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“Queer Beauties”: l’esordio musicale di Lyre parla di bellezza e fragilità

“Queer Beauties”: l’esordio musicale di Lyre parla di bellezza e fragilità

Lyre è il progetto musicale di Serena Brindisi, già attrice di teatro e performer con un background artistico decennale, che debutta oggi con l’ep “Queer Beauties“, in uscita per Pitch The Noise Records. Disco elettronico, di sperimentazione e ricerca sonora, con “Queer Beauties” Lyre strizza l’occhio alla fanbase di James BlakePortisheadMassive AttackNick Cave, e FKA Twigs.

Con lei abbiamo fatto un viaggio a 360° nel suo nuovo disco, parlato di arte, integrazione e della sua esperienza in Scozia.

Dal teatro alla musica: quando hai capito che il palcoscenico sarebbe stato il tuo “ufficio” e hai deciso di diventare un’artista? Chi ti supporta e ti ha supportata nel tuo percorso?

Ho preso questa decisione consciamente a 18 anni, quando, uscita dal liceo, ho deciso di fare vari provini e sono entrata a far parte di un progetto del teatro Valdoca durato circa un anno, che mi ha segnata profondamente, rinforzando ancora di più questa scelta e questa determinazione e portandomi l’anno successivo a passare il provino per l’accademia Paolo Grassi. Allora, il palco era il luogo in cui mi sentivo più viva, in cui poter sostare, sperimentare, ascoltare, rendermi e arrendermi.

Il palco è il luogo del presente più puro, un luogo in cui da una parte rischi tutto e ti rendi il più vulnerabile possibile, dall’altra, appunto per questo non puoi fare altro che renderti, donare tutto ciò che per te è importante, le parti più profonde di te, e vedere cosa succede. È stato molto pericoloso però quando nella mia vita, a un certo punto, più che “ufficio” era diventato una vera e proprio “casa” o meglio “rifugio”, quasi un grembo. E il fuori, l’esterno, un mondo difficilissimo da gestire e anche un po’ spaventoso. È una cosa che succede a molti attori e molte attrici e performer. Richiede molta cura, concentrazione ed equilibrio l’esporsi, anche perché poi si rischia di implodere, esaurendo le cose da dire, se non si vive in equilibrio anche il fuori.

La mia famiglia ha sempre sostenuto e appoggiato le mie scelte, sono stata molto fortunata in questo. Inoltre, avendo iniziato a ritmo abbastanza spedito, penso si fosse resa conto che per me era una cosa serissima, anche troppo forse. Poi, a livello professionale, le esperienze positive e i riconoscimenti avuti da artist* che stimo sono fondamentali per creare un nucleo forte, che resista a tutte le difficoltà che questo mestiere porta. A partire dalla precarietà costante, soprattutto in Italia. Per la musica il discorso è molto simile. Io ho anche avuto la fortuna, in Scozia, di aver passato un provino che mi ha permesso di accedere direttamente al college e di poter frequentare totalmente gratuitamente il triennio di Pop music, usufruendo dei loro Mac, dei loro microfoni, delle Booth in cui registrare, eccetera. Insomma, un sogno! Ed è stato di enorme supporto per iniziare ad avvicinarmi anche alla produzione. In Italia questa era pura fantascienza. Inoltre, ho potuto studiare e lavorare part time per 4 anni, mantenendomi perfettamente… Lo stato scozzese aiutava enormemente gli studenti.

In questo preciso momento, invece, mi supporta enormemente  la mia pazientissima ragazza, oltre alla mia famiglia, e i primi risultati, che iniziano a uscire dopo anni di lavoro, restituiscono un po’ di energia preziosissima per poter continuare.

Quali insegnamenti preziosi ti ha dato il tuo background di attrice e performer  per affrontare questa nuova avventura con la musica? Qual è la differenza in termini di impegno, skill e caratteristiche tra il mondo teatro e quello della musica? Qual è il consiglio-insegnamento che invece daresti tu ad un*adolescente che vede nel mondo dell’arte il suo futuro?

Sicuramente le basi per la ricerca artistica, nel senso che l’approccio è identico. Affiorano alcuni elementi che sentiamo chiamarci, che richiedono la nostra attenzione perché in qualche modo risuonano con una parte di noi misteriosa e ci sentiamo invogliat* a seguire. Da qui parte la ricerca e pian piano si raccolgono altri elementi, fino ad avere una materia che si vuole indagare sempre di più, in cui immergersi e attendere, prima di darle o meglio scoprirne la forma, per restituire l’esperienza. Che siano dei suoni, delle immagini, dei personaggi, delle musiche, delle qualità di movimento o delle parole, è esattamente lo stesso. Io infatti, più che creazione, la chiamo ricerca artistica perché è un andare a fondo, seguire una necessità, qualcosa che ci farà fare in prima persona un’esperienza che non possiamo pianificare né forzare e da cui sicuramente usciremo cambiat*. Se l’artista in prima persona non viene attraversat* da ciò che fa, non potrà arrivare e attraversare con la sua opera il pubblico e la sua ricerca non avrebbe senso.

Per me una delle differenze enormi, rispetto al fare l’attrice è che ora è come se fossi regista/attrice, sceneggiatrice, organizzatrice/manager e anche tecnico del suono di ciò che faccio avendo un progetto solista da portare avanti, e devo dire che mi manca moltissimo la condivisione e fare tutto da sola a volte è davvero sfiancante, soprattutto rispetto alle cose meno “artistiche”. Non nascondo infatti che non sarebbe affatto male magari incontrare un* musicist* sulla mia stessa lunghezza d’onda che ami il progetto come se fosse suo, con cui creare una collaborazione solida soprattutto per i live. Condividere è una delle cose più belle al mondo.

Nel mondo del teatro avevo solo due compiti, uno meraviglioso (se la regia e il lavoro erano validi) e l’altro tremendo ed ero davvero pessima: il primo era fare bene il mio lavoro di attrice e donarmi al massimo. Il secondo riguardava le public relations per trovare provini, per esempio, ma devo dire che non l’ho mai fatto bene e diciamo che il mio carattere non mi ha aiutata. Anzi, all’inizio non capivo proprio e alla fine c’ho rinunciato e ho deciso di concentrarmi solo sul primo punto.

A livello di skill, il teatro richiede una grande energia e preparazione fisica per riuscire a lavorare per tante ore di seguito a ritmi elevatissimi per periodi concentrati. Si prova e si crea uno spettacolo, se va bene, per 2/3 mesi a ritmi serratissimi e poi si va in scena. Sono immersioni totali a cui possono seguire periodi di vuoto cosmico, in cui non entra nessun lavoro. Come attrice non ero autonoma, senza un regista, una compagnia e uno spazio, potevo fare ben poco perché so e sapevo benissimo di non voler essere un’attrice regista, solista, ma adoravo darmi completamente, avendo degli occhi addosso che mi permettessero di non dovermi preoccupare del risultato. Come musicista e songwriter, invece, sono libera e questa è una cosa che amo e di cui avevo bisogno. Non dover dipendere da nessuno per poter portare avanti la mia ricerca, almeno in fase di scrittura e composizione. Sarebbe un sogno, poi, se un giorno potessi permettermi di declinare tutto ciò che non riguarda gli aspetti musicali, a qualcun* altr*.

Il consiglio che mi sento di dare è di non dimenticare mai che ciò che davvero conta e che non deve essere inquinata è la motivazione, la necessità che ci spinge a fare una scelta simile. Deve essere una necessità a mio avviso, addirittura forse “una vocazione”, perché solo con una forte motivazione si riescono a superare i momenti difficili che purtroppo possono portare scelte professionali del genere, soprattutto in un paese come l’Italia, in cui queste professioni vengono per lo più derise o guardate con sospetto, come qualcosa di poco serio, come degli hobby. Ah, e l’altra cosa è di non fare affidamento sulla meritocrazia: fare sempre il meglio che si può e nel modo più autentico e onesto possibile – e sicuramente ritorneranno cose preziosissime da questo approccio, cose che non ci aspettiamo e che potrebbero non corrispondere con ciò che pensavamo – ma non fare affidamento su un’idea di merito, perché, sinceramente, non sono sicura che possa esistere in questo sistema economico e in questo Paese, che ha un problema enorme con la cultura. Consiglio quindi di valorizzare al massimo il presente, le esperienze, le sfumature e difendere sempre le cose fragili e preziose, che spesso sono il nucleo di ciò che conta davvero! E seguire le strade che si aprono, mettersi in gioco, spostarsi se si sente stretto il luogo in cui si abita, viaggiare e scoprire nuovi mondi per permettere nuovi incontri che ci aprano la mente.

“Queer Beauties”, il tuo debutto, esce oggi: partendo dal titolo, ci parli di questo tuo ep? Di cosa parlano le canzoni? Qual è il filo conduttore e quali sono le ispirazioni che ti hanno accompagnata nella sua produzione? Musicalmente, invece, com’è stato composto?

Le “Queer Beauties” per me sono e sono state delle rivelazioni molto importanti, che accadono nel picco massimo di un innamoramento, nella tensione più profonda del desiderio o anche semplicemente nel tempo sospeso di uno sguardo di curiosità o di attrazione. Sono stata sempre estremamente attratta dalle apparenti dissonanze e dai contrasti nascosti nei corpi, dal doppio, maschile e femminile che vive in tutti noi e dal modo in cui copriamo e cerchiamo di nascondere le nostre ferite creando corazze imponenti, affascinanti e a volte estremamente eleganti. Ma nel momento in cui qualcosa fa breccia nell’armatura, come uno sguardo, o uno scatto, allora si rivela in parte quella che il fotografo Mustafa Sabbagh, da cui ho tratto molta ispirazione per il video del singolo “Broken Flowers“, definisce “Hurting Beauty” la bellezza che ferisce. In quel momento si intravede una verità, una nudità, un vissuto, una fragilità disarmanti. Avviene una sorta di resa, qualcosa cede, cade, svela. Perché è come se lo sguardo riuscisse a fare breccia e a creare una crepa in questi corpi corazzati.

Nella mia memoria, proprio come divinità antiche, queste bellezze svelate, violente e ambigue, col tempo si tramutano in specchi, in cui ritrovare la propria immagine riflessa da mille angolature. In cui ri-conoscersi ogni giorno.

L’aggettivo “queer” inoltre, è usato sia per il suo significato di “strambo, dissonante…”  che  provocatoriamente descrive i corpi e le anime di cui ho parlato e che mi attirano di più, ma anche questi brani, il loro suono e la loro struttura, e per il suo riferirsi a bellezze del mondo “Queer”, di cui faccio parte da sempre, che ho abitato e vissuto, e in cui ho imparato ad esprimere ogni parte di me e a gioire delle mille sfaccettature che possono emergere nel momento in cui ci si libera delle gabbie interiori che ci vogliono sempre “ definire” e che portiamo dentro fin dall’infanzia.

Il filo conduttore appunto, l’ “evento” usando un termine teatrale è in un certo senso questa “resa”, il momento in cui accade qualcosa che permette ai personaggi descritti nei brani di far cadere un pezzo di armatura e rivelare, insieme alla loro fragilità, la loro bellezza più profonda. Queste Queer Beauties. In “Embers“, la voce narrante è come una voce adolescente o di una donna che ritorna adolescente, e che, incantata dagli occhi della donna che desidera, cede a ogni gabbia interiore, si arrende e si rende completamente per seguire ciò che deve seguire. In “Mirrors“, la voce narrante si arrende all’impossibilità di un amore, alla lontananza imposta dall’amata, alla sua solitudine. “Dorothy” è ispirata a una signora anziana che veniva ogni giorno al caffè in cui ho lavorato a Edimburgo, e che si rifugiava nell’alcol e nella compagnia di noi cuoch* e camerier*, in particolare di Alex, un ragazzo con cui cantava per ore brani tratti da “The sound of music”, dopo aver bevuto un pò di prosecchi. Al suo 85esimo compleanno abbiamo organizzato una piccola festa e lei si è messa una giacca incredibile, dorata e piena di paillettes. Era bellissima. Ho sempre pensato che potesse essere in realtà Marylin Monroe, che, avendo finto il suicidio, si fosse rifugiata a Edimburgo. E glielo dicevo sempre e scherzavamo molto su questo. L’immagine di lei elegantissima, con un bicchiere di prosecco in mano, che canta all’infinito con Alex, presissima, totalmente inconsapevole del contesto, mi ha colpita molto. Nel suo cantare, c’era sempre una sensazione di resa, il suo sguardo si perdeva in mondi lontani e diventava magnetica. Il suo canto, il suo rendersi, è l’evento di questo brano.

Nell’ultimo, “Broken Flowers“, è come se la voce narrante inseguisse una divinità bellissima e spietata, che la tiene sempre in pugno, la seduce e scappa di continuo e non concede mai la grazia. Si arrende a questa sorta di incantesimo, a questo destino di caccia impossibile dettata da un desiderio profondo che comporterà cadute necessarie. In realtà, però, questa sorta di ricerca infinita mai soddisfatta e questa resa infinita è ciò che le permette di avvicinarsi sempre di più alla sua parte più pura, è il fondamento della ricerca artistica più autentica. Uno stato costante di innamoramento.

Rispetto alla produzione musicale, portata avanti con Giuliano Pasco, posso dire che Arca, Fka Twigs e Bjork sono stati tra i nomi che abbiamo pronunciato più frequentemente quando volevamo descrivere delle atmosfere o delle caratteristiche sonore che, di comune accordo, volevamo introdurre nei brani. Quindi la manipolazione del suono è stata centrale nel lavoro di Giuliano. Per me le atmosfere comunque sono tutto. Ogni brano deve avere un mondo sonoro preciso, deve diventare un luogo in cui potersi perdere completamente. Nella fase di missaggio inoltre ho richiesto esplicitamente ad Antonio Polidoro che la voce fosse portata davanti con caratteristiche simili al brano “Paper Bag” dei Goldfrapp in alcune tracce come “Dorothy” e “Broken Flowers“, cosa molto complessa da gestire quando si hanno produzioni musicali così estreme e piene di effetti e suoni processati.

Musicalmente “Queer Beauties” è caratterizzato spesso da progressioni di accordi aperte, nel senso che amo molto quelle armonie caratterizzate da una tensione costante dovuta all’ambiguità di alcuni accordi che continuano a cambiare da maggiori a minori all’interno di una stessa frase o accordi, sospendendo il brano per molto tempo prima di arrivare a una chiusura e omettendo le note che ne definiscono di più il colore, tipo le terze o modificandole subito nell’accordo successivo. I Radiohead sono maestri in questo, ma anche James Blake (basti sentire come ha armonizzato la cover di “Come as you are” dei Nirvana, per sognare…) o i Blonde Redhead e molt* altr* artist*. Lo si può notare nell’ultimo accordo nella progressione dei versi di “Dorothy“, o nell’intermezzo di “Mirrors“, che però non ho composto io, ma il mio caro amico produttore Fred Dimitrov, che me l’ha donata e che ringrazio tantissimo. In “Embers“, sempre nei versi ho giocato molto con una scala piena di cromatismi, ricordando forse influenze più dei Portishead o dei Glodfrapp degli inizi. In “Broken Flowers” invece volevo essere più secca, usare una scala pentatonica minore semplice per poi invece aprire nei chorus con delle progressioni più complesse e sfogarmi nell’intermezzo a livello – appunto – di ambiguità armonica. Lo stacco dell’intermezzo di “Broken Flowers” prima del secondo chorus, infatti, a posteriori mi ricorda un po’ (solo a livello armonico, dico) uno degli intermezzi del brano “Paranoid Android” dei Radiohead. Ovviamente non sono cose che ho pianificato quanto piuttosto una sorta di “restituzioni” spontanee agli artisti e le artiste che con le loro armonie mi hanno toccata di più. Insomma, sono i colori che ho sentito più miei e ho voluto imparare a conoscere più approfonditamente.

A livello ritmico inoltre “Queer Beauties” è caratterizzato spesso da accenti in levare, sempre ambiguità metriche (“Dorothy” sembra iniziare in 6/8, ma poi il beat entra in 4/4 nel chorus spostando tutto) Tempi dispari (“Mirrors” è in 7/4, un metro che amo e mi ha fatto conoscere PJ Harvey inizialmente). Insomma, è un ep un po’ storto e “strambo” (che è appunto un altro significato di “Queer”) anche dal punto di vista compositivo.

Sul comunicato stampa di lancio, si legge che il disco piacerà ai fan di James Blake, Portishead, Massive Attack e Nick Cave, ma anche di FKA Twigs e Arca: qual è il target di persone che ti piacerebbe conquistare al di là dei loro gusti musicali?

Beh, sinceramente, non ho un target predefinito e spero di poter arrivare a più persone possibili. O meglio, spero di aumentare le possibilità di venire trovata, conosciuta e ascoltata da persone con una sensibilità musicale ed estetica affine, che possano apprezzare il progetto ed essere arricchit* in qualche modo.

Edimburgo VS Milano: quali sono i tre aspetti della Scozia che ami e tre aspetti di Milano che invece non sopporti?

Allora, rispondo senza pensarci troppo, un po’ di getto. I tre aspetti di Edimburgo che amo sono:

  1. La cultura dei caffè: il fatto che ovunque troverai un caffè dove poter sostare per ore al caldo anche bevendo solo un tè e dove trovare altre persone che come te leggono, studiano o lavorano. La città è piena di rifugi silenziosi stupendi con musica di sottofondo di livello altissimo e di compagn* di silenzio e studio.
  2. Camminare per la città di Edimburgo piena di verde e prendere i bus doppi che sfociano su New Heaven o Portobello per camminare vicino al mare nordico.
  3. Il silenzio e la calma: le radio micidiali nei bar comuni e il fatto che non esista quella cultura che ho descritto nel punto 1. A Milano ci sono pochi posti così e diventano subito “Coworking spaces” il che mi intimidisce perché sembra una cosa speciale e cool, mentre li è del tutto normale e accade ovunque senza doverlo puntualizzare.

Di Milano poi non amo l’inquinamento e il grigiore e il modo in cui si viene studiate o guardate subito con giudizio, ma senza curiosità vera. Mi spiego: a Edimburgo c’è più distanza e spesso questa distanza è creata o tramite la gentilezza o tramite l’assenza di sguardi diretti. Ad esempio, quando si entra in un bus si ringrazia il conducente e così quando si esce. E così in ogni luogo è come se prima degli sguardi venisse la legge della gentilezza, la distanza. Per certi versi potrebbe sembrare folle ed è stata, a lungo andare, anche una cosa paralizzante perché è come se, da un certo punto di vista, fosse molto più difficile entrare in contatto profondo. Però in realtà, nel quotidiano, l’ho amata da morire quella distanza e ne avevo tanto bisogno. Il poter uscire in pigiama se avessi voluto, il poter essere libera dagli sguardi e un po’ invisibile per stare sola in armonia. Per non parlare dell’essere libera dagli sguardi e dagli “apprezzamenti” maschili molto di più se vuoi uscire o passeggiare da sola di sera, ma questo è un altro discorso… La natura nordica invece è molto presente e molto forte.

Parliamo di italian* all’estero e più in generale di integrazione: dalla tua esperienza, quali sono le cose da fare/non fare, quali sono gli atteggiamenti da tenere e quali da evitare per inserirsi e stare in un Paese diverso dal proprio? E invece, cosa – sempre in base a quello che hai vissuto – sarebbe bello che chi si sposta in un’altra Nazione trovasse in termini di strutture e approccio?

  1. Non andare a vivere subito con persone italiane o meglio cercare davvero di immergersi il più possibile nella lingua del luogo: punto fondamentale.
  2. I primi giorni occorre studiare bene come funziona il luogo in cui ci si è trasferiti. È fondamentale. Quindi farsi una lista e capire cosa un* cittadin* deve assolutamente avere per poter lavorare, fare abbonamenti ai mezzi, ricevere cure, aprire un conto, eccetera. Studiare sui vari siti e procurarsi tutte queste cose noiose, magari iscriversi a qualche gruppo sui social di persone straniere come te aiuta tantissimo. È bellissimo perché nasce una grande solidarietà tra persone straniere oltre che una grande curiosità di conoscere altre culture…
  3. Essere apert* sempre e fregarsene di fare delle figuracce: non si ha nulla da perdere perché nessuno ti conosce. È stupendo perché puoi scoprire anche degli aspetti nuovi della tua personalità! Perdersi nelle città, scoprirle e ascoltarle: quando si è in questo stato bellissimo, le cose poi accadono da sé.
  4. Ascoltare, ascoltare, ascoltare e osservare come le persone si relazionano tra di loro, quando si salutano, eccetera, per evitare di essere troppo “dirett*” o di porsi in un modo che per le persone del luogo possa risultare troppo “strong” o maleducato, pur non volendo (parlo purtroppo per esperienza personale…).
  5. Ci saranno momenti di grande solitudine, ma anche momenti di grandi scoperte, quindi è importante tenere duro i primi mesi, che sono i più difficili ma che portano poi a grandi soddisfazioni.
  6. Non preoccuparsi di cambiare mille lavori e mille case, soprattutto all’inizio quando bisogna capire dove poter stare bene.

Poi sinceramente penso che ogni Paese sia diverso, ogni persona sia diversa, con una storia diversa, e non mi sento perciò di aggiungere altro.

Mentre, rispetto all’approccio e alle strutture io sono stata fortunatissima in Scozia (realtà molto diversa dall’Inghilterra) e penso che sarebbe già bellissimo se ovunque chiunque potesse trovare ciò che ho trovato io. Avrei anche potuto richiedere la cittadinanza. perché allora, dopo cinque anni di lavoro o studio e residenza ne avevi il diritto. Pensate che cosa incredibile rispetto all’Italia! In realtà avevo iniziato la pratica proprio prima di trasferirmi a Milano a causa della Brexit (a cui ovviamente la Scozia era contraria), ma poi non l’ho portata a termine per vari motivi. Inoltre, anche non parlando benissimo l’inglese, non è stato affatto difficile trovare subito lavoro ed è quasi impossibile farlo in nero. La città era piena di “job centers” in cui poter cercare tutte le informazioni possibili e si ha anche diritto a richiedere un interprete quando si compilano i primi documenti. Mentre sei disoccupat*, inoltre, hai molte agevolazioni e puoi formarti in vari corsi gratuiti di valore. Poi, come ho già raccontato, ho potuto studiare in modo completamente gratuito al college.

See Also

Sarebbe già una rivoluzione totale se questo tipo di approccio esistesse in Italia, per le persone che vengono da altri Paesi.

Ci regali una playlist di dodici tuoi pezzi preferiti che ci possa accompagnare i questi nuovo anno?

Arca – Riquiquì

Fka twigs – Home With You

Son lux – Last Light

Woodkid – Goliath

Goldfrapp – Paper Bag

Portishead – We Carry On

Sevdaliza – Human

Diamond Galas – Supplica a mia madre

Bjork – Desired Constallation

Blonde Redhead – The One I Love

Sinead o’Connor – Fire On Babylon

FDR – Gravity

La potete ascoltare qui.