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Attenzione, la virilità può essere pericolosa per la tua salute!
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Attenzione, la virilità può essere pericolosa per la tua salute!

Articolo di Nicola Brajato

Prima di leggere quanto segue, prendetevi un momento per guardare questo corto, American Male, vincitore del MTV’s Look Different Creator Competition.

Per la prima volta da quando scrivo per Bossy, lascio per un attimo da parte la mia passione più grande, la cultura della moda, per parlare di un altro tema che mi coinvolge particolarmente: l’educazione maschile e, in particolar modo, la virilità. Non che non centri nulla con il mio ambito, e anzi l’abito gioca un ruolo fondamentale nella separazione tra i generi e nella definizione e riproduzione del maschile. Ma voglio cogliere questa occasione, questo momento di riflessione, per parlarne in termini più generali.
Se ho iniziato a scrivere questo articolo lo devo anche ad un fatto che, anche se non direttamente, mi ha coinvolto recentemente in una storia di bullismo e omofobia nei confronti di un ragazzo solo perché quel giorno, sul pullman che lo portava a scuola, indossava una T-shirt rosa. Una scelta stilistica, intima e personale, che però l’ha esposto ad un rischio. Esistono dunque delle regole per essere definiti “uomini”? E se queste non rispecchiassero la nostra individualità?

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«Il problema del genere è che prescrive come dovremmo essere invece di riconoscere come siamo. Immaginate quanto saremmo più felici, quanto ci sentiremmo più liberi di essere chi siamo veramente, senza il peso delle aspettative legate al genere». È scritto a pag.27 di Dovremmo essere tutti femministi dell’autrice Chimamanda Ngozi Adichie, un libro che, con una semplicità unica, pone il lettore di fronte alla problematica della costruzione e imposizione culturale del genere secondo cui essere maschio o femmina non risiede nell’individualità del soggetto, bensì al di fuori; essere maschio o femmina è un riconoscimento da raggiungere, è un percorso netto e regolato da norme precise.
Ognuno di noi si è ritrovato all’interno di questo strano mondo senza averlo chiesto. Siamo stati concepiti e presi in braccio mentre urlavamo disperati, fino alla fatidica frase «È un maschio!» o «È una femmina!», ignari che, da quel momento, davanti a noi, si sarebbe aperto quel teatro che chiamo “vita”, fatto di copioni e personaggi, un subdolo gioco delle parti.

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Oggi mi vorrei concertare sul primo, sul maschietto, futuro erede di quel privilegio patriarcale che, come vedremo, non è poi così roseo.
Per citare Simone de Beauvoir, con una chiara inversione di genere, possiamo affermare che «uomini non si nasce, lo si diventa». Ma cosa significa essere un uomo? Non basta nascere (biologicamente parlando) con un dato sesso per essere riconosciuti maschi?
No, non basta!
La strada per diventare “uomini” è lunga, tortuosa, quotidiana e infinita. Non penso di esagerare, poiché il genere non è un “essere”, ma un “fare”, un qui ed ora, una reiterazione continua di atti e comportamenti normati, e la sospensione di tale ripetizione comporterebbe la perdita del riconoscimento da parte dei pari.
Riprendendo Adichie, possiamo introdurre l’educazione maschile sostenendo che «facciamo un grave torto ai maschi educandoli come li educhiamo. Soffochiamo la loro umanità. Diamo della virilità una definizione molto ristretta. La virilità è una gabbia piccola e rigida dentro cui rinchiudiamo i maschi. Insegniamo loro ad avere paura della paura, della debolezza. Insegniamo loro a mascherare chi sono davvero, perché devono essere, per usare un’espressione nigeriana, uomini duri».

"What 'real' men cry like", progetto di Maud Fernhout
“What ‘real’ men cry like”, progetto di Maud Fernhout

L’autrice parla di virilità, concetto che il sociologo Pierre Bourdieu sostiene essere «inscritto nel corpo sotto forma di un insieme di disposizioni in apparenza naturali, spesso visibili in un modo particolare di atteggiarsi, di atteggiare il proprio corpo: un portamento del capo, una posizione eretta, un modo di camminare, solidale a una maniera di pensare e agire».
Il potere della virilità sta nel fatto che guida le azioni del genere maschile (egemonico) come una necessità logica, senza risultare come una regola a lui imposta. La virilità si manifesta così come una forza superiore, un governo del sé, una costruzione culturale che silenziosamente si insidia in una natura biologica per poi diventare “legge sociale incorporata”.

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Possiamo quindi considerare gli uomini prigionieri della loro stessa rappresentazione dominante?
Penso che un momento di onestà e rispetto verso noi stessi possa dire più di altre duecento battute. L’essere “maschio” è una trappola che non coinvolge solo noi stessi, ma anche gli altri, dato che chiama in causa la tensione e lo scontro permanente e necessario che ogni uomo si vede imporre di dovere affermare in qualsiasi circostanza la propria virilità. E questo è solo il risultato di un lungo percorso che inizia sin da piccoli.

Seunghuyk and His Blue Things, The Pink & Blue Project (2005), Jeongmee Yoon
Seunghuyk and His Blue Things, The Pink & Blue Project (2005), Jeongmee Yoon

50,5 cm. 3,4 kg. Fiocco azzurro. Non c’è bisogno di aggiungere nient’altro: è nato un bel maschietto, sano e robusto. E proprio quel fiocco sarà il primo simbolo che darà il via a quella mistica del maschile che segnerà il bambino durante la sua crescita.

3 anni. Le prime parole arrivano e insieme a loro tanti bei giochi. Macchinine, soldatini, trattori, supereroi muscolosi, aerei. Un’esperienza ludica che rimanda a due concetti: quello di forza (a volte con accezioni che sfociano nella violenza) e spazio pubblico (in opposizione al privato, rappresentato da giochi come set da cucina, bambole e utensili vari, principalmente rivolti ad un consumo femminile). Nonostante la gamma di giocattoli sia abbastanza amplia e variegata, la scelta che viene propinata ai bambini è molto ristretta. Non esistono leggi o regole che sanciscano la scelta di un gioco, ma vi sono sanzioni sociali sotto forma di risatine, occhiate strane, suggerimenti del tipo «ma non preferiresti…?» che ci fanno capire che forse non stiamo facendo la cosa “giusta”. Tutti questi stereotipi, che vengono dunque appresi durante i primi anni di vita, assicurano la continuazione della gerarchia di genere giustificando come naturali, desiderabili e moralmente corretti i ruoli maschili e femminili (come se geneticamente XX corrispondesse alla Barbie e XY ai giochi di distruzione di massa).

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6 anni. Prima elementare. Grembiule esclusivamente azzurro, in apparenza innocuo, ma che cela in realtà, dietro di sé, un potere identitario spaventoso. L’azzurro e il rosa non sono soltanto colori: sono strumenti semplici e immediati per pensare e costruire bambini e bambine diversi tra loro, e di conseguenza tutta la loro educazione. La realtà è difficile, se non impossibile, da capire a sei anni. Ma i colori no. I colori non hanno bisogno di spiegazioni. E qualsiasi maschietto capisce che il rosa gli è nemico, il rosa è ciò che non dev’essere, ciò che non deve desiderare, quello che non deve diventare. E pian piano lo nota tra i compagni di classe, a casa, in televisione, nei negozi, al cinema, nei giornali, nei libri di scuola. È ovunque, e si convince che è “giusto” così, che è normale, ignaro che un giorno (forse) scoprirà essere tutta una menzogna.

12 anni. Scuole medie, in pieno sviluppo e squilibrio ormonale. La prima peluria da ometto. Ormai l’azzurro è un concetto lontano, quasi scontato. Ora si passa alle maniere forti. Ci si sente grandi, e il confronto è sempre dietro l’angolo. La necessità di sentirsi parte di un gruppo, di essere accettati, si fa sempre più vivida. E si è disposti a tutto pur di essere riconosciuti. Chi è che vuole sentirsi solo a tredici anni? C’è sempre chi domina il gruppo, il leader, ed è lui che dobbiamo conquistare. Ed ecco che si inizia a prendere in giro il più debole, a deriderlo, ad insultarlo ogni sacrosanto giorno, diventando monotoni. Ma se questo è ciò che serve per essere accettati, avanti. Perché tanto non ci si vuole sentire soli.

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14 anni. Scuole superiori, prove generali della vita. Dalla prima alla quinta è una gara continua a chi è il più “ganzo” della classe. Ma ci sono sempre gli esclusi a priori, i “secchioni”, gli “sfigati”, i “ciccioni”, i “froci”, quell’insieme di individui che neanche lontanamente incarnano l’ideale virile. E poi si arriva alle risse nel parcheggio dietro la scuola, o ai party il sabato sera. Perché sono quelle le occasioni più preziose per far capire «Qui comando io!».

Avete visto il video all’inizio? Se non lo avete ancora fatto, fatelo ORA. Penso che questo short movie sia un perfetto “Decalogo della Virilità”, che mostra come nella vita di tutti i giorni veniamo indirizzati attraverso scelte che riguardano il cibo, le passioni, la musica, gli abiti, ecc., verso un modo “corretto” di essere uomini o donne. «Ordina la birra, non il vino. E il manzo, non il pollo. E non il tofu. Non esiste cosa più gay del tofu». «Anche leggere è molto rischioso, poiché ti rende debole e secchione agli occhi degli altri». «Le donne muovono i fianchi quando camminano. Gli uomini muovono le spalle». «Le donne accavallano le gambe quando si siedono. Gli uomini restano seduti con le gambe aperte». E così via, fino ad arrivare agli estremi, alla violenza per affermare il proprio ruolo maschile.

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Come detto precedentemente, essere “maschio” è un fare, e dietro ogni azione c’è una scelta. Nulla ci impedisce di sottrarci con il rifiuto o la sovversione all’imposizione culturale del genere. Se non lo facciamo è perché decidiamo di sceglierci in esso. Preziose le parole del filosofo Umberto Galimeberti: «Condannati come siamo a essere liberi, non c’è situazione di cui non siamo responsabili, non c’è evento deciso da altri che non metta in gioco la nostra scelta». Siamo noi e soltanto noi i responsabili di ciò che ci accade, e solo noi possiamo cambiare noi stessi e la visione che abbiamo sulle cose. Anche dal punto di vista degli stereotipi che aleggiano attorno al maschile.
Uomini, liberatevi da questo peso. Non dovete dimostrare nulla a nessuno. La virilità nuoce gravemente alla vostra salute. Essa crea una dipendenza malsana nei confronti del giudizio del gruppo. La virilità è un concetto relazionale: viene costruito più per gli altri che per sé stessi. E alla radice di tutto ciò possiamo intravedere soltanto la paura di perdere il ruolo dell’“uomo vero”, di perdere la stima dei compagni o di essere relegati a categorie distanti, o addirittura opposte, a quelle del “maschile”, come quella del femminile o del “finocchio”. E, citando di nuovo Bourdieu, «tutto concorre così a fare dell’ideale impossibile della virilità il principio di un’immensa vulnerabilità».

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Questo articolo è per quel ragazzo sull’autobus, per la sua maglia rosa, per il suo coraggio nel voler restare fedele a sé stesso. Questo articolo è per tutte quelle persone che nella propria vita si sono sentite “sbagliate”.
Vivere e viversi. Conoscere e conoscersi. Amare e amarsi. Una formula che mi sono appuntato su un quadernino rovinato più di quattro anni fa, e che, a quanto pare, sembra funzionare.

 

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  • nessuno vuole essere sfigato o sfigata, l’importante è non umiliare chi lo è o lo sembra (parla uno che per molti versi è sfigato dato che a 32 anni è single, vive coi suoi ed è disoccupato e non ha molta voglia di cambiare).
    Allora: la virilità non è pericolosa, le regole rigide, i ruoli di genere rigidi lo sono: ci sono uomini ca cui piace pompare in palestra e uomini a cui non piace, uomini a cui piace leggere e uomini a cui non piace, uomini che bevono birra e uomini che bevono vino, coi capelli lunghi o corti eccetera: tutti questi uomini non sono “normati” sono se stessi, liberi, autentici e virili, ci sono tanti modi di vivere la mascolinità quanti sono i maschi, modi più frequenti statisticamente e modi meno frequenti ma sempre liberi e autentici. Steso discorso per la femminilità.
    E l’identità di genere è anche essere. Io non ho mai fatto l’uomo, io sono un uomo e lo sono a prescindere da cosa mi piace o non mi piace e da quanto le mie preferenze siano statisticamente frequenti tra gli altri uomini. Sono uomo se ho voglia di piangere e se non ne ho voglia
    Tu sei un uomo a cui piace la moda, ad altri uomini piacciono i motori, e questi uomini non sono normati sono liberi come te. Io sono un uomo che non segue molte delle regole che hai citato: sono astemio, non bevo nè vino nè birra, leggo molti romanzi (compresa Danielle Steel), accavallo le gambe quando mi siedi, mangio il manzo perchè mi piace, non sono palestrato (faccio solo cyclette in casa) ma non è che faccio queste cose perchè voglio “sovvertire regole che mi opprimono” le faccio perchè mi va e niente me lo vieta. Non penso assolutamente che gli uomini palestrati, rudi, che bevono birra, che leggono poco siano “normati” fanno quello che vogliono come me, e io le rispetto e pretendo analogo rispetto: se mi insulti perchè non mi piace ciò che legittimamente piace a te sei tu in torto. Ma un uomo palestrato è libero come me, un uomo depilato è libero come me e basa con sta storia degli uomini che non piangono! Oggi 2016 gli uomini piangono come fontane e non sono diventati migliori: ci sono stronzi maschilisti che on hanno problemi a piangere come fontane, e uomini che piangono poco (perchè così è la loro indole) che sono sensibili. L’uomo che piange va benissimo, non è meno uomo, gli eroi omerici piangevano, Obama ha pianto nel suo discorso d’addio ed è stato commovente ma la sensibilità no dipende da quanto si piange.
    Il bambino che vuole giocare con i soldatini e le pistole giocattolo deve poterlo fare, e se vuole la barbie deve poterla avere. Idem la bambina, ogni scelta va rispettata a prescindere da quanto sia frequente tra i maschi e le femmine.

  • e i bulli non sono mai virili, deridere i deboli è da vigliacchi che è l’antitesi non solo della virilità ma di qualsiasi buon modo di stare al mondo maschile o femminile che sia.

  • e va da sè che la mascolinità non ha anche fare con l’orientamento sessuale, i gay e i bisex maschi sono maschi quanto gli etero

  • Sono assolutamente d’accordo con tutto tranne che sull’ultima parte: come si può affermare che il genere sia una trappola e chiuderla sbrigativamente sostenendo che siamo troppo liberi? Se siamo troppo liberi che senso ha parlare di trappole? Io sono un maschio che caratterialmente non è esattamente lo stereotipo di virilità, e le dinamiche qui descritte le ho passate tutte. Ma il rifiuto più doloroso che mi ha accompagnato dall’adolescenza è stato quello del genere femminile… che guarda un pò non mi rifiuta solo quando mi atteggio a “virile standard”. Molto spiacente, ma anche questo succede…

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