Viadellironia è una band bresciana composta da Maria Mirani, Giada Lembo, Greta Frera e Marialaura Savoldi, che lo scorso 20 novembre ha esordito con “Le radici sul soffitto“, disco di dieci brani realizzato con il sostegno del MiBACT e di SIAE, nell’ambito del programma “Per Chi Crea”, e prodotto da Cesareo, già Elio e le storie tese. Anticipato dal singolo “Ho la febbre” a cui ha preso parte Edda, l’album ha come filo conduttore la descrizione critica e malinconica della decadenza del mondo attuale, toccando gli estremi del male di vivere e al contempo del desiderio di liberarsi degli stati di alienazione: “Le radici sul soffitto” è un’opera rock, riflessiva, intensa e dai forti richiami anni Novanta accompagnati da liriche profonde.
Di questo album, ma anche di leadership, equilibri, stereotipi e sorellanza, abbiamo parlato con le artiste di Viadellironia.
Al posto di “femminile”, quale aggettivo vi piacerebbe venisse associato quando si parla di voi?
Maria: Bella domanda. Mi si corrode un po’ il cervello ogni volta che sento “femminile” come primo aggettivo per la nostra descrizione. È un primo attributo ingrato, nel momento in cui i criteri di enunciazione di “gruppo femminile” vengono decisi senza la nostra partecipazione. Ed è una cosa troppo importante per non essere ponderata da chi ce lo dice. Il senso interno a “femminile” è decisamente variegato, passibile di indagine. Per questo motivo questa enunciazione, che sembra così innocua, dà per scontate delle cose e le applica a noi. Ci veste di una serie di implicazioni extra-musicali, di cui possiamo essere felici o meno, ma che è diritto nostro scegliere se sottolineare o no. Sono comunque molto contenta che questo aspetto ci venga sottoposto nelle interviste perché ci è consentito chiarire proprio queste cose. Ti ringraziamo molto, infatti, della tua domanda. Alla luce di questo esordio direi che il nostro aggettivo preferito sia “Art Rock”.
Giada: Secondo me, invece, allegare al nome del gruppo l’aggettivo “femminile” non è di per sé una cosa negativa e non comporta necessariamente uno spostamento di attenzione su qualcosa di estraneo a noi o alla nostra musica. Comporta solo la sottolineatura di un’eccezionalità che rispecchia l’attesa automatica nella mente di unə ascoltatorə, che si aspetta a priori che un gruppo debba essere maschile. Per questo motivo non sono particolarmente infastidita dall’aggettivo, perché specifica una cosa che non esiste in automatico nella testa di unə ascoltatorə, cioè il fatto che un gruppo possa essere costituito anche da sole donne.
Quali sono a vostro parere le peculiarità caratterizzanti della vostra musica, da un punto di vista di scrittura testi e di composizione? Quale brano di “Le radici sul soffitto” cristallizza perfettamente la vostra essenza, questi aspetti peculiari?
Maria: Uno degli aspetti più rilevanti della scrittura è una specie di necessità che modella i testi. Quando scrivo ho un rapporto davvero vitale, spesso umorale, con la scrittura. Quando tutto ha una sua brillantezza e un alto grado di commozione in primis per me, vuol dire che il testo funziona. Vorrei davvero che le parole splendessero nei nostri testi, che si stagliassero su un fondo. Ma questo sfondo deve rispondere bene alle parole. La composizione e l’arrangiamento lavorano in questi termini di risposta parimenti necessaria al testo, e di brillantezza. Forse “Come vene del marmo” è il brano in cui questa operatività emerge di più.
Laura: Un aspetto che trovo peculiare nella nostra musica è la semplicità delle parti e degli arrangiamenti. La sezione musicale non immette elementi di tecnica creati solo per dimostrare determinate abilità, ma è tutto molto naturale e funzionale al rapporto musica/testo. In questo senso, la musica ha degli elementi di necessità.
Greta: D’altra parte, credo che il nostro sound derivi soprattutto dalla libertà che scegliamo di avere nell’inserire le cose che ci piacciono anche quando sono inaspettate o fuori genere; così cerchiamo di far dialogare musica e testi attraverso una certa ironia di fondo. In “Architetto” è particolarmente evidente la vena ironica che secondo me ci contraddistingue, e anche il fatto che attingiamo senza remore da generi diversi.
Giada: La nostra musica è libera, non si ferma davanti a un genere o a un’epoca, li accoglie tuttə e li elabora. Siamo quattro teste con quattro idee diverse, con quattro gusti differenti, e questo è il risultato del nostro sound.
Il disco è fuori da poco: qual è la domanda, sulle nuove canzoni, che non vi è ancora stata fatta e alla quale invece vorreste rispondere? Quali sono le tematiche che trattate nell’album? C’è una frase, una citazione, estrapolata da uno dei brani, che vi inorgoglisce particolarmente?
Non ci hanno ancora posto domande sugli aspetti più politici del disco. Grazie dell’opportunità! La domanda che tanto vorremmo ci facessero è: in che modo ragiona, politicamente, “Le radici sul soffitto”? Noi speriamo di avere impresso al nostro album una patina politica attraverso argomenti che ne sembrano distanti ma che sono, in realtà, i sistemi in cui il potere agisce mascherato e con più efficacia: l’amore e la morte. Questo disco parla molto di amore, di ricordo e di morte, e attraverso il racconto di questi regni, dove il potere scolpisce indisturbato, speriamo di avere esposto che ci sono molte cose che del potere ci fanno schifo. Del suo modo di modellare le soggettività attraverso l’amore, di sorvegliarle attraverso la morte.
Da “Figli della Storia”:
“Com’è difficile far parte della storia
e tutti a fare figli, e tutti a innamorarsi controvoglia
istupiditi dal fascino celeste dei bambini.
Un cadavere germoglia nei giardini Montanelli
e ci mostra i figli della storia
così belli
che vorrei non esser nata.”
In che modo in un gruppo si mantengono equilibri nelle relazioni interne, nei momenti di decisione, e nella fase creativa? C’è una leader intesa quale traino energico, nelle Viadellironia? Quali sono i tratti del proprio carattere da smussare e quali invece da rinvigorire, per tenere insieme un gruppo? Quando è stato il momento in cui vi siete dette “Ok, siamo una band, insieme stiamo in piedi bene”?
Ci conosciamo da tanto tempo e per motivi avulsi dal nostro gruppo. Laura, Greta e Giada si conoscono addirittura dai primi anni del liceo. Maria ha conosciuto Laura perché hanno iniziato a uscire insieme, e stanno tuttora insieme. Questi aspetti affettivi e di conoscenza profonda, di amicizia, di amore, ci rendono sicuramente molto unite. Implicano un investimento emotivo alto, a volte instabile, ma sempre molto intenso. Le decisioni le prendiamo insieme e siamo quasi sempre d’accordo. Maria si occupa dell’aspetto più concettuale e testuale, Laura è un punto di riferimento pratico e relazionale, Giada e Greta sono determinanti nell’organizzare le energie e gli equilibri, nello smussare le rigidità di Maria e nell’aiutarla a evadere un po’ dal suo narcisismo. In definitiva siamo un organismo con degli equilibri che abbiamo imparato, nel tempo, a capire bene. La cosa più bella del nostro sistema è che non sia mai esistita l’idea di rivalità (tecnica, musicale), perché a nessuna di noi importa dimostrare alcunché alle altre. Penso che questo, oltre che elegante, sia un atteggiamento indispensabile per rendere unito un gruppo, ed è grazie a questa attitudine naturale che a un certo punto ci siamo accorte di avere un’identità generale, di essere un organismo. Crediamo sia stato quando abbiamo registrato il nostro primo EP “Blu moderno”, circa tre anni fa.
Parliamo sempre di come e in che situazioni le donne nella musica sono discriminate, non ricevono i meritati riconoscimenti o sono messe in ombra dall’uomo produttore di turno che le ha scoperte. Invece voglio chiedervi: come e in che modo a vostro parere nel settore musicale si può creare un ambiente paritario, meritocratico, neutro, superando gli stereotipi? Parlando di sorellanza, invece, quali sono le colleghe che ci consigliate di ascoltare, preferibilmente originarie del territorio bresciano come voi?
Maria: Diffido, purtroppo, che la produzione culturale possa riuscire a eliminare dai suoi criteri di selezione tutto quello che non ha a che fare con l’arte e di ragionare solo e soltanto in base alla musica. Ha interiorizzato troppo, credo, delle strategie di accesso che ormai si credono, come dici tu, neutre. Questo è terrificante. Io spero solo che possa esserci un processo di messa in discussione davvero totale. Per superare un codice serve vederlo, capire la sua natura di codice e di stereotipo, ma molto spesso questi sembrano autoevidenti, neutri. L’unico modo per superare questa stagnazione consiste nella presa di coscienza, da parte dei luoghi di produzione del pensiero e della musica, di una possibilità alternativa e decostruita di vedere ə artistə: de-eroticizzatə, de-sensazionalizzatə. Deve essere ridefinito il concetto di erotico e di sensazionale nella musica, ma dal basso, dalle nuove soggettività. E i luoghi del potere non dovrebbero fagocitare questa nuova musica, appena si accorgessero della sua produttività.
Abbiamo delle colleghe molto brave a Brescia; mi vengono in mente Gabriella Diana dei Gamaar, Chiara Bernardini dei Kick e Serena Carbonini di Serena Coal, ad esempio.
“Le radici sul soffitto” è il vostro primo disco: trovandovi davanti a una band appena formatasi che proprio a registrare un album, a suonarlo live, vorrebbe arrivare, quali sono le situazioni dalle quali la mettereste in guardia? Come consigliereste di affrontare i momenti difficili? Da quando avete iniziato a suonare insieme fino alle genesi del disco, qual è il ricordo che non dimenticherete mai e che vi scalda il cuore ogni volta che ci ripensate?
Greta: È difficile vedersi non nella posizione di ricevere consigli ma di darne, non ci sono abituata, ma se dovessi mettere in guardia una giovane nuova band da qualcosa, probabilmente sarebbe lo sconforto: l’idea del fallimento che incombe è angosciante, ma è una buona spinta, se non ci si fa fregare dalla tristezza (roba da niente, insomma). Il ricordo più bello è sicuramente il primo concerto al Lio Bar, luogo magico dove ho visto esibirsi tantissimə artistə: l’incredula gioia di far parte anch’io di quella fauna variegata e fantastica con le mie compagne è stata un’emozione grandissima.
Laura: Consiglio di concentrarsi sul trovare un proprio linguaggio senza rincorrere il genere del momento. Sarebbe solo una rincorsa frustrante e non è detto che ci si trovi a proprio agio in un’aspirazione distante dal proprio mondo. Il mio ricordo più bello credo sia l’apertura del concerto di Nada alla festa di “Radio Onda D’Urto”, festa alla quale siamo molto affezionate e di cui siamo assidue frequentatrici. È stato bello innanzitutto trovarsi dall’altra parte, sul palco e non tra il pubblico.
Maria: Se fossi nella strana situazione di consigliare qualcunə, metterei in guardia dalle invidie nei confronti di altrə artistə, perché corrodono le energie e non lasciano ragionare lucidamente sul proprio mondo. È già tanto faticoso fare i conti con il proprio linguaggio e i propri modelli, che farsi rovinare l’arte e il fegato dalle invidie di percorso è proprio sfiancante e inutile. Per quanto riguarda i momenti difficili, la mia arma segreta è la tristezza più torva che poi diventa essere incarognita e poi diventa alcol (si scherza, eh) e poi diventa drama e poi “Dai, su, fai qualcosa che puoi farcela”. Quindi meglio non dia consigli, va’. Il mio ricordo più bello è lo stesso di Greta, di quel post concerto al Lio Bar. Si tratta del locale dell’adolescenza e dell’immaginazione e ricordo il meraviglioso senso di adeguatezza che la buona riuscita di quel concerto mi aveva dato. Ho tanta voglia di provare ancora quella sensazione.
Giada: Per me esiste il momento più bello in ogni live, ed è quando l’ansia lascia il posto alla soddisfazione nel vedere la gente cantare ed emozionarsi, o semplicemente battere i piedi a tempo.