In questi giorni è uscito Dogman di Luc Besson. È un film particolare e, in quanto tale, sembra aver diviso la critica come ə spettatorə, con opinioni che spaziano dal geniale alla cafonata, dall’innovativo al cliché, dal profondo all’inconcludente. Insomma, un film su cui sembra esserci molto da dire e di fatto questa frase riassume benissimo come mi sono sentita vedendolo in sala.
L’altra parte importante della mia esperienza è la consapevolezza di come i pensieri e le emozioni che provavo fossero a miglia di distanza da quelli della maggior parte del pubblico. Perché, quando fai parte di una minoranza, un’abitudine a cui inizi a fare il callo è di dover vedere film che per registə, attorə, pubblico e critica parlano dell’altro, ma per te è tutto al contrario, perché il film parla di come il mondo vede te. E posso garantire che ci sono poche cose più alienanti dell’essere vistə e descrittə da persone lontanissime dalla propria esperienza.
Lenti queer
Cercando di riassumere la trama senza fare spoiler, il film segue la vita di Doug che, dopo aver subìto abusi dal padre durante l’infanzia, crea un legame profondo con i cani che allevava la famiglia. Queste creature diventeranno la sua nuova famiglia e condividerà con loro la propria vita, sentendo il rifiuto del resto del mondo verso la propria esistenza. Tale rifiuto sfocerà in una violenza crescente che porterà allo scontro sanguinoso tra Doug, aiutato dai suoi fedelissimi cani, e un gruppo di criminali locali.
Doug usa nel film pronomi maschili, come di conseguenza farò io in questo articolo per parlare del personaggio, e durante il film né lui né altri lo identificano esplicitamente come una donna trans o una persona non binaria.
Dal momento però che il personaggio ha in molte parti della sua vita privata e pubblica un’espressione di genere femminile, il film è comunque uno della lunga lista di pellicole che ci rappresenta sullo schermo senza fare il nostro nome. E come molti altri ci racconta in modo confuso, attingendo a piene mani dai vecchi stereotipi con cui i generi horror e thriller mostrano da decenni le persone non conformi alle aspettative cisgender.
Il primo fra tutti di questi cliché è proprio l’uso che la pellicola fa della non conformità. Doug nel film è il protagonista, un personaggio con cui il pubblico dovrebbe empatizzare, ma anziché mostrarci la sua espressione di genere come una semplice parte di ciò che lui è, il film la usa per accentuare il suo ruolo di emarginato, qualcuno che non ha posto nella società, per creare distanza tra il pubblico e la tragica figura di un ‘altro’, il classico mostro da compatire.
Questa visione che il film vuole darci è evidente nel momento in cui si esaminano le scelte della regia e della fotografia: in tutte le scene in cui Doug applica make up o indossa vestiti o elementi ‘femme’, viene inquadrato con angoli strani e alienanti e luci molto dirette, con lo scopo di far risaltare i tratti ‘maschili’ del suo corpo o del suo volto e l’intento di mostrare al pubblico un risultato ‘non riuscito’ ed estraniante secondo la visione del regista. L’unica possibile eccezione è una performance fatta su un palco dal personaggio, ma nel resto del film questo intento è ulteriormente calcato con molteplici scene in cui Doug viene mostrato col trucco rovinato da una qualche circostanza, come ad esempio in tutta la sequenza dello scontro con i criminali in cui si cerca di rappresentarlo come una figura il più mostruosa possibile.
Il film chiarisce che questa espressione di genere è connessa all’identità di Doug, ma l’origine di essa è un altro luogo comune già visto; è infatti identificata a livello esplicito nei traumi infantili subiti dal personaggio e in un ‘non sapere bene chi si è’. A livello implicito, volendo leggere alcune scene con la lente della tipica psicoanalisi spiccia da cinema, le altre influenze suggerite dal film sono il rifiuto per la figura maschile del padre e per la propria stessa mascolinità, vista come negata agli occhi degli altri dalla disabilità del personaggio.
Riguardo a tale disabilità, ci sarebbe altro da dire in come questo film identifica e rappresenta ‘l’altro’ e ‘l’emarginato’. Mi pare che molto di quello che c’è di problematico nell’uso che la pellicola fa dell’identità e dell’espressione di genere del personaggio sia applicabile anche all’uso che fa della sua disabilità, ma non essendo una persona disabile preferisco evitare di parlare al posto di altrə, e concentrarmi su quello che conosco in prima persona.
Tornando all’espressione di genere, questa è definita come una serie di ‘travestimenti’ che Doug usa per allontanarsi da un’identità che lo fa soffrire, e il film prova a comunicare questa idea anche visivamente. Verso la fine della pellicola avevo perso il conto del numero di scene in cui Doug si toglie di dosso parrucche, make up e abiti femminili. Di fatto il film sembra quasi avere l’ossessione di mostrarci il ‘vero aspetto’ del protagonista, elemento presente in molte opere che, a livello più o meno esplicito, identificano le donne trans come uomini con indosso un elaborato costume e inseriscono scene in cui questa ‘finzione’ viene svelata.
Oltre lo schermo
Per comprendere il problema fino in fondo, è importante capire che questi elementi non sono solo scelte narrative di un film, ma hanno impatti sulle persone transgender nella vita reale.
Mostrare come strani e alienanti il make up e una espressione di genere femminile su un corpo e un volto che divergono dalle aspettative cisgender, non rimane senza conseguenze. Allo stesso modo in cui il linguaggio visivo dei film influenza quali corpi e tipi di aspetto siano da ritenersi belli e desiderabili, e quali invece siano criticabili e da nascondere, può anche influenzare in modo profondo le reazioni e opinioni delle persone su cosa sia da ritenersi ‘normale’ e cosa ‘strano’.
L’esperienza di essere fissata come una singolare specie mai vista prima è qualcosa che non augurerei a nessuno, ma è una reazione che incontro regolarmente quando esco dall’espressione di genere maschile che la gente si aspetta da me, e ogni volta trovo maleducati che mi fissano con gli occhi stolidi e lo sguardo vacuo di chi guarda la nuova attrazione in un acquario.
Durante la proiezione di Dogman ero l’unica persona in sala con indosso del make up su un volto che, a questo punto della mia transizione, ha ancora tratti ‘maschili’. Dopo un’ora e cinquantaquattro minuti passati a vedere un film che rappresentava un volto per questo verso simile al mio – come il tratto di una figura tragica e tormentata, alienante ed alienata, una figura che molte persone stanno paragonando al Joker di Joaquin Phoenix nelle recensioni del film -, il disagio che ho sentito quando si sono accese le luci è qualcosa di molto difficile da spiegare a chi non è mai statə costante oggetto di una rappresentazione completamente aliena a ciò che si è.
Il messaggio finale
Arriviamo quindi alla parte della recensione dove saranno fatti spoiler – suggerisco a chiunque voglia evitarli di passare alla sezione successiva. Perché la prossima cosa di cui serve parlare è proprio il finale del film.
Non so quante persone si fossero aspettate un lieto fine date le soprastanti premesse. Un po’ io ci avevo sperato, anche se non davvero creduto, in un finale positivo.
O almeno in un finale che mi dicesse che una persona come me possa effettivamente vivere. Ma questo non è un elemento che io sia abituata a vedere nella rappresentazione che viene data di noi.
In breve, alla fine del film Doug si suicida. Questa decisione della sceneggiatura mi è sembrata immotivata e forzata, come se il film si fosse abbandonato senza resistere alla corrente dei cliché con cui vengono raccontate queste figure, sia i personaggi queer che i ‘mostri’ tragici segnati da tratti che ne determinano il rifiuto da parte della società.
È stato un finale estremamente difficile da guardare; per me è un’esperienza molto diversa dall’assistere al semplice climax emotivo di un dramma, a una interessante tragedia che esiste in uno spazio immaginario ed è separata da me.
Durante il 2022 cinque persone trans si sono tolte la vita in Italia e altre cinque sono state uccise.
Il suicidio e il rischio di violenza sono temi che per me e per moltissime persone della comunità trans sono anche troppo concreti.
È tutta la vita che vedo questo essere il fato più comune delle persone trans nei media: una morte violenta, tragica, prematura. Davanti un finale del genere non individuo la tragica bellezza poetica della vicenda, ma solo un altro media che mi dice la stessa cosa: che, nonostante tutta la simpatia e tutta la pietà non richieste che mi possano essere buttate addosso, io non sono una persona che possa vivere in questo mondo. E sono stufa marcia di sentirmelo dire.
Conclusioni
Nonostante tutti questi problemi, ci sono stati dei momenti in cui il film mi è piaciuto perché, nelle tregue tra uno stereotipo transfobico e l’altro, c’era anche qualcosa di nuovo.
Che io abbia memoria, questo è l’unico film che abbia mai visto in cui un personaggio con un’identità o un’espressione di genere non conforme ad aspettative cis avesse un ruolo da protagonista in scene di azione.
E, per quanto possa sembrare strano dirlo, vedere un personaggio così far mangiare vivo il cattivo di turno dai suoi cani, dentro un film che suggerisce che dovremmo tifare per lui, è stata un’esperienza davvero rinfrancante dopo anni di rappresentazioni in cui le persone trans sono state rigidamente costrette nei ruoli di cattivi psicotici, target di battute transfobiche, morti tragiche o, nei rari casi di rappresentazione ‘positiva’, raccontate solo in relazione alla transfobia e discriminazioni che subiscono, con le nostre vite ridotte unicamente a sottomettersi a queste violenze e all’esperienza della transizione.
E vorrei davvero vedere più rappresentazioni portarci fuori da questi ruoli. Vorrei vedere altri antieroi trans che uccidono i loro nemici in modo brutale. Vorrei vedere film d’azione ‘ignoranti’ in cui una persona trans salta al rallenty per scampare a un’esplosione, serie teen drama in cui la storyline di una persona transgender ruoti attorno a un triangolo d’amore scemo e scontato anziché alla transfobia, fantascienza cupa e distopica in cui un poliziotto trans si aggiri tra i vicoli di una megalopoli in cerca di risposte. Dogman avrebbe potuto essere un passo avanti in questa direzione, e avrebbe potuto esserlo raccontando in larga parte la stessa storia, ma scegliendo di trattare l’identità e l’espressione di genere del protagonista come una parte naturale di lui.
È un peccato che il film non l’abbia fatto, ma è chiaro che, dopo decenni di pellicole che mostrano le persone non conformi agli standard più o meno allo stesso modo, questi errori non vengono notati, anche perché quando gli errori sono la maggioranza di ciò che è visibile cominciano a sostituire agli occhi di tutti quello che la cosa stessa è.
Per fare meglio, per uscire da una rappresentazione delle persone trans, o in generale non conformi alle aspettative cis, fatta unicamente dall’esterno, che prende ad esempio solo se stessa e continua a perpetrare gli stessi cliché e gli stessi stereotipi, è essenziale cominciare a notare tali elementi, e che le persone parte di una minoranza siano incluse a lavorare nei media che li raccontano. Se no, questo serpente che si morde la coda andrà avanti per un bel pezzo.