e, soprattutto, di non essere né l’apripista, né l’ultimo esponente del suo settore. Diffidate dai movimenti che non generano resistenze interne, da quelli rimangono chiusi nella bolla e alla bolla stessa si rivolgono, da quelli che non provocano alcun tipo di reazioni né fuori né dentro di sé. Probabilmente la loro eccessiva pacificazione e autocoincidenza sono dovute al fatto che parlano di ciò che è già stato riconosciuto e “normalizzato”. Magari stanno solo ripetendo, a una società più pronta della precedente, ciò che altre persone, indubbiamente più ardite e coraggiose, hanno detto prima di loro; verità una volta scomode e ora scontate che non necessitano più di alcuno sforzo sociale, politico e intellettuale per essere accettate.
Come fare per non escludere?
Per tutt quello che abbiamo detto fino a qui, bisogna sempre tenere a mente che la voce di chi fa attivismo, per quanto mossa dai migliori presupposti e al servizio dei più nobili propositi, non è quella dell’intera umanità: per quanto condivisibili, queste voci non possono esaurire tutto lo scibile e abbracciare ogni possibile implicazione eventuale o futura.
Ricordiamoci che la complessità che ci costituisce è irriducibile e non può essere superata in nessun modo. Non esiste una strategia che riesca a raggirarla senza che sia in atto qualche forma di generalizzazione o semplificazione, certamente utili ai fini dell’efficacia comunicativa, ma non del tutto risolutive sul piano operativo.
Forse, che facciamo o meno attivismo, l’unica chance che abbiamo per non escludere nessuna soggettività è ricordarci che ne esistono infinite, diversissime tra loro, e tutte, con lo stesso diritto di essere.
Non si può dire ‘perfetto’ a un discorso che si fonda sull’imperfezione. Diciamo allora che mi sembra una ottima sintesi e un onesto punto di partenza.