Sono autistico, l’ho scoperto a 27 anni.
Dire “L’ho scoperto grazie al femminismo” non è uno slogan, un claim pubblicitario, ma è un dato di fatto. Se non mi fossi avvicinato agli studi femministi, oggi non sarei arrivato ad una diagnosi.
Questo articolo non vuole essere un reportage della vita di un individuo, la cui esperienza è singola e irripetibile, ma la riflessione sui risvolti pratici e concreti del pensiero e della filosofia femminista. In particolare, della corrente che caratterizza questo tempo: il femminismo intersezionale.
Spesso si parla del femminismo (e delle femministe in particolare) come un estremismo, sottintendendo che l’obiettivo di questo movimento-filosofia sia in qualche modo irrealizzabile, ideale, utopico, e chi lo persegue pertanto sia unǝ ingenuǝ invasatǝ. In qualche modo ǝ femministǝ sono vistǝ come persone che disturbano l’ordine costituito per un obiettivo talmente lontano da essere irraggiungibile e talmente alto da essere utopico. Oggi invece vorrei mostrare quanto il risvolto del pensiero e della pratica femministe si proiettino nel quotidiano e nel pratico, nella pragmaticità della vita di tuttǝ e di ciascunǝ.
Intersezionalità è un termine coniato da Kimberlé Crenshaw nel 1991 ed è in sé estremamente concreto, perché parte dalla descrizione di una discriminazione precisa e tangibile – quella delle donne nere in relazione all’ambito giudiziario negli USA – per poi, partendo da essa, disegnare un concetto che rappresenti questa capacità, intenzionalità e pratica di intersecare le lotte – che non significa unirle, ma essere presenti per tutte le lotte, non solo per quella che ci coinvolge direttamente, non solo per quella più visibile al momento, non solo per quella che ci posiziona. Praticare l’intersezionalità non significa promuovere una gerarchia di discriminazioni, a cui viene assegnato un punteggio come in una specie di competizione perversa. Al contrario, significa riflettere – in senso metaforico ma anche letterale. Perché quando il fascio di luce della visibilità investe un individuo, un gruppo, una collettività che pratica l’intersezionalità, questo fascio sarà riflesso verso spazi più bui. Non perché questi ultimi spazi siano più o meno importanti, non si parla di gerarchie ma di una democrazia della luce.
E così, è proprio nella cosiddetta bolla femminista che ho sentito per la prima volta parlare persone autistiche, che esponendosi mi hanno tolto dall’ignoranza e dalla rappresentazione mainstream della persona nello spettro autistico: incapace di mostrare emozioni, solitaria, spesso con ritardo cognitivo, piena di tic e ossessioni. Esporsi, mostrare che ci sono tanti modalità di essere persone autistiche, significa semplicemente operare un cambiamento culturale che dà nuove immagini, nuove storie e nuove rappresentazioni; se sempre più persone con neurodivergenze entrassero nello spazio pubblico in modo consapevole, allora questa nuova rappresentazione, queste nuove informazioni si potrebbero diffondere e alla fine, proprio nel pratico, aiutare a rendere le diagnosi più facili, più veloci, anticiparle. Perché vivere senza una diagnosi può essere più o meno faticoso a seconda dei casi, ma spesso invalida il sentire della persona, le emozioni che prova e i disagi che vive.
Quindi quando si parla di intersezionalità si parla di spazio perché, alla fine, ogni nuovo spazio illuminato è un nuovo spazio che entra nel dibattito e che quindi assume una voce propria. Questo permette di ampliare la conoscenza, e di portare alla luce i vissuti, le storie e in ultimo le discriminazioni che si vivono nel buio. Soprattutto, permette effettivamente ed efficacemente di cambiare la società. Per rendere più vivida questa riflessione vorrei utilizzare le frasi che mi sono state dette quando ho comunicato questa novità alle persone vicine a me.
Una reazione è stata di paura per me in relazione al giudizio sociale: il tipico “ti consiglio di tenertelo per te e non dirlo in giro. Non sai cosa può pensare la gente.” Sinceramente, in effetti, non riesco a immaginare a cosa possa pensare la gente. Mi sono accorto però che i molte persone hanno immaginari molto limitati sull’autismo, quindi semplicemente espormi, mostrarmi, è già – nella mia opinione – dare un contributo perché offro un’immagine nuova, nuove informazioni alla voce autismo. Si può essere autistici in tanti modi e io sono uno di questi. Io sono autistico, ma sono anche tante altre cose, comunque. Si applica qui circa la stessa riflessione che si può fare sul coming out riguardante il proprio orientamento sessuale o identità di genere. Non è una cosa obbligata, comporta delle responsabilità e bisogna essere prontǝ a rispondere a situazioni che potrebbero crearsi e che possono richiedere un impegno emotivo, psicologico, fisico. Fare coming out significa sostanzialmente fare del proprio essere una questione politica, proiettare il proprio intimo e privato nel pubblico, perché appunto il privato è politico e non a caso questo è uno dei pilastri del femminismo – o quantomeno uno di quelli su cui si poggia il femminismo intersezionale. Fare coming out significa autorizzarci a occupare lo spazio – in un primo momento solo a livello simbolico – senza limiti, limpidamente, senza doverci conformare, senza dover prendere una forma data dall’esterno ma occupandolo con la nostra forma autentica. Da qui si parte per poi occupare sempre di più anche lo spazio pubblico e di dibattito: è una proiezione simbolica ed epistemica di un nuovo linguaggio, di un nuovo discorso che resiste alle narrazioni dominanti e libera tuttǝ. Una delle manifestazioni più plastiche di questo processo è costituita dai Pride: cosa sono i Pride se non occupazione dello spazio pubblico da parte di chi è statǝ sempre oscuratǝ, nascostǝ, zittitǝ, invisibilizzatǝ? I Pride sono rituali di rivendicazione non violenta, ma simbolica, di uno spazio che è sì reale – le strade, le piazze, i parchi che spesso sono il luogo della discriminazione e del pericolo per gli esclusi dalla società – ma anche epistemico: riprendere possesso della narrazione, del racconto, esporsi per cambiare il discorso. Questo perlomento è l’obiettivo. La riuscita è fallibile e sempre migliorabile, nel tentativo di essere sempre più inclusivǝ e sempre meno egoriferitǝ ma apertiǝal dialogo e alla critica. In ogni caso, fare coming out – in ogni forma – non è facile: non si può essere così ingenuǝ da dire che il pensiero della gente non deve interessarci perché spesso il pensiero si traduce in azioni discriminatorie e violente; la paura è quindi un sentimento valido quando si accede a uno spazio inospitale e soprattutto un’espressione di amore comprensibile da parte di chi non è interessatǝ da questo passaggio in prima persona ma solo in quanto spettatorǝ. La paura non è in sé un ostacolo ma un segnale per fermarsi a riflettere su quanto di sé si vuole investire in questa lotta. Perché avere una neurodivergenza – come può essere una disabilità, un disturbo psichiatrico – o fare qualsiasi altro tipo di coming out quando lo si potrebbe omettere, è un atto politico con tutte le conseguenze che ne derivano. Non è un atto dovuto.
La seconda reazione da cui vorrei prendere spunto è, secondo me, molto interessante e stimolante, e bene si lega a quella precedente. Una persona molto vicina mi ha detto: “ora devi studiare, perché così poi puoi spiegarlo bene”. Questa semplice frase mi ha fatto comprendere la responsabilità anche pedagogica che ci si assume nel momento in cui si decide di entrare nel dibattito, produrre nuovi discorsi, nuove narrazioni, allargare l’immaginario, costruire nuove strade, nuovi approcci, nuovi legami. Portare la propria esperienza non basta, perché è appunta singola e mai generalizzabile. Perché da questa esperienza possa scaturire un’azione politica efficace deve essere posta in relazione a una conoscenza, una ricerca e uno studio continuo. Infatti, se è vero che fare coming out come persona neurodivergente è di per sé un atto politico, perché già il proprio essere offre una nuova rappresentazione, è pur vero che per entrare nel dibattito e arricchirlo bisogna effettivamente studiare, essere informatǝ. Non basta essere autisticǝ per essere espertǝ di autismo, di politiche e pratiche, del dibattito già in corso e della storia di tale dibattito. E allora per contribuire attivamente ad un progresso nell’accesso ai diritti, nella rappresentazione pubblica bisogna avere gli strumenti per spiegare le proprie ragioni, sostenerle e diffonderle in modo efficace. E questo non si può improvvisare ma si può imparare. Come non è un atto dovuto fare coming out, anche diventare attivistǝ non è imperativo. È una scelta che porta con sé un impegno per se stessǝ e una responsabilità verso ǝ altrǝ.
L’ultima reazione credo sia la più bella e quella che forse più consiglio se mai vi trovaste nella situazione di accogliere un coming out: “sono felice che tu me l’abbia detto, ma sono anche prontǝ a empatizzare con qualsiasi emozione tu stia provando”. Non credo ci sia molto bisogno di filosofeggiare su questa semplice frase che tiene dentro il rispetto, l’ascolto, l’umiltà ma anche la tensione verso l’altro, l’accoglienza, il calore, l’amore.
In questa riflessione ho spesso intrecciato termini che solitamente sono riferiti alla comunità LGBTQIA+ come coming out a una situazione differente, alla disabilità o neurodivergenza: questo perché credo che nel femminismo intersezionale la comunità che è alla base di questo movimento-filosofia sia in continua espansione proprio per quel processo di riflessione della luce di cui sopra. Per descrivere questa comunità che vive nel buio ma che sta emergendo grazie alla collaborazione, al mutualismo e alla sorellanza, potremmo riprendere un’espressione del filosofo Deridda – che la utilizza in tutt’altro contesto – che trovo particolarmente efficace: un deserto brulicante di persone. Uno spazio descritto come morto e infruttuoso, uno spazio al limite, periferico rispetto al centro – al potere costituito, al confine. È proprio questa esistenza liminale, secondo l’antropologa Mary Douglas, che dà il potere – magico – di riplasmare la realtà, di generare dal buio e in ultimo di sovvertire l’ordine. Una comunità quindi che non teme l’incertezza, l’ambivalenza, il fallimento della ragione, ma che abita l’esperienza piena dell’esistenza nel limite – un’esistenza appunto magica, e capace di trasformare l’immaginario in reale. È vero dunque che le femministe sono idealiste, ma padroneggiando l’arte della magia, possono rendere questa idea una realtà.