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Patria: nella Giornata della Memoria, la memoria che abbiamo negato

Patria: nella Giornata della Memoria, la memoria che abbiamo negato

Noi non abbiamo deportato nessuno”. Chi non ha mai sentito pronunciare questa frase, in relazione alla Shoah? Affermazione spesso accompagnata e supportata da sue simili, ramificazioni del medesimo concetto: “L’errore di Mussolini è stato allearsi con Hitler/in Italia non c’erano campi di concentramento/le stragi sono state fatte dai nazisti”. Parole che si affannano, disperatamente e ciecamente, per dire una cosa sola: Non è stata colpa nostra.

La memoria, nel nostro Paese, è una faccenda ben strana. La si espone, la si rimira, la si sfoggia nel momento appropriato come fosse un cimelio intoccabile e soprattutto eterno nel tempo. Non si mette in discussione, la memoria. Non si arricchisce, non si apre a nuove interpretazioni, non si commenta. Succede così che una memoria negata, manchevole, fallata, venga riproposta sempre identica a se stessa e trascini dietro sé, di conseguenza, quell’errore iniziale. Sì, è stata anche colpa nostra. Ed è il momento di fare i conti con questa consapevolezza.

Ecco ciò che suscita la lettura di “Patria. Crescere in tempo di guerra”, graphic memoir edito da BeccoGiallo, un’indagine storica che parte dalla memoria di una bambina. La protagonista cresce durante il Ventennio fascista, vive i bombardamenti e le adunate dei Balilla, il razionamento e le campagne di reclutamento, il gioco nei rifugi antiaerei e la scuola femminile. Nell’infanzia sembra non esserci spazio per responsabilità storiche. E forse proprio grazie a questa manifesta innocenza si riesce a entrare in contatto con la natura più celata dell’opera: un vaglio impietoso di tutte le responsabilità, piccole e grandi, che non abbiamo mai accettato nei confronti della Shoah. Una memoria che cerca di farsi strada da ottant’anni. La memoria che ci manca.

La memoria, quella completa e non taciuta, potrebbe dirci che il Manifesto della Razza è stato opera nostra. Non di Hitler e non del nazismo, ma di Mussolini e del fascismo. Nostre le frasi: “È tempo che gli Italiani si proclamino francamente razzisti” e “Sono perciò da considerarsi pericolose le teorie che sostengono l’origine africana di alcuni popoli europei e comprendono in una comune razza mediterranea anche le popolazioni semitiche e camitiche stabilendo relazioni e simpatie ideologiche assolutamente inammissibili”; o ancora “Gli ebrei rappresentano l’unica popolazione che non si è mai assimilata in Italia perché essa è costituita da elementi razziali non europei, diversi in modo assoluto dagli elementi che hanno dato origine agli Italiani”; e per finire “Il carattere puramente europeo degli Italiani viene alterato dall’incrocio con qualsiasi razza extra-europea e portatrice di una civiltà diversa dalla millenaria civiltà degli ariani”.

La memoria ci ricorda che nostre sono state anche le leggi razziali promulgate nel 1938, dopo che la strada era stata spianata e preparata dal Manifesto della Razza. Con il Regio decreto del 5 settembre, voluto da Benito Mussolini e siglato da Vittorio Emanuele III, le persone ebree venivano espulse dalle scuole e dalle università. Questa la prima legge razziale, cui fecero seguito una serie di provvedimenti antisemiti di carattere persecutorio: le persone ebree non potevano più contrarre matrimonio con quelle italiane, non potevano più avere alle proprie dipendenze personale domestico di razza ariana, non potevano più lavorare presso pubbliche amministrazioni e banche, non potevano più svolgere determinate professioni “intellettuali” quali il giornalismo… E così via, a limitare sempre più le libertà politiche e personali ed escludere progressivamente dalla società collettiva la popolazione ebraica italiana. Fino ad arrivare alle deportazioni.

La memoria allora ci dice che le deportazioni sono state effettuate dai nazisti occupanti. Ma se prestiamo più attenzione riscontriamo un’altra realtà, parallela a questa: le persone ebree sono state deportate perché in molti casi altre persone italiane le hanno denunciate e tradite. Una pagina oscura e vergognosa della nostra storia riguarda proprio le denunce anonime che portarono a rastrellamenti e catture. Come nel caso del rastrellamento del ghetto di Roma, 16 ottobre 1943, il “sabato nero”. Viene spesso riportato il numero di 2.091 persone deportate dal ghetto di Roma, ma non andò così. Furono 1.022 quelle catturate nel “sabato nero”, principalmente donne e bambini, mentre gli uomini erano scappati credendo di essere l’obiettivo del rastrellamento. Loro furono catturati principalmente in seguito a delazioni, denunce anonime. Fra le delazioni e la complicità dei militi di Salò (che consegnavano i vagoni piombati e spesso anche i prigionieri), addossare la responsabilità delle deportazioni nei campi di sterminio unicamente alle SS naziste è una di quelle mancanze di memoria che possono solo farci del male, non certo liberarci dalla colpa.

Esistono infiniti esempi simili: dalle decisioni che determinarono la morte di migliaia di individui, come la cessione di Trieste, ai comandi nazisti da parte di Mussolini e la creazione della Risiera di San Sabba, unico campo di sterminio in territorio italiano, provvisto anche di forno crematorio: da lì transitarono circa 25.000 persone dirette a Buchenwald, Dachau, Auschwitz e le vittime cremate in quel campo furono fra le 3.000 e le 5.000. E poi ci sono le storie di vita comune e quotidiana, con le espropriazioni dei beni delle persone ebree e la ripartizione di case, cibi, gioielli.

Oltre alla Risiera di San Sabba, la stessa presenza di campi di internamento e concentramento sul territorio italiano è stata a lungo sminuita e taciuta. I lager fascisti sono una riscoperta recente per la storiografia. Non solo Carpi-Fossoli, il campo più tristemente noto raccontato anche da Primo Levi in “Se questo è un uomo”, ma anche nomi meno noti come Borgo San Dalmazzo, Grosseto e Bolzano-Gries. Decine di migliaia le persone ebree transitate per questi luoghi e mandate a morire nei campi di sterminio nazisti, una condanna certa. Va sottolineato che, se si volesse avere uno sguardo più ampio sulle reali responsabilità del fascismo, ci si accorgerebbe subito che l’elenco dei campi fascisti non si limita alla Shoah ebraica, ma riguarda diverse persecuzioni.

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La tendenza a non confrontarsi realmente e storicamente con il proprio passato non riguarda unicamente la Seconda Guerra Mondiale: basti pensare al colonialismo e a tutte le responsabilità storiche e umane che non sono mai state prese in carico. Diciamo ancora “Ambaradan”, senza sapere che è stato coniato nel 1936 dai reduci della campagna d’Etiopia che avevano appena compiuto un nonèstatacolpanostra genocidio, utilizzando il gas iprite, a sua volta violazione al Protocollo di Ginevra sulla messa al bando delle armi chimiche.

Abbiamo scelto una memoria diversa, abbiamo creato una memoria collettiva che eludesse e oscurasse precise responsabilità, crimini, atrocità. E tutto questo ci si è ritorto contro. Ogni volta in cui si analizza un fenomeno che dovrebbe destare enorme preoccupazione sociale e non si usa il termine “fascismo”, si sta negando la memoria. Ogni volta che descriviamo il fascismo come un evento circoscritto nel tempo, un capitolo concluso e non riapribile, stiamo cancellando un po’ di storia. Così facendo, apriamo le porte alla possibilità che succeda di nuovo. Se non lo si nomina, se non lo si riconosce per ciò che è, può tornare indisturbato.

Ci siamo fatti gli anticorpi al fascismo, ma abbiamo detto loro “Non c’è bisogno di attaccare, il virus è morto”. Così, quando nel nostro organismo entra un po’ di fascismo, quando arriva qualcosa che lo ricorda e che ne è diretta conseguenza, noi non lo riconosciamo. La nostra società si ammala e pensiamo non ci sia un motivo. Il motivo è evidente, se solo lo si volesse nominare in maniera appropriata. Se solo permettessimo agli anticorpi della nostra società di vedere il male, senza negarlo e dire che non esiste più. Si dice spesso che parlare di fascismo nel ventunesimo secolo sia un anacronismo. Dev’essere molto comodo, per il fascismo, aggirarsi indisturbato sotto le spoglie di un fantasma.

Come ci ricorda la giovanissima protagonista di “Patria. Crescere in tempo di guerra”, non c’è possibilità di affrontare il futuro senza aver fatto i conti con il proprio passato. Senza sapere chi eravamo e chi siamo. Accettare le nostre responsabilità e colpe, conoscerle e studiarle, è l’unico modo per costruire una società diversa. Abbiamo bisogno di tante Giornate della Memoria, perché ci mancano tante memorie. Senza ammettere il fascismo, la condanna è chiara: lo ripeteremo.