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L’Ultimo Parallelo dell’Anima: l’esplorazione del diverso tra realismo e ambiguità

L’Ultimo Parallelo dell’Anima:
l’esplorazione del diverso tra realismo e ambiguità

statovci
Articolo di Elena Russo

 

Succede così quasi per caso che in un giorno normalissimo ti imbatti in un libro dalla bella copertina, lo divori in pochi giorni e poi ti fremono le dita dalla voglia di raccontarlo e farlo conoscere agli altri.

L’Ultimo Parallelo dell’Anima è uno di quei romanzi che senti importanti fin dalle prime pagine senza capirne effettivamente il motivo. Uno di quei libri che quando lo finisci ti lascia più domande che certezze, ma allo stesso tempo ti induce a riflettere e a guardare all’altro sotto una luce differente.

Pubblicato nel 2014 in Finlandia, si è affermato in tutta Europa e il suo successo lo deve probabilmente alla sensibilità con cui l’autore affronta tematiche importanti quali la guerra, l’immigrazione, il patriarcato, la violenza di genere, l’omosessualità e la diversità in generale, intesa in tutte le sue sfumature.

Pajtim Statovci, autore emergente nato in Kosovo e cresciuto in Finlandia, ha la sensibilità d’animo giusta per affrontare, in un unico libro, tutte queste tematiche, tesserle tra di loro e farci assaporare quel retrogusto amaro che le accomuna.

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Il romanzo si compone di due parti, due racconti apparentemente distanti e lontani tra di loro che si intrecciano fino a diventare l’uno lo specchio dell’altro.

Protagonista del primo racconto è Bekim, giovane uomo albanese che vive in Finlandia. Fin dalle prime battute ci accorgiamo che Bekim non è un ragazzo “come gli altri”, se è così che si può definire una persona che si allontana dagli schemi tradizionali della società contemporanea.

Bekim è omosessuale e immigrato di seconda generazione, e soffre una duplice condizione di emarginato della quale non riesce a liberarsi. È un personaggio molto ambiguo che il lettore fa fatica a comprendere nelle sue azioni apparentemente prive di logica. In realtà è dotato di una straordinaria intelligenza e i suoi gesti sono frutto di un travagliato processo interiore che lo porteranno in qualche modo a scappare dai pregiudizi che per tutta la vita lo hanno soffocato.

Con un padre violento e poco presente, una madre incapace di ribellarsi agli schemi imposti alle ragazze nella Jugoslavia alla fine degli anni ‘80,  Bekim cresce in un clima difficile tra la guerra che sta devastando il Paese dei suoi genitori (si tratta della guerra del Kosovo) e una nazione che non accetta gli immigrati.

Se sul tema dell’omosessualità Statovci pare non indugiare troppo, affronta con molto realismo e dramma la questione dell’integrazione.

Attraverso il racconto di Bekim scorgiamo il disagio di chi, seppur sia cresciuto e abbia provato ad integrarsi formalmente in un nuovo Paese, sente il giudizio di una terra che gli è ancora nemica, in cui essere un immigrato ambizioso è da egoisti. Per tutta la vita il ragazzo si porta sulle spalle il peso del suo nome, della sua lingua madre, della sua religione, della sua Patria che l’ha tradito prima ancora di donargli dei punti di riferimento. Non è né l’uno né l’altro, né albanese né finlandese, e se ne sta tutto il tempo isolato, cercando la propria identità.

Il lettore viene catapultato da Statovci in un mondo bizzarro, fatto di esseri insoliti e ambigui. È il caso di un enorme boa reale, dalla pelle viscida e le squame dure, che Bekim tiene nascosto sotto il divano di casa. Oppure quello di un fastidioso gatto dal quale rimane inspiegabilmente affascinato. Sono questi animali l’elemento centrale della narrazione, e offrono un’insolita chiave di lettura e l’opportunità di esplorare la natura del “diverso”.

Il secondo racconto è quello che maggiormente colpisce per il suo crudo e spietato realismo. Emine è una giovane kosovara, piena di sogni e speranze per il futuro.

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Scorgiamo in lei una ragazza sveglia e allegra, desiderosa di cambiare la sua vita. Emine va a scuola, ma pian piano matura in lei la tragica consapevolezza che le è stata fornita la possibilità di istruirsi soltanto perché «una ragazza analfabeta non ha la minima possibilità di contrarre un buon matrimonio». E così, quando si rende conto che nessuno le insegnerà mai qualcosa di politica, che non salirà mai su un palcoscenico per cantare e che non esiste nessuna donna intorno a lei che sia diversa dell’essere madre e moglie, comincia ad augurarsi di trovare un buon marito e, come sua madre, diventare a sua volta «una tipica moglie e madre kosovara».statovci

Il momento di maggiore pathos è proprio il matrimonio di Emine, tra riti e tradizioni balcaniche più “assurde” che reali e non troppo distanti dall’epoca in cui viviamo. Emine sposa un uomo che non conosce e, a detta di sua madre, non capisce quanto sia fortunata.

Vediamo la sua paura di non essere all’altezza, di non innamorarsi mai, la vediamo esibire il suo corpo, sopprimere e vergognarsi dei suoi desideri, diventare una moglie e una madre diligente e fare di questo la sua unica ragione di vita.

Il lettore viene accompagnato “per mano” alla riflessione. Ha l’opportunità di immedesimarsi, gioire e soffrire con i protagonisti, capire fino a che punto le barriere fanno del male e siano del tutto prive di umanità.

Eppure non è un libro senza difetti. La scrittura semplice e fluida di Statovci a tratti appare troppo superficiale. Manca una vera e propria analisi psicologica dei personaggi e un dialogo tra i due protagonisti il cui profondo legame affettivo è soltanto intuito.

Ma in fondo, Bekim ed Emine sono due linee parallele, figli dello stesso disagio: camminano fianco a fianco in una storia che, seppur diversa nello spazio e nel tempo, non smette di creare barriere ora contro l’uno, ora contro l’altro, in un interminabile circolo vizioso.