Difficilmente ti sarà capitato di imbatterti nello studio e nella progettazione di pittogrammi se non lavori nel campo della grafica, del design, della comunicazione o della semiotica. Eppure, quotidianamente ci troviamo a interagire con dozzine di pittogrammi. Hanno il compito di aiutarci in ogni azione che facciamo e guidarci in uno spazio pubblico, in un’app mobile o in una piattaforma digitale o fisica. Ma quanto rispecchiano davvero la nostra società e le identità di genere senza generare barriere e sessismo?
Facciamo un passo indietro
Che cosa è un pittogramma? Non è altro che una delle forme più semplici e stilizzate di disegno, utilizzata convenzionalmente per veicolare un significato o un messaggio. Pensa, ad esempio, al simbolo per comunicare il divieto di fumo dentro a un locale, al segno sulla porta del bagno degli uomini e delle donne o ancora al segno che vedi sopra alcuni sedili in treno per indicare che sono riservati a persone incinte.
Ecco, quelli sono tutti pittogrammi.
La nascita dei pittogrammi è antichissima: viene fatta risalire addirittura al 30.000 a.C. circa, quando ogni disegno rappresentato nelle pitture rupestri aveva un preciso significato. Il passaggio chiave avviene però all’inizio dell’epoca moderna e dell’industrializzazione, quando i pittogrammi vengono codificati e standardizzati diventando così specchio e portavoce del contesto sociale e culturale.
Una questione di convenzioni
Agli inizi del Novecento il filosofo Otto Neurath sviluppa il sistema Isotype, ossia il sistema codificato e universale dei moderni pittogrammi. Lo scopo sarebbe quello di poterli applicare in tutti i contesti e a tutti gli oggetti possibili. Ciò permette di comunicare per immagini in modo semplice e immediato e di superare anche le barriere linguistiche.
Pensiamo alla segnaletica in strada, in aeroporto e negli ospedali, alle infografiche sui giornali e in rete e a tutte le rappresentazioni semplici di dati complessi: la matrice di derivazione è il sistema Isotype.
Il binomio uomo-donna
In questo sviluppo di un sistema di pittogrammi moderni non mancano i due segni forse più utilizzati in assoluto: il pittogramma dell’uomo, rappresentato da una silhouette maschile stilizzata e il pittogramma della donna, rappresentato da una silhouette femminile stilizzata. Due pittogrammi che – nella loro estrema semplicità – riescono a essere compresi in modo immediato da persone di ogni età e livello di alfabetizzazione. Simboli precisi che, nonostante l’evoluzione sociale e culturale costante, sono rimasti inalterati nel tempo.Se proviamo ad analizzarli da un punto di vista femminista e inclusivo emergono delle criticità che meritano una riflessione. La struttura anatomica delle due figure è identica e non ci sono connotati sessuali che fanno capire quale pittogramma rappresenti l’uomo e quale la donna (per fortuna, direi). La scelta che invece è stata fatta per differenziarli ricade sull’abbigliamento: il pittogramma attribuito all’uomo veste i pantaloni, quello attribuito alla donna indossa invece una gonna.
Una scelta sicuramente intelligente, ma che imprime e divide le persone in una logica binaria, rappresentandole secondo uno stereotipo ben preciso: l’uomo porta i pantaloni, la donna la gonna. Un cliché che si è consolidato nei secoli.
La scelta intrapresa segue fortemente il genere di una persona, ossia quell’insieme delle norme e consuetudini che definiscono il ruolo di una persona nella società, dalla società. Una rappresentazione che, purtroppo, non rispetta e abbraccia l’ampio spettro delle identità di genere, ovvero quell’identità soggettiva in cui ogni singola persona si identifica (cisgender, transgender, non-binary…).
Un caso pratico: il bagno pubblico
Un contesto di applicazione che sicuramente conosciamo e con cui interagiamo anche frequentemente è la segnaletica nei bagni pubblici – oggi più che mai generatrice di barriere e disagio. In quale porta dovrebbe entrare una persona che si identifica come non-binary o transgender? Perché dovrebbe sentirsi rappresentata da un pittogramma in pantalone o in gonna? E ancora: in quale porta – secondo questa rappresentazione – dovrebbe entrare una madre che accompagna un figlio maschio o un padre che accompagna una figlia femmina? Un discorso a parte merita, infine, il bagno per persone con disabilità: pensiamo sia davvero inclusivo rappresentare la totalità delle persone disabili attraverso una silhouette di una persona in sedia a rotelle impressa sulla porta? Sicuramente si può fare di meglio.
Alcune possibili soluzioni
Da comunicatrice e progettista ho riflettuto su quali scelte potremmo fare per ripensare il sistema di pittogrammi, in modo che rappresenti inclusivamente e rispettosamente ogni identità con una prospettiva di genere attuale.
Un primo tema delicato su cui dovremmo riflettere è: sarebbe più intelligente, funzionale e inclusivo attribuire un pittogramma a ogni identità oppure progettarne uno che le racchiuda tutte? Credo che la risposta non sia né solo la prima né solo la seconda opzione. Quello che potrebbe invece essere utile a seconda del contesto e del messaggio che vogliamo veicolare. Tornando al discorso sui bagni pubblici: potrebbe essere più funzionale creare un bagno genderless? Sicuramente sarebbe più inclusivo e magari accorcerebbe anche i tempi di attesa. Alcuni locali ed esercizi pubblici attenti al tema dell’inclusività o locali queer hanno già fatto questa scelta. Personalmente la apprezzo molto e mi fa percepire un maggiore senso di accoglienza.
E dal punto di vista formale ed estetico come potremmo superare l’associazione stereotipata uomo-pantalone e donna-gonna? In rete circolano delle soluzioni curiose come ad esempio aggiungere un terzo pittogramma di una persona che indossa una gonna e un pantalone a metà. Una scelta visiva che potrebbe essere utile per includere anche tutte le persone genderfluid o non binarie, ad esempio.
Per concludere, penso che sarebbe bello – in un futuro prossimo – immaginare e progettare un sistema di segnaletica che non ponga il sesso e il genere socialmente attribuito come barriera e come passaggio fondamentale per accedere a uno spazio fisico o continuare un’esperienza digitale. Dovremmo invece chiederci se sapere o indicare questa informazione abbia una reale utilità. Spesso no.
Pensiamo a quante app e piattaforme digitali in fase di registrazione ci chiedono il nostro genere: quante volte questo dato serve realmente a migliorare l’esperienza dell’utente? Dovrebbe essere più giusto, invece, guidare le persone mettendo reali bisogni, caratteristiche fisiche, comportamenti e preferenze, creando spazi fisici e digitali in cui il ruolo del genere sia sempre più neutrale e richiesto solo e unicamente se strettamente necessario.