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Women talking – ascoltare per cambiare

Women talking – ascoltare per cambiare

Recensione psicologica del film premio Oscar 2023 per la sceneggiatura non originale. Spoiler Alert!

Trigger Warning: violenza, abuso.

Premio Oscar per miglior sceneggiatura non originale, la pellicola di Sarah Polley ci mostra una realtà fuori dal tempo seppur terribilmente attuale.
Women talking, uscito al botteghino nel 2022 e premiato agli Oscar nel 2023, è l’adattamento cinematografico del potente e omonimo romanzo di Miriam Toews.
Qui di seguito vi presento una mia lettura psicologica del film.

Trama del film

La trama, ambientata nel 2010 nonostante l’occhio dello spettatore fatichi a crederlo, narra dei fatti realmente accaduti in una comunità Mennonita Boliviana. Per conoscenza, i mennoniti sono una grande comunità anabattista – un movimento religioso di matrice cristiana,  nato in Europa nel XVI secolo – formata da circa un milione e mezzo di membri, vivono la vita secondo i principi di sobrietà e carità e rifuggono la modernità.
Il film riprende una comunità chiusa, fondata su religione e patriarcato. L’ambientazione è “povera”, ma coerente con la scelta di lasciare il ruolo di protagonista alla trama. Luogo prediletto è un granaio, nel quale si ritrovano in segreto numerose donne, personaggi principali della narrazione.
Gli individui maschili della società, invece, sono momentaneamente assenti, parte di loro infatti sono stati arrestati e imprigionati poiché, tramite l’utilizzo di tranquillanti per mucche, hanno messo in atto violenze sessuali notturne a danno delle donne della comunità e perciò gli altri uomini sono partiti per assistere all’udienza per la cauzione.
Nessun personaggio maschile, tranne August (interpretato da Ben Whishaw, personaggio positivo e unico individuo non femminile accettato nel fienile), viene visto in viso durante la narrazione.
Le protagoniste stanno provando ad affrontare un processo di individuazione e separazione dal potere maschile, cercando di prendere in plenaria femminile una scelta per il proprio futuro: restare e combattere per la parità, andarsene, o arrendersi al potere maschile.

“Quel che segue è un atto di immaginazione femminile”

Il titolo di questo paragrafo viene ripreso dalla premessa del libro della Toews e viene riutilizzato dalla Polley per introdurre la propria pellicola. Le autrici ci pongono così, fin da subito, nella posizione di dubitare che ciò che stiamo per leggere/vedere sia reale, genuino.

Il film della Polley non mostra mai l’atto di violenza, ma ne mostra certamente tutte le conseguenze. Il film introduce il tema in modo crudo e molto chiaro, aprendosi con un frame del recente passato di una donna che si sveglia nel suo letto, prima intontita ma poi spaventata alla vista dei lividi che riporta su gambe e inguine. “Madre” “Ancora” sono le uniche due parole dette dalla donna prima di scoppiare a piangere nelle braccia della madre. Lei non è né la prima, né l’ultima a risvegliarsi con addosso i segni del violentatore, infatti nelle scene ambientate al presente l’abuso sessuale si colloca nella stanza del fieno come l’Innominabile: nessuna delle protagoniste lo chiama per nome, ma tutte ne riconoscono la presenza (“E in quella voragine di silenzio si annidava l’orrore”). Vediamo altri segni lasciati da questa presenza, come l’attacco di panico avuto a circa metà film da Mejal (Michelle McLeod), la quale utilizza frequentemente marijuana per tenere a bada le proprie, così chiamate nel film, “crisi”, il senso di colpa e vergogna provato dalle vittime, il malessere individuale, il suicidio.
La narratrice fuori campo descrive la provenienza di lividi e sintomi così: “Quando ci svegliavamo con i segni di mani invisibili, gli anziani ci dicevano che erano opera dei fantasmi, o di Satana”.
L’abuso, all’interno di questa comunità, viene giustificato come una punizione impartita da un essere spirituale. La scelta di tale storia di copertura è “semplice”, il colpevole non è punibile e la colpa viene attribuita alla vittima, l’atto meritevole di punizione infatti non viene nominato e perciò percepiamo che nell’ottica maschile della comunità sia l’essere donna l’atto da punire.
La religione, in questo caso, viene utilizzata per mettere in atto ciò che viene definito gaslighting: processo di manipolazione mentale che rientra tra le forme di violenza psicologica. Questo tipo di maltrattamento affonda le sue radici nell’insicurezza e nel dubbio, viene infatti minata la capacità della vittima di riconoscere tra realtà e ricostruzione malevola dellə gaslighter. Quest’ultimə manipola la vittima convincendolə che ciò che percepisce o ricorda sia falso, inaffidabile, poco credibile, il tutto perché è la vittima stessa a essere sbagliata (Stark, 2019).
Nel nostro film, le protagoniste femminili riescono però a uscire da questo meccanismo, condividendo i propri vissuti e trovando forza nel gruppo, come in un cinematografico MeToo.

Reazioni al trauma

Possiamo percepire le scelte messe sul tavolo dalle protagoniste come la rappresentazione metaforica delle reazioni che si possono avere a un evento traumatico.
Per spiegare questo paragrafo, non me ne vogliate, è necessario introdurre un po’ di neuropsicologia. Secondo la teoria polivagale di Porges (2014), il nostro sistema nervoso reagisce alle sfide in modo adattivo, cercando di mettere in sicurezza l’individuo. L’autore, partendo dal funzionamento del sistema nervoso autonomo – componente del sistema nervoso che controlla gli organi interni e alcuni muscoli-, pone il nervo Vago – decicmo e ultimo nervo cranico – come protagonista nella protezione dai pericoli. Tale nervo, infatti, permette una difesa personale su tre livelli: sociale, attacco/fuga e freezing. Se comunicare verbalmente (livello sociale) non ci salva dal pericolo, allora possiamo agire attaccando la minaccia o fuggendo da essa (secondo livello). Se, però, nemmeno fuggire è permesso, allora il nostro sistema nervoso collassa e la persona si immobilizza (ultimo livello).
Possiamo quindi vedere forti somiglianze tra il secondo e il terzo livello di difesa con le scelte per il futuro che le donne discutono nel granaio. Il livello sociale possiamo considerarlo come già messo in atto ma non sufficiente alla difesa, perciò si rivela necessaria la valutazione di gruppo dei due livelli di protezione rimanenti.
È interessante quindi osservare come la regista decida di mostrarci, consapevolmente o meno, queste tre reazioni tipiche delle persone di fronte a una situazione di pericolo, come quella che le nostre protagoniste stanno vivendo.

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Autonomia, speranza e religione

Il fienile nel film è la rappresentazione di un’aula parlamentare. Le protagoniste dibattono il da farsi cercando di comprendere quale scelta possa essere la migliore: non solo per loro, ma per tutta la comunità femminile.
Qui August assume un duplice ruolo: incarnazione della complicità e simbolo di speranza.
All’interno del fienile non è solo l’unico maschio, ma anche l’unica persona alfabetizzata. I nostri personaggi femminili infatti hanno bisogno di lui per poter mettere nero su bianco i pro e i contro delle varie scelte, per poter redigere il verbale; ne hanno bisogno per poter scegliere. La sua figura, quindi, ci ricorda continuamente come queste donne non siano ancora indipendenti e come tale situazione di sottomissione sia permessa anche dalla complicità maschile, dove coloro che non abusano rimangono partecipi nella passività del silenzio conscio. Vediamo quindi alcune protagoniste rispondere in modo piccato ad August, anche quando le sue intenzioni sono più che benevole. Le donne percepiscono infatti la sua presenza come minacciosa, ma nella forza del gruppo impongono le proprie idee e la propria autonomia. Riportiamo un esempio citando la scena al minuto 47 del film in cui vediamo August rielaborare una frase detta dalle donne a favore della scelta di andarsene e Salome (Claire Foy) rispondergli: “Sono parole tue, non nostre, non ci serve il tuo lessico da università per decidere”.
August, però, non è solo un simbolo di complicità. Egli ci mostra infatti come non sia corretto fare di tutta l’erba un fascio: è rappresentazione della capacità di sfruttare la propria posizione privilegiata per promuovere e supportare la parità di genere. Questo personaggio rappresenta la speranza femminista che gli uomini si interessino alla lotta per la parità e che vi partecipino, poiché possono rappresentare una risorsa importante alla causa.
Lungo tutta la pellicola vediamo però come questa dipendenza dall’uomo gradualmente diminuisca, le nostre donne prendono voce, sostenendo le proprie tesi, cercando di imporsi per la prima volta nella vita. Molto potente è il discorso che Mariche fa verso la fine del film, dopo l’ennesima violenza fisica da parte del marito: “Abbiamo deciso che abbiamo diritto a tre cose: vogliamo che i nostri figli siano al sicuro, vogliamo essere salde nella nostra fede… e vogliamo pensare”.
In ultimo, anche la fede delle protagoniste subisce un mutamento, da motivo di immobilità a possibilità di cambiamento. La religione filo-cristiana delle protagoniste imporrebbe loro di perdonare gli aggressori, infatti il patto con gli uomini è che al loro ritorno vi sia perdono, altrimenti la donna verrà esiliata dalla comunità. Nella discussione si introducono alcuni sermoni e alcuni canti che sono rappresentazione religiosa delle loro scelte per il futuro, è la stessa Ona (Rooney Mara) a dircelo: “Anch’io ho pensato al versetto dei Filippesi. Ho pensato a cosa è buono. La libertà è buona, è meglio della schiavitù. Il perdono è buono, è meglio della vendetta. E la speranza nell’ignoto è buona, è meglio dell’odio per ciò che è familiare”. Il perdono, per la religione, è cardine e fondamento, ma comprendono che la loro fede impone di perdonare per scelta e non per obbligo, perciò la fede diventa supporto e forza alla loro presa di posizione, senza più confonderlo, come ci dice Agata (Judith Ivey) con la concessione.

Rivoluzionare il ruolo della vittima

In questo film, le vittime, non vengono rappresentate come siamo abituati a pensarle. Spesso esse vengono stereotipate come esseri umani deboli e passivi, ma qui la regista ci offre una visione nuova: la vittima come essere umano attivo, forte e autodeterminato.
Perché siamo portati a rappresentarci le vittime come individui poco forti o addirittura impotenti? In termini tecnici, le vittime possono distinguersi in reali e ideali: mentre le prime sono vittime fortuite, accidentali o “selezionate” dall’autore del reato, le seconde sono persone che colpite da un reato ricevono immediatamente e completamente lo status di vittima. Queste ultime generalmente sono deboli, rispettabili, innocenti; rientrano in questa categoria bambinə, anzianə, donne, persone disabili o persone socialmente isolate (Zara, 2018).
Nel film, vediamo quindi smontarsi questa visione stereotipica della vittima. Portando sullo schermo delle donne forti “nonostante tutto” la regista ci offre una nuova visione dell’oppressə, come scrittore/scrittrice nella propria storia di vita e non unicamente come lettore/lettrice. Polley scandaglia in modo magistrale con i suoi personaggi i vari tipi di reazione individuale al trauma: rabbia, rassegnazione, speranza di cambiamento e silenzio. Soprattutto riguardo a quest’ultima e al personaggio di Scarface Janz (interpretata da Frances McDormand) vorrei portare una riflessione. Janz, che nella comunità rappresenta l’anziana del gruppo, partecipa alla votazione ma la abbandona quando la scelta di rassegnarsi passivamente viene eliminata e perciò le uniche possibilità implicano l’agire. Può facilmente essere interpretata come un personaggio negativo, la sua inazione infatti si estende a macchia d’olio anche alla figlia, in modo qui anche attivo, intimandola a rimanere nonostante ella voglia cambiare la propria esistenza. Però, sarebbe eccessivamente semplicistico fermarsi a questo livello d’interpretazione, Janz rappresenta l’irrigidimento della vita in una spirale di paura e terrore come conseguenza della violenza psicologica subita e del trauma ripetuto.
Nel momento in cui si subisce un trauma, soprattutto se perpetuato nel tempo, è possibile che il circuito della paura (circuito neurale che si occupa della sperimentazione di tale emozione) si cristallizzi in uno stato di iperattivazione, rendendo il soggetto ipervigile e perennemente spaventato. Si possono sperimentare disturbi del sonno, attacchi di panico e scarsa autostima. Inoltre, si può generare quella che viene definita dipendenza affettiva, dove l’esistenza senza l’altro membro della coppia viene percepita come impossibile e perciò la paura della rottura della relazione e dell’ignoto è più grande di quella sperimentata per la violenza. È comprensibile quindi che il personaggio di McDormand scelga di non scegliere e rappresenta per noi tutta quella parte silenziosa del trauma al quale vorremmo far arrivare il messaggio che è possibile uscirne.

Tirando le somme

Questo film si incentra fin dal titolo su una singola cosa: la parola. La vera protagonista del film è la voce delle donne e in 100 minuti non possiamo che ascoltare ogni singola frase con famelica curiosità e necessità di comprendere le varie posizioni.
La Polley non avrebbe potuto rappresentare al meglio il sistema gerarchico e patriarcale che spesso caratterizza questo tipo di comunità chiuse, mostrando però come le donne possano prendere parte al cambiamento ideandolo, decidendolo e attuandolo.
Decidono di andarsene, di comune accordo tra loro e con la loro religione, che vedono come parte fondamentale e integrante di sé. Scelgono di cambiare senza combattere, di creare qualcosa di nuovo lasciando un mondo che vedono ormai distrutto alle loro spalle.
Questo film pone spettatore e spettatrici, dall’inizio alla fine, di fronte a mille dilemmi che possono sembrare irrisolvibili: era meglio restare e combattere o hanno fatto bene ad andarsene? La religione è stato motivo di cambiamento o un fantoccio di un desiderio puro e recondito ma non completamente accettato?
Sono domande alle quali l’unica persona che può rispondere siamo noi, perché sono individuali, intime, personali, come quella effettuata dalle protagoniste.
L’importante è saper ascoltare.

BIBLIOGRAFIA
C. A. Stark, Gaslighting, misogyny, and psychological oppression. The Monist, 102(2), 221-235, 2019.
G. Zara, La psicologia della «vittima ideale» e della «vittima reale». Essere vittime e diventare vittime di reato, 2018.
Credits
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Foto di Gotta Be Worth It: https://www.pexels.com/it-it/foto/panno-in-stile-marocchino-verde-acqua-e-bianco-1021204/
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