Negli ultimi anni una pericolosa tendenza linguistica ha preso piede, infiltrandosi nei discorsi comuni così come nella discussione politica: il confronto fra Auschwitz e qualsiasi evento/fatto/legge che non soddisfi appieno la nostra richiesta. Tutto è diventato Auschwitz, svuotando di significato e svilendo, in uno stillicidio di paragoni insensati, quello che è stata la Shoah.
La questione, già di per sé grave, assume tinte parossistiche e oscene poi quando sono ambienti di destra e di matrice notoriamente e storicamente xenofoba a utilizzare questo raffronto. È diventato tristemente abusato il gergo riferito ai campi di concentramento e sterminio entrato nel vocabolario comune (Arbeit macht frei/Auschwitz/SS/soluzione finale/lager/deportazione) per descrivere fenomeni che si considerano in maniera vaga antidemocratici o lesivi della libertà.
Questo tipo di strumentalizzazione ha raggiunto l’acme in relazione alla gestione della pandemia di Covid-19 negli ultimi anni, trovando frequentemente utilizzo d’impiego in ambienti No Vax e No Green Pass (ci teniamo a specificare che questo nulla dice sulle motivazioni e sulle istanze dei gruppi, ma merita sicuramente un approfondimento e anche una critica decisa sui metodi comunicativi adottati).
- Nel giugno 2020 il consigliere leghista Claudio Ticci pubblica su Facebook un’immagine che richiama i cancelli di Auschwitz e recita “Schule macht Frei – La scuola Libera. La scuola educa alla libertà”, in segno di protesta contro le misure adottate dal Governo per il rientro delle classi a settembre durante la gestione della pandemia.
- Durante tutto il 2021, in moltissime manifestazioni contro il vaccino e il Green Pass sono stati utilizzati paragoni fra la condizione delle persone non vaccinate e quella delle persone deportate durante la Seconda Guerra Mondiale. Il filosofo Paolo Becchi ha affermato in un Tweet. “Il Green pass è come la stella gialla per gli ebrei. Dal campo di concentramento al ghetto di casa nostra.”
- Molte pagine e gruppi Facebook hanno utilizzato frequentemente paragoni con la condizione ebraica durante l’occupazione nazifascista per descrivere il clima nei confronti delle persone non vaccinate. Il gruppo “Pordenone Perla Verità” ha anche annunciato una propria manifestazione per commemorare la Giornata della Memoria, suscitando indignazione e perplessità per la comunicazione che rimandava continuamente ai due eventi storici (la Shoah e il movimento No Vax).
Non volendo entrare nel merito della questione vaccini o Green Pass, che non è il centro del nostro discorso, questi sono solo esempi di come sia stato svuotato di significato il periodo storico delle persecuzioni e delle deportazioni nazionalsocialiste in tutta Europa. Il problema della relativizzazione e della decontestualizzazione continua di fenomeni storici che hanno invece una loro matrice di unicità risiede proprio nella perdita di valore di tutto ciò che viene preso in analisi e usato per i propri scopi.
La Shoah è diventata canone del Male in virtù delle sue caratteristiche uniche (uniche per quanto concerne la storia occidentale moderna e spesso non solo). Non è stata la tragedia umana con il più alto numero di perdite, non è stato l’evento di morte con la più estesa durata. Ha avuto delle caratteristiche specifiche, che includono: l’organizzazione di tutti gli apparati di uno Stato con il manifesto fine ultimo di compiere un genocidio, la programmaticità dell’eradicazione di un intero popolo dalla faccia della Terra, l’attuazione di un piano di sterminio su scala globale fondato su un pregiudizio etnico storicamente accettato, l’accettazione della quasi totalità della popolazione dello strumento di morte come epurazione di tutte le persone non in linea con il concetto di “normalità” e “accettabilità” prefissato per la specie umana. Eppure, in queste caratteristiche irripetibili, troviamo elementi comuni a molte tragedie e persecuzioni. Su questa base, sì, possiamo ampliare il ragionamento.
La Shoah è diventata sinonimo di massimo orrore al punto da essere eretta a paradigma linguistico. E questo, volendo accogliere il monito di Primo Levi “Se comprendere è impossibile, conoscere è necessario, perché ciò che è accaduto può ritornare”, significa che può essere utilizzata come strumento di paragone e monitoraggio del Male. Ma un simile esercizio di analisi storica non può e non deve essere compiuto con leggerezza, superficialità, incoscienza. Deve essere giustificato da una situazione che richieda necessariamente quel richiamo al Male nel suo senso più assoluto. Deve proseguire l’intento di tutte le testimonianze riguardanti la Shoah: che non accada nella storia nulla che esprima un orrore così grande.
Flebile speranza che, come sappiamo, è stata largamente disattesa nel corso dei decenni che ci separano da quel 27 gennaio 1945. No, Auschwitz non è tornata. Ma le persecuzioni, i massacri, i genocidi sono proseguiti. I lager esistono, gli stermini esistono, i ghetti esistono. La soppressione della libertà e la macchina della morte continuano ad agire. Come se quei cancelli non fossero mai stati aperti, come se una parte della nostra (dis)umanità fosse rimasta ancorata al filo spinato. Ma sono queste, e solo queste, le situazioni in cui è plausibile e finanche necessario nominare la Shoah, nominare Auschwitz che ne è simbolo, con l’intenzione di mettere a paragone gli eventi e ricercare un vocabolario comune del terrore che nasce da quel contesto e vede applicazione nel bisogno di esprimere appieno lo sgomento dinnanzi al Male.
Esisteranno sempre fatti di minore o maggiore gravità che attireranno il nostro sconcerto, disapprovazione, fastidio, senso di ingiustizia, rabbia. Possono avere la loro rilevanza, possono essere anche eventi mastodontici e gravissimi che meritano tutta la nostra serietà e attenzione e senso della gravità.
Ma non tutto è Auschwitz. Se facciamo diventare tutto Auschwitz, non saremo in grado di vederla quando si parerà davanti ai nostri occhi.