Quando eravamo femmine, ovvero un libro di cui non avevamo bisogno


Articolo di Alessandra Vescio
Quando mi è stato regalato questo libro, lo ammetto, non avevo idea di chi fosse l’autrice, non conoscevo la sua storia né tantomeno le sue idee. Così scarto il pacchetto, do un’occhiata veloce a titolo, sottotitolo e quarta di copertina e – con la mia solita ingenuità – mi faccio prendere dall’entusiasmo. D’altronde il regalo arriva da un’amica femminista che, a dir la verità, mette subito le mani avanti mostrando qualche segno di pentimento, ma io non ci faccio caso e mi lancio a capofitto in un libro in cui si parla di donne e di famiglia, di diritti e di ruoli in società. Il problema però diventa il come se ne parla.
Il libro in questione si intitola Quando eravamo femmine, in onore del film documentario su Cassius Clay Quando eravamo re. A scriverlo è la giornalista Costanza Miriano, che dedica alle sue due figlie nove lettere in cui affronta aspetti di vita quotidiana di ogni donna e, per farlo, ricorre a giudizi personali, esempi religiosi e aneddoti di vita altrui.
L’idea che ci fosse qualcosa di strano nell’aria ha iniziato a farsi sentire fin da subito, fin da quelle affermazioni sull’enorme capacità delle donne di provare dolore, sull’importanza di essere madri, sulle amiche suore da prendere come esempio.
“Punti di vista”, mi dico paziente. Io, che da quando ho iniziato a studiare e approfondire i temi del femminismo, ho fatto della tolleranza un mio punto di forza. Eppure la prospettiva che la donna sia donna solo «in relazione, quindi grazie alla persona che è nel bisogno, e di cui anche lei ha bisogno» sembra mettermi in guardia, specialmente se siamo ancora all’introduzione. Così, tra battutine forzate e le continue invocazioni a Dio, mi muovo verso i capitoli successivi. Ben presto i dubbi delle prime pagine diventano però certezza, quando ad esempio l’autrice introduce «la pazza di casa», una parte di sé da nascondere e di cui vergognarsi, vittima di attacchi d’ira incomprensibili a cui solo un marito e un padre paziente sembra sapersi contrapporre. O nel momento in cui sostiene che la Trinità, e dunque la perfezione in senso cristiano, si ottenga solo nell’unione tra uomo e donna. Niente spazio ad altre forme d’amore se non quella cosiddetta tradizionale, quindi.
Il quadro diventa però spaventosamente chiaro quando la Miriano si addentra in aneddoti sul passato di persone a lei vicine: come quell’amica cresciuta a «pane e diritto all’emancipazione» e diventata talmente indipendente da spaventare gli uomini e tenere lontano il vero amore. O quella moglie elogiata per aver reagito alla sfuriata di un marito irascibile rifugiandosi nella preghiera. Fino al punto in cui l’aborto è definito come «la più atroce bugia che sia stata detta alle donne», dal momento che siamo state fatte per accogliere la vita, e che la contraccezione, la liberazione sessuale e persino l’educazione al sesso siano una forma di deresponsabilizzazione della società a cui possiamo scegliere di ovviare attraverso la castità, il sesso in funzione procreativa all’interno del matrimonio o, eventualmente, i metodi di contraccezione naturale.
Giudizi pretenziosi si alternano a finte manifestazioni di pietà verso chi ha avuto un passato complesso e che è riuscito a venirne fuori attraverso la preghiera e la cancellazione di ciò che è stato. “Qui è il giusto, lì sta l’errore”, sembra voler dire la Miriano.
Lungi da me polemizzare sulla fede religiosa, che non è questo il punto, qui il problema non è più solo quello che la cultura maschilista sta continuando a diffondere e tenta di insegnare, come in questo caso, ma anche ciò che essa provoca in chi, nonostante gli sforzi e i continui tentativi di sentirsi normale, in quelle categorie precostruite proprio non riesce a stare.
Cosa diciamo a una madre pentita che si sente dire che le donne sono fatte per dare la vita? O a quella che il desiderio di maternità proprio non ce l’ha e non riesce a farselo venire? Cosa diciamo a chi al proprio lavoro non vuole rinunciare nonostante i figli e nonostante la famiglia? O a quegli uomini e a quelle donne che si innamorano di persone del loro stesso e che non trovano spazio in un sistema così definito se non nel campo dell’errore? Chiediamoci davvero cosa passa nella mente di un’adolescente che scopre il desiderio sessuale mentre l’ambiente attorno a sé la vuole casta e innocente. O a un uomo che ha voglia di piangere e che è anche piuttosto stanco di dover essere sempre «il muro della casa», come vuole la Miriano. Chiediamoci quali conseguenze può ancora generare una cultura maschilista e una società patriarcale nelle menti dei più piccoli che si ritrovano a dover combattere tra un’identità in formazione e un ruolo che si impone, nelle vite degli adulti che ogni giorno lottano con giudizi e pregiudizi ignoranti e fuori luogo, nelle esperienze di tutti noi e nelle scelte che facciamo a lavoro e nel privato.
Quello che mi lascia un libro così è tantissima amarezza, un pizzico di paura e anche, se devo essere sincera, la curiosità di conoscere l’opinione di tutte quelle amiche dell’autrice che hanno visto la loro vita spiattellata e giudicata da chi, comunque, quella vita non l’ha vissuta.
Per il resto, riprendo le parole di Michela Murgia: «Di questo libro era meglio l’albero».
Ma è ancora un’amica quella che ti ha regalato questo libro?
Ma scusa non conoscevi l’autrice che nel 2011 ha scritto “Sposati e sii sottomessa”? Male.
Sembra che l’autrice voglia a tutti i costi conciliare una presunta difesa delle donne con il maschilismo soggiacente alla nostra società, maschilismo che così, purtroppo, rimane ineluttabile.
Insomma, il risultato è un avvilente difesa dello status quo.