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“Miss Americana”: la rinascita di Taylor Swift attraverso la musica, la politica e l’attivismo

“Miss Americana”: la rinascita di Taylor Swift attraverso la musica, la politica e l’attivismo

Articolo di Attilio Palmieri

Negli Stati Uniti d’America, si sa, la narrativa della rinascita è una delle più amate, non solo in letteratura ma ancor di più nella vita reale e tutti i giorni assistiamo a esempi lampanti in settori molto differenti tra loro: premi che vengono attribuiti ad artisti che sono riusciti a cavarsi fuori da un momento nero della propria carriera; posizioni lavorative di prestigio affidate a persone dal curriculum non immacolato ma che hanno dimostrato di saper risalire dopo aver toccato il fondo; celebratissime vittorie sportive che suggellano il ritorno da infortuni o addirittura il dietro front dopo un ritiro. Anche “Miss Americana” in un certo senso può essere letto sotto questa lente, perché il documentario su Taylor Swift, presentato al Sundance a fine gennaio e attualmente disponibile su Netflix, racconta la storia della caduta e della risalita della popstar americana, non tanto da un punto di vista professionale (i suoi fan sono stati sempre tanti e particolarmente affezionati) quanto da uno più intimamente umano, legato cioè alla sua percezione di donna in un contesto tossico che a più riprese ha cercato, a volte riuscendoci, di ferirla.

Non è un caso che la regista Lana Wilson scelga di lavorare con Swift a partire dalla distruzione della sua immagine pubblica, narrando un percorso di emancipazione artistica e politica sicuramente molto personale, ma caratterizzato da alcune tappe traumatiche molto comuni e pensate per creare una forte empatia con gli spettatori (e in particolare con le spettatrici), complice anche la voglia dell’artista di mostrarsi senza filtri agli occhi del pubblico.

Per dieci anni, Swift è stata rinchiusa nel personaggio della “nice girl” che l’ha fatta sentire sempre più in gabbia, perché se sei una ragazzina alta, magra e bionda che fa musica country, per la cultura americana devi essere sempre un passo indietro rispetto ai maschi, non mostrare mai le tue opinioni, limitarti a muoverti nel raggio d’azione che altri (naturalmente maschi) hanno costruito per te e soprattutto devi essere sempre impeccabile, perfetta agli occhi esterni. Per difendersi da queste pressioni e costrizioni, l’impossibilità di avere idee proprie e di esporsi politicamente, Swift si è rifugiata nella concentrazione spasmodica sull’atto creativo e sulla performance tale da diventare impermeabile a tutto ciò che succedeva all’esterno, riuscendo così a catturare un pubblico sterminato, in buona parte (visto il genere e gli Stati in cui questo è radicato) appartenente a una cultura politica repubblicana.

A minare in profondità la sua integrità – come racconta nel documentario – c’è lo scontro con Kanye West, iniziato con la famosa e umiliante interruzione agli MTV VMA del 2009 e proseguito nel 2016 quando si vede chiamata in causa in modo non certo gentile (per usare un eufemismo) da una canzone del rapper americano, e successivamente presa di mira da un bombardamento mediatico senza precedenti in cui viene dipinta come una persona falsa, ipocrita, un’ingannatrice. All’epoca Swift era sul tetto del mondo, l’unica artista dopo i Beatles a piazzare quattro album consecutivi nella Top di Billboard per almeno quattro mesi, e ciononostante la sua immagine pubblica è stata fatta a pezzi, perché non c’è nulla che la nostra cultura sessista ami di più di massacrare (alcuni direbbero “rimetterla al suo posto”) una donna che con il suo talento ha conquistato ogni record.

Il ritratto che viene fatto dell’autrice di “1989” viene accompagnato da fenomeni sempre più intensi di body shaming che l’hanno stritolata in una morsa in cui da una parte c’era chi la chiamava “malata”, perché a suo dire troppo magra, e chi le diceva invece che era troppo grassa per il suo ideale. Nel documentario, lei racconta di aver progressivamente perso ogni certezza, di non riuscire più a vedersi in foto, di trovarsi continuamente non adatta e di aver dovuto convivere con disturbi alimentari che in un primo momento aveva persino negato a se stessa di avere.

Il punto più basso di questa parabola e al contempo lo step da cui la cantante è riuscita a risalire è stato il processo per il palpeggiamento subito dal DJ David Mueller, un inferno giudiziario che non ha risparmiato neanche una star del calibro di Taylor Swift, a dimostrazione che nei casi di molestie e violenze sessuali le donne sono le più umiliate e le meno tutelate anche se ricche, famose e molto amate. Alla fine Swift riesce a uscirne vincitrice grazie alla presenza di immagini e testimoni, ma quel momento – racconta nel documentario – la cambierà per sempre. Da lì in poi, infatti, capisce che se sei una donna il mondo ti può crollare addosso in qualsiasi momento perché la gente non si fa alcuno scrupolo a umiliarti in ogni modo e ci sarà sempre un ideale di bellezza non soddisfatto a fare da pretesto per attacchi mediatici violenti e tossici.

“Ho dovuto decostruire un intero sistema di valori per la mia salute mentale”, afferma Swift, ricordando la genesi di “Reputation”, album in cui il rapporto tra l’artista e il mondo esterno è cambiato completamente, perché al centro del discorso sono entrati con prepotenza i traumi che in quegli anni ne hanno distrutto l’immagine e l’integrità psicofisica. Un momento di passaggio rappresentativo di una fase in cui la cantautrice capisce quanto sia importante battersi al fianco delle donne e di tutte le categorie discriminate, decidendo di sfidare a testa alta gli uomini che la vorrebbero ancora nei panni della biondina del country sempre accondiscendente e che a ogni opinione espressa tentano di sminuirla a colpi di mansplaining e offese più o meno esplicite.

Il momento maggiormente liberatorio è stato quando ha deciso di rompere il silenzio sulla politica, andando contro tutti i maschi del suo team che le sconsigliavano questa mossa, incapaci di comprendere l’oppressione di genere e quindi impossibilitati a capire realmente quanto fosse importante per Swift spendersi contro l’elezione di Marsha Blackburn, convinta oppositrice del Violence Against Women Act. Nell’ottobre del 2018, a un mese dalle elezioni di metà mandato, tramite un post su Instagram, l’artista ha convinto decine di migliaia di persone a registrarsi in Tennessee per opporsi all’elezione della senatrice e con questo gesto ha smesso definitivamente di essere una “people pleaser”, schierandosi apertamente a favore dei diritti della comunità LGBT+ anche a costo di mettersi contro il Presidente Donald Trump e parte del suo pubblico.

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Come racconta nel documentario, Swift ha dovuto deprogrammare la misoginia presente nel suo stesso cervello perché essere un’artista donna è una strada costantemente in salita: significa avere un bersaglio puntato sulla fronte tutti i giorni ed essere costretti a “reinventarsi venti volte in più dei maschi se non vuoi rimanere disoccupata”. Quello che emerge da “Miss Americana” è un percorso di presa di coscienza politica che dalla vita passa alla produzione artistica senza soluzione di continuità, in cui Swift ha scelto per esempio di chiamare i Fab 5 di Queer Eye per farsi aiutare a comunicare al meglio il proprio sostegno alla comunità LGBT+ all’interno del video di “You Need to Calm Down”.

Taylor Swift non vuole più chiedere il permesso per ogni cosa e ora è finalmente libera: libera di esprimere la propria opinione e di saggiare il livello della propria emancipazione dalla cultura patriarcale in cui è immersa, come nella gag finale in cui faccia a faccia con la regista Lana Wilson si rende conto di quanta strada ha ancora da fare se spontaneamente le è venuto da scusarsi per aver “parlato ad alta voce nella mia casa, che ho comprato con i miei soldi, che ho guadagnato con le canzoni che ho scritto, ispirate alla mia vita”.

Tornando lì dove abbiamo cominciato, “Miss Americana” più che la resurrezione di Taylor Swift racconta la nascita di una parte della sua persona che per troppi anni era rimasta nascosta, repressa da un sistema di valori che le ha impedito di sbocciare. Al centro c’è dunque la nascita di un’attivista, ovvero la presa di coscienza di Swift del proprio ruolo nel mondo e l’emersione del bisogno di lottare contro una cultura che mortifica le donne e ne limita la libertà riducendole a oggetti in continuazione, sminuendone le capacità e umiliandole senza vergogna.

Immagini: Taylor Swift; Queer Eye
View Comments (2)
  • non ci sono standard di bellezza, ci sono corpi maschili e femminili fisicamente più belli di altri e va accettato senza offendere nessuno

  • @Ned

    Se ci sono corpi maschili e corpi femminili fisicamente più belli di altri, allora lo standard di bellezza esiste ed è rappresentato per l’appunto da questi corpi.

    Viceversa, nel momento in cui esistono degli standard di bellezza, ci sono corpi maschili e femminili più belli di altri, semplicemente perché ci sono corpi maschili e femminili che più di altri si avvicinano agli standard di cui sopra.

    Ancora. Facciamo l’ipotesi che non esistano né uno standard di bellezza né corpi maschili/femminili più belli di altri. Al singolo individuo A risulterà più bello di B o viceversa: questo accade perché il singolo individuo ha il suo personale standard di bellezza, al quale A risulta essere più aderente di B.

    Conclusione: gli standard di bellezza esistono. Come esistono gli standard di qualsiasi cosa.

    Caso mai la questione è un’altra: questi standard hanno una componente oggettiva o sono completamente soggettivi? E ancora: sono eliminabili o l’essere umano ne ha intrinsecamente bisogno?

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