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Come costruire un testo inclusivo: intervista ad Alice Orrù, copywriter e traduttrice

Come costruire un testo inclusivo: intervista ad Alice Orrù, copywriter e traduttrice

Articolo di Francesca Anelli

La lingua italiana ha un problema di inclusività: su Bossy ne avevamo parlato già qualche tempo fa, ma negli ultimi mesi l’argomento sembra essere diventato sempre più rilevante nel discorso pubblico sul sessismo (e non solo). Ogni tentativo di ovviare al problema scalda il cuore di chi fa attivismo e gli animi di chi si oppone al cambiamento, mentre nella pratica si fa fatica a stare dietro alle tante soluzioni proposte e a integrarle nella propria comunicazione.

Per capirci qualcosa abbiamo quindi chiesto ad Alice Orrù, che si occupa proprio di copywriting inclusivo, di darci una mano a orientarci, e imparare così a scrivere e parlare evitando – come spiega sul suo sito – di rinforzare le discriminazioni.

Ciao Alice, puoi dirci innanzitutto che caratteristiche deve avere, secondo te, un testo inclusivo?

Amo molto il motto del progetto “Parlare Civile”, che risale a qualche anno fa e che considero preziosissimo: “Non esistono parole sbagliate. Esiste un uso sbagliato delle parole”. Ecco, un testo secondo me può dirsi inclusivo quando usa le parole in modo non discriminante. Qui si potrebbe aprire un intero saggio sulla scrittura inclusiva, ma cercherò di essere super sintetica: per me un testo inclusivo è quello che usa un linguaggio libero da espressioni che rafforzano stereotipi di genere, che escludono le persone con disabilità o che le discriminano per motivi razziali, religiosi o di età. Aggiungo però che l’inclusività non passa solo dalle parole che scegliamo ma anche dal modo e dalla forma in cui queste vengono usate e organizzate nella pagina. Nell’ambito della scrittura per il web questo è un punto chiave. Un testo diventa pienamente inclusivo nel momento in cui il maggior numero possibile di persone è in grado di fruirne. Sono grata a tutte le persone che lavorano sull’inclusività “da dentro”, curando lo scheletro su cui si posano le parole: pagine web accessibili, leggibili con diversi supporti – come i lettori di schermo per le persone cieche – e in contesti diversi. Tutto ciò che permette di fruire dei testi a prescindere da eventuali limiti personali permanenti, temporanei o situazionali, è un supporto all’inclusività.

Insomma, non si tratta solo di rispettare l’identità di genere delle persone.

Il linguaggio inclusivo è lo strumento per una comunicazione non discriminante, quindi l’identità di genere non è l’unico fattore da considerare. Le discriminazioni passano anche dal razzismo, dall’abilismo (la discriminazione delle persone con disabilità) o dall’ageism (la discriminazione delle persone per età). Avere cura delle parole che scegliamo di usare e assicurarci che non siano discriminanti è il primo passo per integrare serenamente il linguaggio inclusivo nella nostra vita quotidiana.

Mi piace molto ciò che dice Fabrizio Acanfora, scrittore e divulgatore sul tema della neurodiversità: più che di inclusività, sarebbe più corretto parlare di convivenza con le differenze. Il linguaggio inclusivo deve saper rendere questa convivenza con le differenze, a qualunque campo esse appartengano.

Come scrivi sul tuo blog, la soluzione che preferisci per rendere più inclusivo un testo in italiano è l’uso della schwa. Vuoi spiegarci perché?

Sono una grande fan della schwa e del potenziale che racchiude. Ho iniziato a usarla come esperimento nella mia comunicazione social, consapevole del fatto che sia ancora una soluzione che pone non pochi problemi a livello grammaticale e di accessibilità (prima fra tutte il fatto che non è un carattere presente in tutte le tastiere). Eppure non riesco a ignorare il fatto che, a differenza di altre soluzioni adottate per il linguaggio inclusivo come l’asterisco, la vocale -u o la -y, la schwa è inconfondibile: è un suono vocalico, è documentato nell’alfabeto fonetico internazionale, ha una sua grafia (ә per il singolare e з per il plurale) e possiamo pronunciarlo senza particolari contorsioni linguistiche. In alcune zone d’Italia è già perfettamente integrato nella comunicazione orale dialettale.

Il sito italianoinclusivo.it è stato il primo, nel 2015, a documentare la schwa come un possibile strumento di italiano inclusivo: consiglio di andare a curiosare fra le sue pagine per apprezzare il potenziale di questa soluzione. Insomma, la schwa ha una sua identità ben definita, e questo mi piace molto.

L’italiano non ha un pronome neutro: come si può aggirare questo problema nei contesti in cui viene richiesto di sceglierne uno?

Questo è forse uno dei grattacapi più grossi da risolvere se vogliamo rendere la lingua italiana più inclusiva. I pronomi sono un elemento della nostra lingua costituito da pochi ma pesanti caratteri: è ai pronomi che affidiamo uno dei fondamenti comunicativi della nostra identità, del nostro autodefinirci. Io mi riconosco dalla nascita nel genere femminile e non ho alcun problema a trovare pronomi che mi definiscano: lei/la/le. Lo stesso possono dire coloro che si riconoscono nel genere maschile: i pronomi lui/lo/gli adempiono perfettamente alla funzione. Chi però non si riconosce in uno di questi due generi e desidera autodefinirsi come persona non binaria incontra grosse difficoltà nel trovare dei pronomi adatti a sé. Sarebbe bellissimo se anche in italiano riuscissimo a raggiungere una soluzione simile a quella adottata in inglese con il pronome they o in svedese con il pronome neutro hen.
Ma visto che siamo ancora lontani da una soluzione concreta di questo tipo, credo che al momento i modi più pratici per aggirare il problema siano questi:

● Cercare di usare pronomi indefiniti e verbi impersonali. Spesso si tratta solo di riformulare la frase. Ti faccio due esempi che mi capita spesso di vedere sui siti web: invece di “Benvenuto sul nostro sito web” possiamo scrivere “Ti diamo il benvenuto sul nostro sito web”; un “Sei pronto a iscriverti alla nostra newsletter?” può diventare “Vuoi iscriverti alla nostra newsletter?”.
Anche nella comunicazione orale, invece, “Spero ti sia divertita” può diventare “Spero sia stato divertente”.
● Usare l’alternanza di maschile, femminile e desinenza neutra (che sia schwa, -u, -y o *).
● Se stiamo parlando con qualcuno che non conosciamo bene, possiamo concentrarci sull’ascolto e cercare di capire che pronome quella persona usa per parlare di sé. Se poi siamo in confidenza, non c’è nulla di male a porre direttamente la domanda e chiedere quale pronome usare.

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La decisione di adottare una di queste soluzioni dipende naturalmente dal contesto in cui stiamo comunicando e dal grado di formalità della comunicazione. Sono convinta che sul tema del linguaggio inclusivo non dobbiamo avere fretta ma procedere a passo costante: il cambiamento linguistico si radica nella costanza.

Ci sono anche delle tecniche (come ad esempio l’uso di forme attive invece che passive) per scrivere in modo più neutro possibile?

Usare la forma attiva aiuta perché non obbliga a usare i participi e quindi a declinare le parole per genere. Oltretutto, usare la voce attiva è anche una buona pratica per rendere la nostra scrittura più dinamica e personale, oltre che inclusiva! Altra soluzione, a seconda del contesto, è quella della doppia forma (es. “Cari cittadini e care cittadine”), anche se questa purtroppo non tiene conto della declinazione non binaria. Io gioco spesso con le perifrasi, uso il termine “persona” o il pronome relativo “chi”. Questi accorgimenti sono ad esempio molto utili per evitare il maschile sovraesteso quando si parla di nazionalità o di professioni. Possiamo trasformare “Gli italiani” in “Persone di nazionalità italiana” o in “Chi vive in Italia”. Un caso che incontro spesso nel mio lavoro di traduzione tecnica è il riferimento agli “sviluppatori web”, che, quando il testo me lo permette, trasformo in “chi lavora nello sviluppo web”.
Come già detto, però, queste soluzioni vanno adeguate al contesto e al registro della conversazione.

Hai degli esempi virtuosi da segnalarci?

Per l’Italia mi viene in mente la casa editrice effequ che di recente ha comunicato la modifica delle sue norme editoriali: i testi dei loro libri useranno la schwa al posto del maschile sovraesteso. Il risultato si può già apprezzare in alcune pagine del loro sito web. Parlando di brand, mi piace la comunicazione di Clue, l’app di monitoraggio del ciclo mestruale, che non dà per scontato che tutte le persone che usano il prodotto si riconoscano nel genere femminile. Anche il loro blog è molto utile e contiene una sezione interessante chiamata “Periods beyond gender”. Sono anche una grande fan delle aziende che includono nella loro documentazione interna le linee guida per una comunicazione inclusiva. È l’esempio di Mailchimp, HelpScout o SproutSocial.

Un esempio bellissimo di comunicazione inclusiva, oltretutto applicato nella Pubblica Amministrazione, è il sito del Governo inglese su cui ha lavorato la squadra di Content Design London. Il sito è una vera miniera d’oro di linee guida su linguaggio inclusivo, accessibilità e usabilità. In Italia abbiamo fatto dei passi avanti quando, nel 2018, sono state pubblicate le linee guida di design per i servizi web della Pubblica Amministrazione: sogno il giorno in cui tutti i siti della Pubblica Amministrazione italiana offriranno un servizio inclusivo e accessibile alla popolazione!

Per seguire Alice, qui trovate il suo profilo Instagram e qui il suo sito.

Artwork di Chiara Reggiani
Con immagini di Alice Orrù e Jess Bailey
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