Articolo di Manuel Carminati
Lo scorso anno ho potuto fare un’utile esperienza nel mondo ospedaliero, un semestre da tirocinante psicologo nell’Unità di Valutazione dell’Alzheimer dell’Ospedale San Paolo di Milano. Il San Paolo è un’imponente struttura costruita a fine anni ’50 che fornisce servizi sanitari di qualsiasi genere nel territorio sud-ovest di Milano e provincia, incluso il servizio ospedaliero carcerario.
In questo ambiente, come in tutti gli ambiti della sanità che ho conosciuto finora, è facile notare un certo trend: per dirla con una battuta, sono “tutte donne” tranne dove sono “tutti uomini”. Non serve molto tempo, infatti, per rendersi conto che quasi tutte le neurologhe e specializzande neurologhe sono donne, così come gli informatori farmaceutici che bazzicano il reparto sono tutti uomini. In altri reparti, avviene l’esatto contrario. I cassieri e i secondini sono solo uomini, ma le infermiere e le pediatre sono quasi solo donne. Le segretarie e chi si occupa delle pulizie sono tutte donne, così come le psicologhe e le psichiatre; e anche tra gli specializzandi e i tirocinanti la predominanza è nettamente femminile. Eppure i primari dei vari reparti sono quasi tutti uomini.
Ma questa è solo la mia esperienza personale, limitata; per questo ho cercato di riassumere delle cifre chiare sulla rappresentazione di genere nel mondo della sanità italiana. Nonostante tutti i professionisti sanitari siano iscritti ad albi, sindacati di settore e associazioni e fondazioni di vario genere, il sito del Ministero non riporta alcun dato che chiarisca i miei dubbi. In quali ambiti vi sono le maggiori disparità uomo-donna? Più precisamente, qual è il peso politico delle donne? Quanti uomini dirigono quei settori della medicina in cui sono palesemente “tutte donne”?
Nella ricerca mi sono imbattuto in una valanga di articoli stereotipati e sessisti. Questo in particolare mi ha colpito perché, come spesso accade, nell’ipotetico tentativo di celebrare una donna per aver ottenuto un risultato più unico che raro — si parla di Tiziana Viora, nominata primaria in Chirurgia Generale, la prima donna in Piemonte e la seconda in tutta Italia, Anno Domini 2017 — ne racconta la carriera come quella di un non-chirurgo. Lei stessa dice:
“il chirurgo generale […] è sempre stato considerato il medico per eccellenza, colui che sapeva aggiustare tutto, dalla testa ai piedi, e che quindi non poteva che essere maschio. Ma oggi un primario, oltre a operare, deve organizzare. Credo di essere stata amata anche per quella capacità, tipicamente femminile, di riuscire a fare più cose assieme.”
Che è come dire che siccome oggi il primario non è più un medico vero ma un medico-segretaria allora possono farlo anche le donne, anzi un po’ meglio una donna che magari non sceglieresti come dottore, ma che “ami” come tuttofare. Cavolo, dottoressa, se infila il bisturi come infila gli stereotipi lei è un medico fenomenale! Ovviamente l’articolo si chiude con il classico paragrafo in cui scopriamo che Viora è “moglie, mamma, medico” (in questo ordine), che deve tantissimo al marito e che ha smesso di fare yoga. Tirate pure un sospiro di sollievo.
Solo due anni prima appariva su Facebook questa lettera aperta della dottoressa Urgesi, medico chirurgo che lamentava la presenza di un’invalicabile difficoltà di accesso per le donne alla sala operatoria e da lì alle posizioni dirigenziali, alle quali ha deciso di rinunciare. Poco valida per accumulare dati certi, ma anche questa testimonianza lascia intendere come un chirurgo donna sembra non poter nemmeno esistere. Basti pensare che l’accesso alla carriera medica è stato davvero impedito alle donne per un certo periodo storico: nell’Italia dell’Ottocento le facoltà di medicina erano riservate ai liceali di ambito scientifico, ma i licei scientifici erano aperti ai soli uomini. Quando i licei furono resi accessibili nel 1873, seguirono comunque decenni di candidature rifiutate e altri respingimenti accademici, oltre a quelli economici e politici.
Un vero e proprio percorso a ostacoli. Ne è un esempio la carriera universitaria di Maria Montessori, la quale dovette seguire due anni di Scienze prima di essere ammessa a Medicina, comunque aiutata da una famiglia piuttosto potente.
Di pari passo alla sottorappresentazione del genere femminile in posizioni apicali, troviamo le differenze di retribuzione. In un sistema statale come il nostro, queste non si esprimono direttamente mentre nel sistema privato americano qui raffigurato sono sconvolgenti e ingiustificate.
Per quanto riguarda l’Italia, dal sito del Ministero della Salute sappiamo che nel 2015 i medici assunti erano 123.255, di cui solo 43.013 donne (poco più di un terzo). Quasi tutti i medici erano a tempo pieno ma dei soli 956 assunti a part-time, ben 873 erano donne. Gli infermieri nel Sistema sanitario nazionale quell’anno erano 279.593, di cui ben 178.596 donne, ma di nuovo tra i 26.740 contratti part-time, quasi tutte sono donne (26.151). Già queste cifre generiche mostrano differenti condizioni economiche e squilibri tra i generi.
Andando oltre, potremmo affermare che questo squilibrio non è soltanto sbagliato, ma anche contrario alla logica dei fatti. Le ricerche sul lavoro ospedaliero, infatti, sono concordi nell’affermare che non solo le donne ottengono risultati indistinguibili da quelli dei colleghi uomini, ma mostrano anche migliori capacità relazionali coi pazienti e coi colleghi rispetto ai maschi, creando un ambiente migliore in cui lavorare e curarsi e permettendo così ai pazienti recuperi migliori e minori ricadute. In questo utile articolo che racchiude molti spunti interessanti e citazioni precise dei dati (sempre dello scenario americano), ritorna forte una proposta già discussa ampiamente in tutti gli ambiti lavorativi: l’estensione e il potenziamento del congedo di maternità e l’introduzione di un equivalente congedo di paternità obbligatorio. Pura fantascienza, nell’unica nazione occidentale, gli USA, che non ha ancora implementato alcuna forma di maternity leave.
Il dato della maternità/paternità ha un ruolo chiave in questo discorso: nel nostro Paese come in buona parte del mondo occidentale, i ruoli dirigenziali nella sanità pubblica, come anche in quella privata, si ottengono attraverso concorsi “crescenti”. Una volta che ci si è laureat* in Medicina, esiste un concorso per ogni passaggio di carriera cui tutt* si sottopongono: specializzazione, assunzione, strutturazione, borse di ricerca. Ovviamente lo stesso vale per i concorsi da dirigente, per i quali i requisiti sono soprattutto l’accumulo di titoli (articoli, pubblicazioni, master, conferenze) e l’anzianità di servizio, mentre l’età non influenza molto il giudizio.
Ipotizziamo allora che si candidino per lo stesso ruolo marito e moglie, con gli stessi titoli e le stesse carriere, coetanei e con un figlio: poiché lei avrà sicuramente dovuto interrompere la sua carriera lavorativa anche solo per i 5 mesi obbligatori per legge, suo marito sarà automaticamente in vantaggio su di lei; viceversa lui, non avendo alcun obbligo né alcuna tutela per sospendere la sua carriera con un congedo di paternità, sarà in vantaggio non solo rispetto a sua moglie ma anche a tutte le donne madri sue coetanee con carriere simili alla sua.
La contemporanea presenza di un obbligo di congedo di maternità senza particoli tutele curriculari e l’assenza di un obbligo di congedo di paternità crea uno squilibrio uomo/donna che si aggrava per ogni figlio e che si ingigantisce a ogni passaggio di carriera.
La migliore raccolta di dati sul passato, presente e futuro delle donne negli ospedali italiani è forse questo articolo della professoressa Adele Mapelli apparso due anni fa su diversity-management.it. In esso si trovano molte cifre che parlano chiaro sul progressivo stabilirsi di una parità di condizioni tanto necessaria quanto lontana dalla realizzazione completa. Colpisce il rapido ma scottante passaggio che Mapelli dedica alle donne in posizioni dirigenziali:
“[…] è ancora lunga la strada delle pari opportunità nei posti di potere. Infatti, le donne che ricoprono incarichi di direttore di struttura complessa sono il 14% (1.272 vs 10.154 uomini) e le donne al comando di una struttura semplice sono 5.267, contro 18.472 uomini (il 28%). Solo il 9% dei Direttori Generali è donna (25 donne contro 273 uomini) e anche raggruppando insieme direttore generale, sanitario, amministrativo e dei servizi sociali non si arriva al 18% delle presenze rosa. Non solo: il 30% delle donne che ricoprono un ruolo importante e di rilievo è single o separata (contro il 10% degli uomini) e una donna medico su tre non ha figli mentre per gli uomini la percentuale si abbassa a circa uno su cinque (13%)” (sic)
Purtroppo i dati citati non rimandano a statistiche precise ma parlano altrettanto chiaro. Cosa pensare quindi del futuro della sanità? Senza facili illusioni e tenendo a mente gli ostacoli soprattutto culturali ed economici che abbiamo visto, ci si deve aspettare un deciso cambio di rotta.
Lo stesso articolo di Mapelli ci aiuta a prevedere un forte cambiamento degli equilibri, partendo da basi anagrafiche e universitarie. Da anni, infatti, in molte facoltà universitarie e in tutte le facoltà sanitarie, sono le donne a iscriversi in maggioranza, a finire gli studi prima degli uomini e con voti più brillanti. Questo è particolarmente vero in medicina e il trend è stabile da almeno un decennio:
“Nella fascia 25-29 anni, il 63% è donna; fra i 30 e i 34 anni lo è il 62,73%, dai 35 ai 39 anni il 62% e sostanziale pareggio nella fascia tra i 40 e i 44 (53%). Per arrivare a una netta maggioranza degli uomini bisogna aspettare la soglia dei 50 anni e nella fascia d’età che va dai 60 ai 69 anni solo il 18,9% dei medici è donna (dati Onaosi 2012).”
Proviamo a riscrivere questa statistica al contrario: se 40 anni fa meno di un medico su cinque era donna, il trend è costantemente cambiato verso una parità di genere, ora persino sostituita da una discreta preponderanza femminile, e questo fenomeno si sta gradualmente verificando in tutte le categorie mediche, anche quelle considerate “maschili” fino a pochi anni fa. Ha tutto un altro effetto così.
Stiamo assistendo a un palese cambiamento della condizione di lavoro: così come gli uomini sono sempre più numerosi in discipline come l’infermieristica e la pedagogia, le donne si stanno intanto ricavando il loro spazio nel settore clinico. Aspettiamo un’inversione di tendenza anche in ambito dirigenziale.