Articolo di Attilio Palmieri
Lo scorso 4 luglio Donald Trump ha organizzato i festeggiamenti per l’anniversario dell’Indipendenza degli Stati Uniti d’America sul Monte Rushmore, nell’ambito di un evento in cui c’erano tantissime persone accalcate e senza mascherina, fuochi d’artificio nonostante in quella zona siano proibiti dal 2010 per il rischio incendi, e al centro un discorso – quello del Presidente – che ruotava attorno alle solite parole chiave. Tra i passaggi più citati, naturalmente, c’è l’ormai classica invettiva contro le “forze estremiste di sinistra e il loro nuovo fascismo che intende cancellare i simboli del Paese”. In questo modo, Trump non fa che rincarare la dose di violenza e delegittimazione nei confronti delle persone appartenenti a categorie marginalizzate utilizzando la trita e ritrita retorica del “nuovo fascismo” con l’obiettivo di trasformare gli oppressi in oppressori e vestire le classi privilegiate con un posticcio e abbastanza ridicolo vittimismo.
Non si tratta di una cosa sorprendente, ma di una posizione di difesa passivo-aggressiva – quando non esplicitamente violenta – adottata da persone privilegiate terrorizzate dal fatto che chi è stato per anni silenziato con la forza ora sta facendo sentire la propria voce. Sotto questo punto di vista, il caso “Via col vento” ha valore emblematico perché è sorto al momento giusto, generando una serie di reazioni interessanti e facendo emergere la trasversalità di una posizione che in tanti pensavano appartenere solo all’estrema destra. È abbastanza evidente, infatti, che più che dirci qualcosa di illuminante sull’industria culturale, la vicenda di “Via col vento” ci ha detto cose molto importanti su di noi come comunità, su chi siamo, su come siamo divisi e su cosa stiamo diventando.
Ma facciamo un passo indietro. Sull’onda delle proteste legate al movimento Black Lives Matter in seguito all’assassinio di George Floyd, è ritornata in superficie anche la problematicità di “Via col vento”, messa in evidenza da un articolo su Los Angeles Times dello sceneggiatore afroamericano John Ridley. Il premio Oscar per “12 anni schiavo” ha chiesto a HBO Max, la piattaforma di Warnermedia, di prendere una posizione facendo ciò che si fa con molte opere problematiche (eufemismo) in tante altre forme espressive, ovvero realizzare un’introduzione critica che – assieme ai meriti del film – sottolinei anche gli stereotipi razzisti presenti e ricordi che già allora l’operazione è stata abbondantemente criticata dalla comunità afroamericana. Pochi giorni dopo l’uscita dell’editoriale di Ridley, la piattaforma di streaming HBO Max ha annunciato il ritiro temporaneo del film e la volontà di ricaricarlo in breve tempo nella sua versione originale con l’aggiunta di un’introduzione che avrebbe aiutato il pubblico nella visione dell’opera.
La risposta a questa vicenda in alcuni casi è stata quella di chi non aveva voglia di comprendere il senso dell’operazione, soprattutto in Italia dove già con il caso Louis C.K. abbiamo avuto prova di come il nostro Paese sia profondamente indietro riguardo alla difesa dei diritti e delle voci delle persone appartenenti a categorie marginalizzate. C’è stato chi, per esempio, ha immediatamente (e senza alcuna ragione) citato la fantomatica “dittatura del politicamente corretto”, tanto cara a Trump ma che è utilizzata come argomento anche da persone che fino a ieri non si definivano di destra. Alcune reazioni sono state particolarmente scomposte, chiamando in causa addirittura la censura, come se il film non fosse disponibile su tante altre piattaforme e come se non avessero letto il comunicato di HBO Max, che manifestava un obiettivo esattamente opposto alla censura, ovvero quello di tutelare l’integrità e il valore artistico dell’opera ma al contempo non tirarsi indietro dal prendere una posizione di supporto a una comunità – quella afroamericana – che mai come in questo momento ha bisogno di un appoggio più trasversale possibile.
Mentre in tanti sui social si affannavano a parlare di bavaglio, sostenendo che l’Arte (ovviamente con la A maiuscola) non ha bisogno di spiegazioni, che si tratta di un’opera di tanti anni fa (come se questo rendesse tutto meno grave o come se non fosse una cosa violenta già all’epoca) e che la “dittatura del politicamente corretto” sta creando un clima oscurantista e un nuovo medioevo, HBO Max annunciava il reinserimento del film anticipato da un’introduzione di Jacqueline Stewart, docente dell’Università di Chicago nonché una delle studiose di Film Studies più prestigiose al mondo.
In meno di cinque minuti, Stewart ha sintetizzato sia il valore artistico di “Via col vento” sia i suoi lati più problematici, quelli che hanno sollevato feroci critiche anche all’epoca per via di una rappresentazione romanticizzata della schiavitù, amplificata dal successo popolare del film.
Passata la bufera polemica, questa storia ha fatto luce su un sistema culturale (che è prima di tutto un sistema di potere) che anziché supportare l’incontro sinergico tra ricerca accademica, divulgazione, distribuzione cinematografica e fruizione – ovvero il sogno di chiunque si occupi di audiovisivi in maniera specializzata – vi si è opposto, per la paura di perdere il controllo del racconto (in senso lato), mascherata da una molto vaga difesa dell’Arte. E poco importa che l’Arte stessa non sia mai stata in pericolo.
Dovremmo aver imparato la lezione, no? Neanche per sogno. L’ossessione per l’immaginaria “dittatura del politicamente corretto” sembra invece radicarsi sempre più in profondità – e non solo negli ambienti di estrema destra – partecipando da protagonista a quella polarizzazione che vede al capo opposto un insieme crescente di persone sempre più “woke” e disposte a esporsi in difesa delle persone marginalizzate.
È in questo assetto che arriva con preoccupante tempismo l’ormai famosa lettera di Harper’s Magazine, in cui circa centocinquanta firmatari afferenti più o meno al mondo liberal, provenienti dal settore dell’università, della cultura e dell’editoria e abituati a ricevere soprattutto atteggiamenti reverenziali, sostengono che ok le critiche, ma le cose ora stanno sfuggendo di mano, che va bene protestare ma fino a un certo punto (e chissà chi lo decide quel punto) e che il boicottaggio rappresenta il male perché mette a repentaglio la libertà d’espressione. Insomma, una delle riviste letterarie più prestigiose al mondo raccoglie le firme di persone oggi particolarmente privilegiate per puntare il dito contro la cancel culture con una lettera che fa però leva sulla retorica del free speech al pari dell’alt-right, e che da una parte pretende un dibattito aperto ma dall’altra comincia proprio delegittimando ogni genere di critica, paragonando addirittura a Donald Trump chi non ci sta a sentirsi cancellato da commenti e visioni del mondo escludenti (J.K. Rowling, legittimamente accusata da più parti per le sue posizioni TERF, è tra le firmatarie della lettera).
Una delle costanti che tiene insieme queste questioni, emersa in maniera lampante con la lettera uscita su Harper’s Magazine, è il vittimismo con cui si identifica nel politicamente corretto il nemico della libertà di pensiero, nel tentativo di continuare a mettere con la testa sott’acqua le persone marginalizzate e permettendo a chi ha il potere di conservare il proprio privilegio costruendo uno spauracchio da demonizzare. Basta però sforzarsi un po’ per capire – come sottolinea Mary McNamara su Los Angeles Times – che la cancel culture non c’entra nulla con i vaghi esempi riportati dalla lettera (qui debunkata con precisione), che invece punta il dito su chi il potere non ce l’ha e sceglie liberamente di eliminare le opere di alcune persone dalla propria dieta mediale, per portare alla luce fenomeni di razzismo, sessismo, omofobia, transfobia e molestie sessuali che per anni sono stati sistematicamente insabbiati e che oggi possono emergere solo grazie al coraggio di chi, dal basso, sfida la reputazione di chi opprime. Il successo crescente di queste azioni (che appartengono più alla call out culture) è dato anche dalla loro intersezionalità, perché unire le lotte contro discriminazioni così diverse crea massa critica e fa sentire più fortemente le voci di coloro che, insieme, sono tutt’altro che una minoranza e allo stesso tempo circoscrive in categorie ben precise coloro che hanno sempre inteso il loro sguardo come dominante e universale.
Per le persone che da sempre subiscono una sistematica cancellazione (quella vera), che sia identitaria o artistica, dare fastidio è l’obiettivo e ogni critica di tone policing non fa altro che confermare la giustezza del metodo. Il piagnisteo dei firmatari della lettera di Harper’s Magazine se messo a sistema con chi quotidianamente subisce la discriminazione e l’oppressione (e in queste settimane, a seguito dell’assassinio di George Floyd, l’hanno capito un po’ tutti) rasenta il patetismo, perché per quanto J.K. Rowling si possa sforzare di dire cose sempre più discriminatorie verso le persone trans, cancellando la loro identità in maniera violenta, nessuno le ha levato la parola ma al massimo qualcuno ha dichiarato legittimamente di non voler più avere nulla a che fare con lei e con le sue opere.
E serve veramente a poco portare come esempio di censura le scelte di aziende private che decidono di togliere dal proprio catalogo contenuti che secondo loro sono economicamente svantaggiosi in quel momento (come nei casi in cui compare la blackface, la cui rimozione spesso è richiesta dagli stessi autori), perché questa lettera, come sottolineato con precisione anche in questo articolo di Valigia Blu, non si rivolge a quelle aziende (e quindi al potere) ma – in maniera ben più pusillanime – punta il dito contro l’attivismo, utilizzando la propria enorme visibilità per cancellare chi tutti i giorni combatte per non essere discriminato, stuprato, picchiato, abusato, ucciso o cancellato.
Fortunatamente c’è però anche chi non ha paura del prestigio di queste persone, delle loro cattedre o della passione con cui sono venerate; chi – come Alexandria Ocasio Cortez – pur sapendo di mettersi contro un bella fetta di establishment, non ha indugiato un attimo a sottolineare l’ipocrisia e la violenza di quella lettera, ribadendo che gridare alla censura e puntare il dito in questo modo contro la cancel culture rappresenta un’ulteriore forma di oppressione usata da chi in realtà non rischia nulla e semplicemente non è abituato essere messo in discussione.