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Taylor Swift nella sua white feminist era

Taylor Swift nella sua white feminist era

In giro qualcuno ipotizza che questo sia il mondo di Taylor Swift e noi ci stiamo solo vivendo dentro. Recentemente dichiarata donna dell’anno dal Time, la prima artista con un milione di ascolti streaming al mese e con un tour capace di risollevare il pil degli Stati Uniti, Taylor Swift è innegabilmente un fenomeno della musica pop e un modello per coloro che cercano di stare a galla nell’industria musicale. Ma non è tutto oro ciò che luccica e in questo caso è una donna bianca privilegiata. Tra le tante accuse rivoltele, a partire dall’abuso del suo jet privato, quelle più interessanti ruotano intorno alla sua adesione alle lotte femministe intersezionali. Il suo impegno sociale viene definito gentilmente come blando, ma per molti è solo parte di una strategia di marketing orientata, come ogni mossa dell’artista, alla valorizzazione della sua persona e quindi del suo brand. La musica viene prodotta per raggiungere il più alto numero di ascoltatori, e consumatori, possibile e l’esporsi su alcuni temi permette di allargare il bacino di utenza. Parafrasando Wikipedia, l’attivismo performativo è quello praticato in virtù del beneficio del proprio capitale sociale piuttosto che della causa in questione (1). Miss Americana, Lover e The Man, la controversia con Nicki Minaj, la relazione con il frontman della band 1975 fanno parte di una profonda lore i cui contenuti si moltiplicano quotidianamente su Tik Tok, probabilmente restando sconosciuti ai più che hanno aperto questo articolo. Come per ogni storia quindi è doveroso iniziare dal principio. 

Taylor Swift nasce il 13 dicembre 1989 a West Reading, Pennsylvania. I genitori, Andrea Swift e Scott Kingsley Swift, occupano entrambi posizioni di rilievo nel campo del management. Fin dal primo momento la sua persona viene investita di attenzioni tali da poterla rendere più vendibile sul mercato. E come per ogni marchio tutto inizia dal nome, scelto dalla madre in quanto la sua neutralità poteva rappresentare un vantaggio nel mondo del lavoro. A dodici anni inizia a collaborare con una casa discografica per imparare le tecniche del songwriting. Con lei, tutta la sua famiglia, si trasferisce a Nashville e il padre diventa uno degli azionisti della Big Machine Records, permettendole così di registrare il suo primo album da solista. La carriera di Taylor Swift è intrinsecamente legata a un retroscena borghese bianco. Sebbene questo non svaluti i suoi meriti, Taylor Swift ha continuato a costruire la sua immagine dissimulando la sua posizione di privilegio. La narrazione delle sue insicurezze, della sua infanzia e della sua adolescenza outcast ha reso più facile l’immedesimazione con la sua coming-of-age story. Se da un lato bisogna riconoscere aə artistə una libertà tale da poter dipingere se stessə e il loro mondo come desiderano, allo stesso tempo questo non lə rende immuni da ogni critica. E se, come nel caso di Taylor Swift, il successo viene mantenuto grazie  all’engagement emotivo che riesce a creare con i fan tramite canzoni vendute e acquistate come frammenti della sua vita personale, allora le modalità con cui tale narrazione avviene, le omissioni, gli strafalcioni, certamente rivelano ben poco su chi sia davvero Taylor Swift, ma molto su chi voglia cercare di essere. 

Nascondere la forte influenza neoliberale dietro il cliché della ragazza che si è fatta da sola, celebrando l’impegno individuale come garanzia di successo e negando il sistema di strutture di potere che genera e si nutre di iniquità sociale, è sbagliato? Al di là dell’eticità, i cui confini sono sempre molto labili e personali, la sua credibilità ne avrebbe, a lungo termine, risentito. Siamo nell’autunno del 2014: tutti su Tumblr hanno i capelli blu e nei negozi vanno sold out dei leggings con delle improbabili stampe di galassie. Taylor Swift pubblica 1989 e inizia la sua scalata di donna indipendente, la naturale evoluzione della sedicenne che lavora sodo per conquistare i suoi sogni. Confermando le sue doti di analisi del mercato, capta una nuova tendenza che si sarebbe evoluta nel tempo, radicalizzandosi con l’avvento della Generazione Z sui nuovi social media: un’attenzione sempre maggiore ai temi del sociale. Taylor Swift aveva bisogno di uno scudo per difendersi da ogni accusa ed il white feminism le ha teso la mano

“Welcome to New York, it’s been waiting for you”: così una voce acuta passata al vocoder apre la traccia introduttiva del nuovo album.  La sua transizione verso il pop coincide con una a livello di immaginario altrettanto potente. Se fino ad adesso Taylor aveva personificato l’idea di ragazza alla mano, simpatica ma non eccessiva, romantica ma non volgare, perfettamente in linea con il modello di femminilità cristiana, ora la musica cambia, letteralmente. Taylor Swift sembra ricostruire la sua identità proprio a partire dall’aderenza al suo genere di “donna”, ma nel farlo non riesce ad abbandonare le sue origini bianche e privilegiate né tantomeno i valori neoliberali. Tra questi la necessità di riformarsi, di cambiare per sopravvivere ai “tempi che cambiano”. La paura di essere dimenticata si sovrappone a quella di non sapersi più vendere. La personalità viene mercificata per stare al ritmo del mercato. L’estetica ad essa legata si nutre di oggetti, vestiti che la rappresentano e nutre a sua volta la macchina capitalista. Nuovamente tutto il focus viene spinto sull’individuo e in quella che sembra essere una lotta per la sopravvivenza non c’è spazio per discutere dei problemi socio-economici strutturali. Un blazer argentato e gli occhiali a specchio tengono tutti distratti e ricordano che la ricerca dell’indipendenza è fondamentale per ogni ragazza, semplificando sotto ogni punto di vista questioni di classe e di razza. Per white feminism si intende proprio quel tipo di femminismo che aderisce a valori bianchi e, tipicamente, neoliberali tali da ignorare forme di oppressione diverse (2). L’incapacità di mettere in discussione un intero sistema rende il femminismo preda di facili richieste e proteste che non perseguono il bene comune bensì quello della donna bianca x, ricalcando il modus operandi del sistema individualistico capitalista e patriarcale. Piuttosto che un terreno di confronto, il femminismo diventa una recinzione entro la quale sembra legittimo proteggersi da dinamiche misogine, come la strumentalizzazione mediatica della propria vita sentimentale, ma anche uno spazio in cui riprodurre meccanismi patriarcali al sicuro da ogni contestazione. 

La torre di avorio in cui Taylor Swift si chiude però non è mai stata così luminosa. Il pop ha un incredibile potere normalizzante di alcune sonorità e alcuni messaggi. Così come i Beatles avevano contribuito a rendere più europeo e, in fondo accettabile, il rock and roll afroamericano, così Taylor Swift non può che inscrivere la bibbia del white feminism in melodie catchy. La vicenda del VMA del 2015 sintetizza perfettamente il problema. Nicki Minaj si scaglia contro MTV per aver escluso da alcune categorie il suo video Anaconda, il quale aveva superato ogni record nelle prime ore dalla pubblicazione. In particolare la rapper americana faceva presente l’esclusione sistematica di alcuni corpi, ovvero quelli che non in linea con gli standard di magrezza e bianchezza caucasici. Taylor Swift, concorrente ai VMA con Bad Blood, risponde criticando la mancanza di sisterhood dietro le parole della Minaj e suggerendo che forse il suo posto tra i nominati era stato preso da un uomo. Ricondurre ogni tentativo di presa di parola di un’altra donna, in una posizione peraltro non privilegiata in quanto appartenente a una minoranza discriminata, alla mancanza di solidarietà tra donne esemplifica le modalità tossiche con le quali il white feminism si muove e avvelena il discorso pubblico intorno a questioni importanti per il movimento. Il fatto che a prendere il posto di un uomo bianco sia una donna bianca non indica di per sé alcun miglioramento, se le regole del gioco continuano sempre ad essere le stesse e casualmente volgono a favore di chi è già in vantaggio. 

E poi il 2016, la faida con la coppia Kardashian-West, #TaylorSwiftisoverparty, Calvin Harris, il Met Gala con i capelli decolorati e infine la sparizione. Taylor Swift viene rivista nell’agosto 2017 in un tribunale per testimoniare contro il DJ David Mueller accusato di molestie sessuali risalenti al 2013. Lui a sua volta denuncia l’artista per diffamazione, perdendo infine la causa: il rimborso viene fissato simbolicamente per un dollaro e Taylor Swift dichiara in quell’occasione la volontà di supportare le associazioni in aiuto delle vittime di violenza. In quello stesso anno l’album Reputation si fa strada in un’America segnata dai discorsi misogini di Trump, e non arriva lontano. Miss Americana, il documentario uscito su Netflix nel 2020, cerca di restituire l’autenticità alla figura di Taylor Swift ormai offuscata totalmente dalle accuse di manipolazione della sua immagine e del suo fandom. A tale scopo, nel film vengono spiegati le logiche dell’industria musicale tali da condurre le artiste donne in particolare a doversi continuamente reinventare. Il femminismo, con il concetto di double standard e anche la body positivity, viene usato ancora per risollevare la carriera dell’artista ormai a un punto di stallo. Dalle luci metropolitane della ribalta in 1989, alle cupe meditazioni di Reputation si arriva a Lover, alle bandiere arcobaleno e ai gattini sugli unicorni. Una traccia come The Man rivela il problema alla base: l’artista continua a chiedersi se sarebbe arrivata prima, al successo, ai soldi, a una buona rispettabilità, se fosse stata un uomo, senza dubitare neanche per un secondo della correttezza della direzione verso la quale si precipita. A ciò si aggiunge l’inno del queerbaiting, You need to calm down. Non c’è un modo migliore o peggiore di fare attivismo, ma nel ventunesimo secolo certamente non ci sono molti modi migliori di vendere un’immagine di sé se non legandola a problematiche calde. “Progressive activism don’t sell. The Aestetich of it does” (3). E dopo tanto rumore e una pioggia di promesse e payette, il silenzio. Sebbene qualcunə sia ancora in attesa trepidante di un segno, che sia un appello sulla situazione palestinese o sull’abolizione della sentenza Roe che legalizzava l’aborto negli USA, moltə ormai sembrano rassegnatə. La parola femminismo sembra fuoriuscire dalle labbra di Taylor solo per difendersi, come da una battuta molto infelice ai Golden Globe o da un articolo che sul The New Yorker speculava sul suo orientamento sessuale. Se è vero che la vera emancipazione è quella che ha permesso alle donne di potersi mettere al riparo dalle logiche patriarcali facendole uscire dalla passività, allo stesso tempo rimane essenziale ricordare che il prendere parola, soprattutto con una piattaforma di ascolto così grande, non può avere un andamento intermittente e condizionato dal vantaggio che se ne trarrebbe. 

Ma che sia in una cabina in una foresta secondo l’estetica cottagecore di Folklore o Evermore o in un letto avvolto da nebbia lilla in Midnights, Taylor Swift è sempre in grado di gestire le sue crisi, persino quella scaturita da una relazione romantica con Matthew Healy, colpevole di appoggiare ideologie naziste e razziste. Il featuring con Ice Spice, la quale era stata pesantemente offesa da Healy in un podcast, non solo ha riparato al danno subito, economicamente, ma aveva il compito di ribadire il ruolo di “sorella” incarnato da Taylor. Tutto bene quel che finisce bene. Mother is mothering e ogni easter egg sembra mettere a tacere tutto il resto per un po’. 

Ma se ogni storia ha un principio, deve avere anche un epilogo. Un paio di notti fa sono caduta nel rabbit hole senza fine del format delle unpopular opinions. In un video una ragazza nera diceva che, nonostante la sua musica le piaccia, non si sente più rappresentata da Taylor Swift e non la supporta più. Io sono una ragazza bianca, cresciuta in contrasto ma anche inevitabilmente a contatto con una concezione di femminilità molto cristiana e abbastanza passiva, coltivando il sogno di scappare via, trovare l’amore e realizzare i miei sogni per poi guardarmi indietro e tirare un sospiro di sollievo nel rendermi conto di quanto lontana io sia arrivata sulle mie gambe. Ho ventitré anni e mentirei se negassi che quando sono triste una delle poche cose che mi rende felice è ballare Shake it off da sola nella mia cameretta. Mi sono resa conto però, grazie al femminismo, di fare parte di qualcosa di più grande, sfocando i contorni di me stessa e focalizzandomi su tutto ciò che è al di fuori. Ho smesso di scrivere la mia storia come se fosse solo la mia e non fosse contingente a quella di altri, non relegati al ruolo di personaggi laterali, e con dinamiche più vecchie e sicuramente più forti di me, di qualsiasi mio sogno o slancio. La Main Character Syndrome è un lascito capitalista duro a morire quando sei una ragazza bianca, e Taylor Swift non aiuta a disintossicarsi dall’individualismo sfrenato in cui la società è immersa.

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Eppure adesso so che players gonna play, haters gonna hate ma richest gonna win e, in fondo, lo devo in qualche modo di nuovo a lei. 

1 Cfr. https://en.wikipedia.org/wiki/Performative_activism

2 Cfr. https://en.wikipedia.org/wiki/White_feminism

This Video Isn’t Just About Taylor Swift. It’s About You.

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Foto di Pixabay: https://www.pexels.com/it-it/foto/fotografia-di-lasso-di-tempo-di-aeroplano-commerciale-bianco-358319/
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