Oh, mama mia, mama mia, mama mia, let me go… Dove andare? Al cinema! In arrivo nelle sale italiane domani, 29 novembre, Bohemian Rhapsody è il biopic che tutti i fan sfegatati dei Queen stavano aspettando. Ed io, in maniera del tutto contraria al concetto di neutralità in questo particolare campo – per me casa è il posto dove si trova la mia collezione di dischi “regali”, per darvi un’idea più chiara della situazione – vi racconto perché si tratta di una pellicola da non lasciarsi scappare ma che forse, con l’aggiunta di un pizzico di audacia, avrebbe potuto rappresentare anche qualcosa di più.
L’idea di un film che raccontasse la vita di Freddie Mercury e la sua avventura con i Queen bolliva in realtà in pentola già da tantissimo tempo. Tra alti e bassi, sei anni di lavoro, un Sascha Baron Cohen che per non chiarissime divergenze di opinione con i membri della band coinvolti abbandona il progetto e il nome di Ben Whishaw nell’aria, l’importante ruolo del frontman è andato infine a Rami Malek (noto principalmente per i suoi personaggi nella serie televisiva Mr. Robot e nel film Una notte al museo).
Una scelta in fin dei conti vincente poiché, anche se Malek non ricorda che vagamente la fisicità di Mercury (seppur aiutato da protesi dentarie discutibili e infinite quantità di trucco e parrucco), è riuscito a incarnare il personaggio in maniera adeguata e a impadronirsi delle movenze e degli atteggiamenti di Freddie in scena in un modo abbastanza convincente.
1970. Farrokh Bulsara, un addetto ai bagagli all’aeroporto di Heathrow di origine parsi, si reca come tante altre sere in un locale londinese. Lì ha luogo un’esibizione non troppo di successo di una band chiamata Smile. Capitanato da Tim Staffel fino a quel momento, il gruppo – formato dall’astrofisico in erba Brian May e dall’indeciso dentista-barra-biologo Roger Taylor – si ritrova nell’immediato bisogno di un cantante. E di un bassista. Con l’aggiunta di John Deacon, scoppiano le prime scintille di quella magia che conosciamo ai giorni nostri sotto il nome di Queen. Il film segue poi i quindici anni di carriera della band fino al 13 luglio 1985, giorno della storica performance dal vivo della band nella sua formazione originale a Wembley in occasione del Live Aid.
Per tutti gli appassionati di musica credo di non sbagliarmi nel dire che questa sia già una ragione più che sufficiente per guardare il film. In fondo i Queen non sono “nient’altro” che una colonna portante della storia della musica e vedere come quella leggenda sia nata, si sia evoluta e non sia mai veramente scomparsa è senz’alcun dubbio interessante di suo. Da come il beat di We Will Rock You sia stato concepito al riff di Another One Bites the Dust. Ma non basta. Non basta perché questa pellicola va ben oltre l’incredibile talento musicale di Mercury e degli altri componenti della della band. Cerca di indagare e raccontare, in maniera delicata e sempre rispettosa nell’onorarne la memoria, una sfaccettata storia di accettazione.
L’accettazione della propria diversità etnica in una società che non vede poi così di buon grado il “pakistano” di turno, che si ritrova diviso tra il tradizionalismo della propria famiglia zoroastriana e le luci della ribalta. L’accettazione della propria sessualità latente grazie al sostegno seppur difficoltoso delle persone che gli stanno accanto. L’accettazione di se stesso che, pur intraprendendo le strade di una vita dissoluta e assolutamente vuota, ritrova la retta via solo nel momento in cui si rende conto dell’importanza dell’accoglimento profondo di sé e dell’altro. E l’accettazione di un male inguaribile che lo abbatte – inesorabile nel fisico ma non nello spirito.
Naturalmente la storia è raccontata secondo il punto di vista di Brian May e Roger Taylor, i quali hanno optato per una linea sobria che non inciampasse nella retorica della vittima e non si dilungasse in sordidi dettagli, che forse è meglio lasciare alla vita privata dell’artista. Le numerose libertà narrative presenti nella pellicola, dall’idealizzazione del matrimonio con Mary Austin alla delineazione del “cattivo” nel profilo di Paul Prenter (manager della band con cui Mercury ebbe una relazione), sono un chiaro segnale che la realtà è presentata più in bianco e nero rispetto alle nuances grigie della verità. Probabilmente un approccio leggermente più ricco di sfumature avrebbe fatto percepire la storia come più autentica e avvicinato maggiormente il pubblico alla persona anziché al personaggio.
Ebbene sì. Perché di storie di band che dal nulla scalano le classifiche fino alla vetta e che rimangono nella memoria ce ne sono tantissime. Di racconti di geni sregolati e alienati che faticano nel soddisfare le proprie esigenze creative forse anche di più. Bohemian Rhapsody dà forse un’idea (approssimativa e presumibile?) della vita di Freddie, per cui viene da chiedersi se non sarebbe stato più interessante vedere anche gli anni della battaglia contro l’AIDS. Bismillah, no! Ciò sarebbe andato contro l’idea generale del film inteso come una celebrazione della vita di Mercury e non un’elucubrazione delle difficoltà che ne hanno provocato la morte.
In fin dei conti the show must go on.