Articolo di Alice Picco
“[La guerra] la sopportiamo più del doppio – afferma Lisistrata -. Prima di tutto per aver partorito figli e averli mandati a fare i soldati. Poi, quando potevamo essere felici e goderci la giovinezza, ecco che dormiamo da sole, per colpa delle vostre spedizioni militari. E voi non pensate alla nostra condizione, mentre io mi affliggo per le povere fanciulle, che invecchiano nelle case.”
(Aristofane, Lisistrata, vv. 589-593.)
La guerra è vecchia come il mondo. Miriadi di guerre si sono combattute e altrettante se ne stanno combattendo in questo momento in ogni parte del mondo, non sto certo sconvolgendo nessuno dicendolo. Nell’epoca storica in cui viviamo abbiamo la possibilità di vederne le testimonianze tramite i media – internet, la televisione, i giornali -, un tempo si ascoltava la radio e si leggevano le lettere mandate dal fronte, prima ancora si aspettava e basta, senza avere notizie di nessun genere per mesi o per anni.
Ciò che accomuna mediamente tutte le epoche è il fatto che quando si parla di guerra si parla, nella maggior parte dei casi, di uomini. Sono loro a combattere, sono loro a prendere decisioni, sono loro a guidare le sorti di uno stato, sono loro ad essere feriti o morire, chi nella gloria chi nel disonore.
E le donne? Come si comportano le donne in tempo di guerra? Certo, abbiamo grandissimi esempi di donne partigiane, di soldatesse, di veri e propri generali in gonnella che pilotano aerei e guidano carriarmati. La storia recente ci racconta di donne che si arruolano, donne che secondo alcuni rinunciano alla propria femminilità per ricoprire un ruolo che storicamente è maschile, donne che invece che essere elogiate per il loro coraggio in quanto persone, vengono etichettate subito come sovvertitrici dell’ordine prestabilito, addirittura donne che “rubano il lavoro” agli uomini.
Ma non è di questo che voglio parlare. Voglio parlare delle donne che al fronte non ci vanno, di quelle che non partecipano delle decisioni, di quelle che sperano e pregano, e lo voglio fare raccontandovi come vivevano queste donne nell’antica Grecia.
Prima di tutto, ci si può chiedere se le donne greche si identificassero con gli sforzi compiuti in guerra, se considerassero la vittoria del loro esercito anche come una vittoria personale, oppure se si sentissero piuttosto delle escluse, delle spettatrici innocenti che si trovavano per forza di cose a far fronte alla follia che portava i loro uomini in guerra. A questo quesito credo possa rispondere ancora Lisistrata, che afferma molto chiaramente:
“Dunque, durante il primo periodo della guerra, noi, nella nostra saggezza, abbiamo sopportato da voi uomini – e non lasciavate che ci mettessimo bocca – qualunque cosa faceste: e pure non ci piacevate affatto. Ma noi vi tenevamo d’occhio: e spesso, stando in casa, sentivamo che avevate deciso male su un affare importante.”
(Aristofane, Lisistrata, vv. 507-513)
SI può quindi credere che le donne fossero interessate eccome agli affari di guerra, anche se, naturalmente, nella maggior parte delle attività belliche greche non veniva chiesto il loro parere, né esse si facevano avanti come volontarie.
Tuttavia, quando la guerra imperversava in luoghi letteralmente vicini alle case, non sempre le donne si tiravano indietro. Tucidide racconta che quando un manipolo di tebani tentò di conquistare Platea all’inizio della guerra del Peloponneso, mentre gli abitanti di Platea tentavano di organizzare un contrattacco, le donne e gli schiavi lanciarono grida di guerra dalle case e bersagliavano i tebani con pietre e tegole prese dai tetti. Anche quando il nemico non era ancora sotto le mura, nel caso in cui si verificasse una particolare emergenza, le donne potevano partecipare con un aiuto non combattivo, pensiamo per esempio alle donne che facevano entrare di nascosto in casa armi per uomini altrimenti disarmati da usarsi in un attacco a sorpresa.
Ma qual era l’atteggiamento degli uomini nei confronti delle donne? Dunque, se da quanto detto fin qui penso si può affermare che le donne si identificavano con i loro uomini, non c’è dubbio nemmeno sul fatto che gli uomini credevano di combattere per le donne. É ancora Tucidide ad informarci che era un luogo comune quello di incitare i soldati a combattere per la sicurezza delle loro mogli e di eccitare l’odio nei confronti del nemico attribuendogli l’intenzione di far violenza alle donne. Queste cose venivano dette perché si credeva che avessero un effetto potente in circostanze disastrose e non avrebbe funzionato se gli uomini non si fossero preoccupati per le donne, quindi risulta chiaro che senza alcun dubbio gli uomini andavano in guerra per difendere le loro donne.
Non solo, talvolta i soldati potevano essere influenzati dai sentimenti delle donne, che o li pregavano di restare a casa per proteggere la famiglia o, al contrario – e questi rappresentano i casi più comuni -, li spronavano ad essere più combattivi. Inoltre le mogli possono essere state in grado di condizionare azioni di massa senza parteciparvi direttamente, anche se l’influenza delle donne in Grecia non fu sempre una realtà visibile a tutti.
Quando la battaglia si avvicinava a casa, di norma ci si preoccupava in primis di far sfollare le donne e tutti quelli che non combattevano, mettendo loro a disposizione delle navi o una scorta armata. Altre volte, però, un gruppo di donne veniva appositamente lasciato indietro per preparare da mangiare ai difensori, come ci racconta di nuovo Tucidide. Ovviamente, in questi casi il destino delle donne era quello tipico di chi è preda in una città soggiogata: violenza e schiavitù.
Nelle occasioni in cui la sconfitta sembrava inevitabile gli uomini abbandonavano il posto insieme alle donne e questo poteva verificarsi o per ordine di un potere superiore, o durante un armistizio, oppure di nascosto. Ma c’erano anche occasioni in cui anche la fuga era fuori discussione, occasioni di cui purtroppo mancano testimonianze precise: si suppone che molti uomini per la disperazione si suicidassero gettandosi nel fuoco e che le loro donne spesso li seguissero in questo atto, mostrando assoluta fedeltà e devozione.
Il momento della verità arrivava quando la città era assediata: questo era il caso in cui le donne o combattevano, o fuggivano, o sceglievano appunto la morte insieme ai mariti piuttosto che la sconfitta. Tuttavia, quando la sconfitta in effetti arrivava le donne dovevano sopportarne le conseguenze. Sembra che non temessero tanto la morte quanto il rapimento, che comportava senza dubbio violenza carnale, anche se gli episodi di stupro vengono raramente menzionati quando si parla del saccheggio di una città, ma – si sa – oggi come allora nessuno storico è interessato a narrare le sconfitte e le brutalità subite, perché significherebbe perdere gloria e credibilità.
Non tutte le donne rapite e fatte prigioniere, però, restavano schiave: era legittimo riscattare uno schiavo e restituirlo alla sua terra e ai suoi diritti. Certo è che, ovviamente, quando la terra viene distrutta e i parenti uccisi o resi schiavi essi stessi le possibilità di un riscatto sono molto scarse.
Finora ho parlato di cosa succedeva quando la guerra era vicina a casa, ma com’era la situazione della donna quando la guerra veniva combattuta lontano dalla propria città? Senza dubbio il problema più immediato era la solitudine: le madri perdevano i figli, le mogli i mariti, le ragazze da marito avevano timore che passasse l’età adatta per sposarsi. Oltre a ciò, ovviamente la città andava incontro a privazioni di carattere materiale: i campi non venivano più coltivati, i beni di consumo non venivano più importati e, man mano che la guerra si avvicinava, i raccolti e le proprietà venivano saccheggiati e distrutti.
Tuttavia, una guerra all’estero comportava per le donne molte sofferenze ma raramente pericoli veri e propri; solo quando la guerra arrivava in città le donne erano direttamente attaccate e in questo caso combattevano, ma preferivano restare ai margini finché non venivano chiamate in causa. Di certo questo non poteva e non può essere motivo di biasimo: l’istinto di conservazione è uguale per tutti. Tuttavia, alcune donne si distinguevano – come sempre nella storia – per il loro coraggio e la loro lealtà nei confronti dello stato: esempi sorprendenti di donne che combattono volontariamente in difesa della città provengono soprattutto da Sparta, dove la superiorità della fedeltà allo stato in confronto a quella verso la famiglia era considerata il primo principio nazionale e interessava tanto gli uomini quanto le donne. Ad Atene, invece, la situazione era esattamente opposta: che una donna subordinasse la famiglia allo stato era impensabile.
In breve, si può dire che l’educazione e la vita di una donna ateniese era incentrata sulla famiglia, mentre quella di una spartana era pesantemente condizionata dallo stato.
Non accade così forse anche oggi? Non ci sono anche oggi stati o religioni o dettami che indicano alla donna che cosa sia meglio per lei, senza che la donna stessa possa nemmeno rendersi conti di essere una sorta di pedina?
La risposta purtroppo è scontata: oggi come allora ci sono donne che sono costrette, in nome di un potere o di un bene superiore, a sacrificarsi e a dare la propria vita.
Ma ci sono anche donne che combattono volontariamente tante battaglie, sia materiali sia ideologiche, proprio per permettere alle altre donne, quelle che sembrano non avere possibilità, di riscattarsi e di poter decidere autonomamente, non in quanto donne, ma in quanto esseri umani.