Mi chiamo Biancamaria Furci, ho quasi ventotto anni, sono Caporedattrice di Bossy, ho una voglia a forma di Madagascar sulla gamba destra, indosso spesso calzini spaiati, da bambina volevo guidare una rivoluzione e vincere il premio Nobel per la letteratura, adoro i dinosauri e lo spazio, credo che i mercatini di libri usati siano la panacea per i mali del mondo e ho sofferto per oltre dieci anni di un disturbo alimentare. Anzi, due. Per brevissimi periodi, tre.
Detta così, suona piuttosto semplice. Un’informazione come un’altra, un tassello da inserire fra le caratteristiche e le preferenze di una persona per fornire una descrizione più completa della stessa. Però una notizia simile ti resta bloccata in gola, s’incastra nella trachea e rischia costantemente di farti soffocare. Quest’immagine nello specifico, se penso al mio vissuto, è piuttosto ironica – ho sempre avuto uno spiccato senso per la tragicommedia. Ma oggi è la Giornata del Fiocchetto Lilla, una data pensata per riportare l’attenzione sui disturbi del comportamento alimentare, una giornata che sento forte dentro. Quale occasione migliore, per descriversi senza paura.
Una premessa, doverosa e importante: non ci saranno informazioni mediche (perché non sono una medica) né tentativi di prevenzione (perché non sono una psicologa) né sventolii di bacchette o stupidi incantesimi (cit.). Ci sarà una storia, questo sì, rivolta non tanto a chi condivide questa caratteristica insieme a me quanto a tutte le altre persone. Questo scritto è per voi. Perché potreste trovarvi un giorno ad accogliere la testimonianza di qualcunə della vostra vita che soffre di disturbi alimentari e perché potreste dire senza volere qualcosa di inappropriato o lesivo per l’altrə, ma anche perché potreste doverne discutere in pubblico o in privato ed esprimere opinioni e pareri in merito. Quel giorno, sarebbe bene foste preparatə.
I DCA (Disturbi del Comportamento Alimentare) non seguono, a dispetto di quanto si possa pensare, un percorso univoco per tutte le persone che ne soffrono. Non esiste una storia standard, un copione già scritto che ripercorre tappe precise. Non sono quasi mai storie lineari, non hanno una causa univoca e una soluzione netta. Per questo, quando si racconta un disturbo alimentare sarebbe bene non dare per scontato che si stia parlando di tutti i disturbi o di tutte le persone che ne sono coinvolte.
Quando si parla genericamente di disturbi alimentari ci si riferisce quasi solo esclusivamente all’anoressia e alla bulimia nervose (il DSM-V, il manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali nella sua ultima edizione, definisce alcuni criteri per rientrare in queste definizioni: per quanto riguarda il primo disturbo possiamo citare “restrizione dell’assunzione di calorie in relazione alle necessità – intensa paura di aumentare di peso – alterazione del modo in cui viene vissuto dall’individuo il peso o la forma del proprio corpo”; mentre per il secondo “ricorrenti episodi di abbuffata – ricorrenti ed inappropriate condotte compensatorie per prevenire l’aumento di peso, come vomito autoindotto, abuso di lassativi, diuretici o altri farmaci, digiuno o attività fisica eccessiva”). Oltre ai preconcetti che ruotano attorno a questi due disturbi, occorre ricordare che ne esistono molti altri che raramente vengono menzionati: il binge-eating (disturbo da alimentazione incontrollata), il purging disorder (disturbo da condotta di eliminazione, es. vomito autoindotto), il disturbo evitante/restrittivo nei confronti del cibo, sono solo alcuni. Pensare che i disturbi del comportamento alimentare siano sempre e solo una ragazza adolescente che smette di mangiare o inizia a vomitare dopo i pasti limita parecchio il nostro campo visivo del fenomeno.
Temo che questo equivoco sia la risultante delle continue narrazioni stereotipate che abbiamo ricevuto e metabolizzato. La storia della ragazza (sempre e solo al femminile), adolescente, piena di problemi con la propria immagine è stata per lungo tempo l’unica visione mostrata. Questo è dovuto sicuramente in parte all’incidenza casistica che vede una maggiore vulnerabilità a questi disturbi nella popolazione femminile e in particolar modo in quella adolescenziale e preadolescenziale, ma non può essere l’unica rappresentazione esistente. Dovremmo iniziare ad accogliere uomini che soffrono di DCA, così come persone di mezza età, adolescenti con corpi perfettamente corrispondenti agli standard estetici, madri e padri, atletə… Dovremmo ascoltare storie diverse, perché esistono, ma è molto difficile riuscire a parlarne liberamente.
Anzitutto, per lo stigma che i disturbi alimentari si portano dietro. Stigma che vede diversi fattori concorrere alla sua creazione e perpetrazione: il fatto che i DCA siano inseriti nel manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, come abbiamo visto, e che figurino come disturbi psichiatrici; questo, in un mondo che ancora oggi demonizza e tacita ogni discostamento dalla norma, che addita le persone “matte”, che non prende in seria considerazione la salute mentale e la sua salvaguardia e che accosta le malattie mentali a un crimine da espiare (quello di non essere statə abbastanza “normali”), è un problema.
In stretta correlazione, abbiamo il dilemma della colpa: la società ci richiede di essere super performanti, super efficienti, super forti (in un concetto estremamente distorto di forza personale), e confessare apertamente quella che viene considerata come una debolezza è un atto che ha del sacrilego; non bisogna parlare delle proprie ombre, mettere in pubblica piazza i problemi che si hanno, perché il solo fatto di avere un problema che non si riesce a risolvere è sintomo di inadeguatezza. La colpa del comportamento errato è individuale e così individuale e solitario deve essere il cammino per superare tale comportamento – tutto questo senza voler considerare, ovviamente, le persone che arrivano ad affermazioni come “In tempo di guerra non c’era spazio per tutte queste malattie inventate/se vuoi guarire puoi, è tutto nella tua testa/è solo una moda”, sentenze immonde che lasciano il tempo che trovano ma non contribuiscono certo alla formazione di un clima favorevole alla condivisione dei propri dolori.
Dovrebbero bastare queste difficoltà esterne a indurci a trattare con quanta più delicatezza e attenzione possibile i racconti sui disturbi alimentari, ma bisogna considerare anche i fattori interni. Parlare di sé non è mai facile, si sappia, ma parlare di qualcosa che nella migliore delle ipotesi è stato un incubo e nella peggiore l’anticamera della morte è ancora più complesso. Se penso a ogni accusa di egoismo che si rivolge a chi soffre di disturbi alimentari, a ogni tentativo di declassarli a capricci e ricerche di attenzioni, e ogni definizione che include l’idea che alla base di questi disturbi ci sia una mancanza di forza di volontà, un voluto compatimento di fondo, un’autocommiserazione, un’azione studiata. Come si può allora spiegare a parole il dilaniarsi, lo spezzarsi, il non riuscire a tenersi insieme e ancoratə a se stessə, la dipendenza dal tuo stesso malessere visto come fonte di salvezza, la riduzione ai minimi termini del tuo essere, l’odio che provi per ogni tua singola cellula… Non è tutto maracaibo mare forza nove, mettiamola così (canzone che, per amore di cronaca, è tragica oltre ogni misura, andate a cercare la storia se non la sapete).
Tutta questa premessa tracimante ottimismo e allegria solo per dire: bisogna impegnarsi, per ascoltare una storia di disturbi alimentari. Non è e non può essere un esercizio di ascolto passivo, una trasmissione a senso unico. Bisogna creare un terreno fertile e positivo, liberarsi da ogni possibile pregiudizio e rendersi totalmente disponibili all’altra persona. Se non si è nelle condizioni di rispondere a queste richieste, è molto meglio evitare. Questo non significa che ci si aspetti qualcosa da chi ascolta, sia ben chiaro. Non si chiede di risolvere la vita al prossimo (anche volendo, non si può) né di cancellare il trauma (di nuovo, non si può) o di proporre soluzioni pratiche come una ricetta della nonna per far sparire i calli (qui, anche se si può, non si deve). Solo… ascolto.
Una volta che si è scelto di ascoltare, subentra il vero impegno: i propri atteggiamenti vanno modificati. Sembrerà un comodo scaricabarile, ma sappiate che i disturbi alimentari non insorgono da un minuto all’altro. Possono avere radici biologiche (molti studi evidenziano fattori genetici come l’ereditarietà e una maggiore predisposizione mentale a questi disturbi) ma non si parla mai di cause, al limite di fattori di rischio che possono predisporne lo sviluppo o aumentare le probabilità della loro insorgenza. Le cause primarie sono sempre psicosociali, ambientali e culturali, riguardano ovvero la psicologia di una persona in relazione all’ambiente in cui vive (come quello familiare o quello di socializzazione secondaria, ad esempio la scuola o il gruppo dei pari) e agli input che riceve dalla società. Alla luce di questo, è fondamentale che prendiamo coscienza del peso che le nostre parole e azioni hanno sulla vita delle altre persone. I disturbi alimentari non sono colpa di nessunə, né di chi ne soffre né delle persone che ha avuto accanto, ma hanno diverse cause. Una disattenzione, un comportamento sbagliato, un messaggio pericoloso possono diventare una di esse.
Il bullismo sulla base del body shaming (lo stigma nei confronti dei corpi non conformi – ma non solo – e l’idea che esistano corpi che non meritano di esistere perché differiscono dalla norma socialmente accettata e riconosciuta) è uno dei primi ricordi di ogni persona che soffra di disturbi alimentari. Le testimonianze sul tema sono infarcite di aneddoti riguardanti lo stigma del peso e l’immagine corporea che attraverso lo schernimento viene rimandata distorta a chi quel corpo lo abita. Non so cosa ci voglia ancora per individuare uno dei maggiori problemi legato ai disturbi alimentari nel macroscopico errore che chiamiamo “discussione sui corpi”. La radice, se non di tutto di molto, sta lì.
Il legame fra disturbi del comportamento alimentare e grassofobia è strettissimo e deve essere indagato, la prevenzione non può prescindere dall’educazione al rispetto dei corpi. La colpa primordiale, se proprio volessimo attribuirne una, risiede nell’idea che possiamo commentare e denigrare i corpi altrui, inserirli in una scala di valori e giudizi, accanirci contro chi non risponde perfettamente alle richieste sociali. Di fronte a questo, alla possibilità di condizionare in maniera così negativa e permanente un altro essere umano, mi chiedo spesso come si possa pensare di essere in diritto di esprimere tutto ciò che si vuole in nome della propria libertà di espressione, additando a piagnistei e vittimismo la semplice richiesta di non essere spintə a odiare il proprio corpo al punto di volersi cancellare dalla faccia della Terra. I disturbi del comportamento alimentare sono la prima causa di morte fra le malattie mentali nei Paesi occidentali. Bello ‘sto piagnisteo, peccato che il prezzo sembri altino.
Adesso, se siete arrivatə fino a qui (un plauso alla pazienza, come minimo), sono pronta a parlare anche di me. Sentivo il bisogno di porre delle basi condivise, di dare qualche suggerimento per poter accogliere al meglio le storie di altre persone – e sì, vale anche per la mia. La mia storia con i disturbi alimentari inizia in maniera estremamente… vaga. Non ricordo, a essere del tutto sincera, quando io abbia iniziato. Peggio ancora, tolta la prima infanzia non ho ricordi antecedenti all’età preadolescenziale che non concernano il disturbo alimentare. Potevo avere undici o dodici anni (probabilmente dodici) e so di aver, semplicemente, iniziato a vomitare. Sono assolutamente certa invece del perché lo facessi: volevo essere magra. Sono stata una bambina grassa e molto felice, fino a quando non ho capito che la mia condizione di grassezza non poteva combaciare con la felicità, non secondo lo sguardo di me che la società mi rimandava. Non ho quasi nessuna memoria dell’infanzia e dell’adolescenza slegata dal bullismo e dal giudizio negativo sul mio corpo. Nonostante ciò, sono stata una bambina e una ragazza piena di amicə e di interessi, di attività, di sport, di amore e di passioni. Ma il tarlo che il mio corpo fosse tremendamente sbagliato non mi abbandonava, sono arrivata a odiare visceralmente ogni centimetro della mia pelle.
Sottoposta a diete restrittive fin dalle scuole elementari, sapevo con assoluta certezza di non riuscire a mantenere un peso sufficientemente “basso” in rapporto alla mia altezza e alla mia conformazione fisica senza dovermi letteralmente affamare. Affamarmi non mi riusciva sul lungo periodo, così ho trovato un modo alternativo per controllare il mio peso. Ho scoperto da subito un innato “talento” per autoindurmi il vomito, cosa che facevo frequentissimamente. Quel genere di competenza che non si vorrebbe mai avere – ai tempi, ovviamente, ne ero entusiasta. Arrivata al liceo, vomitavo semplicemente dopo ogni singolo pasto. Non potevo sapere allora di soffrire di purging disorder, ma era quello. Seguono anni confusi in cui il mio disturbo alimentare era talmente connaturato alla mia vita da rendere impossibile una distinzione netta. Ho sofferto per alcuni periodi di bulimia nervosa, a tratti brevissimi di anoressia nervosa atipica. Per tutto il resto del tempo, mi tenevo salda al mio disturbo da condotta di eliminazione. Dopo, mi sentivo sempre bene. Non posso e non voglio mentire su questo. Durante, stavo tutto fuorché bene: ho rischiato innumerevoli volte di morire soffocata, sono svenuta spessissimo sulla tazza del water, mi sono lesionata trachea ed esofago, ho perso sangue dalla gola e dal naso, ho convissuto con i capogiri e la nausea perenne. Considerata la durata e l’entità del mio disturbo, trovo sempre miracoloso il fatto che io non sia morta – ho impiegato lungo tempo a perdonarmi per questo.
Immagino comunque che allora l’ipotesi di morire fosse nettamente meno grave e minore fonte di preoccupazioni rispetto a quella di essere me così com’ero. Ho taciuto questo aspetto della mia vita per lunghissimi anni, confidandolo in maniera vaga e abbozzata a pochissime persone a me vicine. Ho chiesto aiuto, a un certo punto, e poi l’ho rifiutato. Non volevo cambiare – non potevo, non mi conoscevo in nessun altro modo. Non ero mai stata una persona senza disturbi alimentari, come avrei potuto riconoscermi in una vita tanto diversa dal mio quotidiano. Sono guarita solo grazie alla terapia, e, lo dico sapendo perfettamente di poter costituire un esempio sbagliatissimo, al fatto di aver iniziato a vivere con il mio attuale compagno, che mi amava al punto da chiudere a chiave la porta del bagno dopo ogni pasto e ricevere tutto il mio odio e le mie lacrime in cambio. Io non sapevo come chiedere aiuto, lui era un ragazzo giovane e terrorizzato e non aveva idea di come aiutarmi, è andata così. Lo ripeto: l’amore non salva da niente e questo non è un esempio di condotta corretta, ma quell’amore ha salvato me e sarebbe estremamente ipocrita celare questo aspetto della mia storia. E poi credo di dovergli una menzione speciale, come minimo, la gratitudine va urlata a pieni polmoni nella mia visione delle cose. Così, grazie allo scossone iniziale e molto di più grazie alla psicoterapia, per la prima volta ho immaginato di poter essere qualcos’altro, di poter scegliere me. Ancora oggi, ogni volta che ci penso e che me ne rendo conto, ogni volta che lo realizzo profondamente, piango. Non lo avrei mai creduto possibile.
Una volta guarita, ho iniziato a parlare. A raccontarmi, poco per volta e poi tutto insieme, a persone vicine e lontane. Ho sentito l’esigenza di contribuire alla discussione intorno ai disturbi alimentari. Volevo che tutto quel dolore avesse un senso. Se sono qui oggi a scrivere queste parole, fra le più difficili che abbia mai pensato di condividere con il resto del mondo, è perché è ciò che voglio ancora. Cercare senso e restituirlo. Scavare a mani nude nella mia sofferenza, in cerca di ciò che di buono è sopravvissuto. E sperare di poter mai essere di aiuto a qualcunə.
E quindi, eccomi qua. Non mi considero una persona totalmente priva di disturbi alimentari. Anche se non ne soffro in questo momento e da molti anni, so di essere un soggetto costantemente a rischio. So di dovermi controllare, di dovermi assicurare che sia tutto ok. Ogni tanto non è tutto ok, devo accorgermene in tempo e correre ai ripari prima ancora che il problema si presenti. I mostri nella mia testa non se ne sono mai andati. Ma ora li conosco: ogni tanto li invito a trovarmi, per assicurarmi che siano innocui, sbiaditi come un vecchio ricordo polveroso, e non abbiano intenzione di nuocermi. Facciamo due chiacchiere, li congedo e non li rivedo per tempi sempre più lunghi. Un giorno so che li chiamerò a raccolta e non risponderanno. Quel giorno saprò di essere una persona senza disturbi alimentari. Non so quanto lunga sia la strada, ma la vista da qui è magnifica.
Questo sì, rispetto a tutto il resto, è un messaggio rivolto esclusivamente alle persone che soffrono di DCA: fidatevi, esiste un dopo. E la vista è magnifica.
Adoro il tuo essere Bianca,sei forte ,di quella forza autentica che nasce dalla consapevolezza e accettazione di quello che è il nostro significato di vita;sei straforte Bianca,molto più dei tuoi “mostri”,tanto forte da non temere la loro presenza..‼️
fermo restando il massimo rispetto per la storia personale dell’autrice a cui auguro davvero ogni bene diciamo alcune cose: affamarsi non è un modo sano per dimagrire (chi ha bisogno di dimagrire) ogni nutrizionista lo sa. non ci sono canoni estetici imposti, ma lasciando perdere la questione salute (che esiste) ci sono corpi maschili e femminili nè ossuti nè obesi che sono più belli fisicamente e più attraenti di altri, questo è un dato di fatto, esiste la bellezza fisica e il suo potere attrattivo vale per donne e uomini. detto questo, per rispettare una persona non occorre trovarla fisicamente bella e attraente, è doveroso combattere il bullismo e le offese ogni corpo bello o meno va rispettato
fare ginnastica è una scelta di per sè non è un sintomo di dca