Articolo di Benedetta Geddo
Lo scorso settembre, sono andata a Dublino per trovare tutti gli amici che mi sono fatta durante l’anno che ho passato là a fare la mia magistrale. Un viaggio standard, senza particolari problemi: prendi il biglietto, prendi il passaporto (l’Irlanda infatti è nell’Unione Europea ma non è nella zona Schengen, quindi il controllo passaporti te lo fanno lo stesso), non prendi il bagaglio da stiva che altrimenti la compagnia aerea ti spenna e via.
Al controllo di sicurezza, invece, mi è successa una cosa che non mi è mai capitata in tutti i voli che ho preso: sono passata attraverso lo scanner e sono “suonata”. Io, abbastanza confusa, ho cominciato a tastarmi tutte le tasche per vedere se magari mi fossi dimenticata qualcosa dentro, i capelli per controllare che non ci fossero mollette, cose così. L’addetto ai controlli però mi ha detto di non preoccuparmi, e mi ha chiesto per cortesia di spostarmi a lato della fila principale mentre chiamava una sua collega donna per farmi il pat down. Sono tranquilla mentre aspetto quei due minuti in cui la collega lascia uno scanner qualche metro più avanti e viene verso di me: e sono tranquilla perché so che si rivelerà qualcosa di minore, e che nel giro di cinque minuti massimo avrò di nuovo il mio zaino in spalla e mi starò dirigendo a cercare qualcosa con cui fare colazione.
E in effetti così succede: l’addetta mi fa il pat down, mi passa addosso quel metal detector portatile e decreta che a suonare è stato il ferretto del mio reggiseno. Cosa che appunto non era mai successa. “Eh ogni tanto capita, non si preoccupi, ecco le sue valigie, buon viaggio”. Tutto tranquillo e tutto normale, perché appunto, ogni tanto capita.
Una volta a Dublino, mentre chiacchieravo con l’amica che mi stava ospitando, questo aneddoto esce fuori nella nostra conversazione: io lo racconto come una cosa superficiale, buttandola già sul ridere, ma lei sbarra gli occhi. Perché Aakanksha, la mia amica, è indiana, e mi ha risposto che lei in una situazione del genere sarebbe stata invece molto spaventata e molto ansiosa: “E di certo nessuno mi avrebbe detto di stare tranquilla con così tanta gentilezza come è successo a te”.
Ci sono stati tanti momenti che mi hanno fatto rendere conto della fortuna che ho avuto a nascere bianca e in Italia, del privilegio che queste due condizioni assolutamente casuali mi regalano mentre mi faccio strada nel mondo, ma nessuno in modo così acuto come il viaggiare. Quando penso alla facilità con cui viaggio, con cui decido i miei spostamenti e poi li metto in pratica, c’è proprio il privilegio che esce dal mio passaporto e mi prende a schiaffi in faccia.
Per esempio, il mio viaggio in Irlanda non era previsto. L’ho deciso attorno ad agosto, quando Aakanksha mi ha detto che non sarebbe potuta venire lei a trovarmi in Italia (quella sì che era una cosa programmata da un po’): non sarebbe riuscita a ottenere un visto fino almeno a novembre, ma a novembre il suo permesso di soggiorno irlandese sarebbe scaduto nel giro di tre mesi successivi e non si può ottenere un visto di viaggio, mi ha spiegato, se il tuo permesso di soggiorno scadrà da lì a tre mesi. Era una situazione complicata e non di facile soluzione, quindi ho detto: “Nessun problema, allora vengo io da te”. Nel giro di venti minuti avevo prenotato i voli— con la certezza assoluta che niente mi avrebbe fermata, non con il mio passaporto in mano. La mia unica preoccupazione era letteralmente che il tempo di Dublino a settembre non sarebbe stato bello tanto quanto quello italiano, e stop.
“Sono sempre un po’ gelosa delle persone che possono decidere su due piedi di andare in qualche altra nazione per il fine settimana“, mi ha detto Aakanksha mentre la intervistavo per quello che nella mia testa era già questo articolo, “Per me è sempre un processo lungo e complicato, devi andare in ambasciata o qualsiasi sia l’ufficio che gestisce i visti e quindi prenderti un giorno dal lavoro, stare ore in fila, rispondere a una montagna di domande, e tutto perché il mio passaporto è quello che è”.
È proprio attorno al passaporto che gira tutto. Il passaporto è il documento del viaggio per eccellenza, ma non tutti i passaporti sono uguali. O meglio, lo sono solo d’aspetto: sono tutti libretti con copertine che variano negli unici quattro colori ammessi dall’Organizzazione Internazionale dell’Aviazione Civile, ossia bordeaux, blu, verde e nero, con una media di una trentina di pagine al loro interno decorate con i simboli e i monumenti di quella determinata nazione. Quello che li differenzia è il potere che detengono, le porte che metaforicamente e fisicamente aprono ai loro possessori.
Cosa si intende con “potere” di un passaporto? È presto detto: è il numero di Paesi in cui puoi andare con quel passaporto senza bisogno di richiedere un visto all’ambasciata prima della partenza. A questo numero si somma quello dei Paesi in cui si ottiene un visto turistico al momento dell’ingresso, o per i quali basta richiedere un visto elettronico. Per ultimi, ci sono invece i Paesi per i quali serve effettivamente un visto rilasciato dall’ambasciata, ma tanto più alto è il numero di Paesi a “ingresso libero” tanto più si abbasserà invece ovviamente quello dei Paesi per i quali ci vuole un visto. Tutti questi numeri insieme danno il potere complessivo di un singolo passaporto, calcolato di solito con un “punteggio di mobilità”, che risponde quindi alla domanda su quanto facile sia spostarsi da un punto all’altro del mondo in base al passaporto che abbiamo in tasca.
Lo strumento migliore per capire a che punto della scala di potere stia un determinato passaporto è il Global Passport Index, che ogni anno stila la sua classifica basandosi appunto sui nuovi accordi stretti tra vari Paesi, sulle agevolazioni o restrizioni messe in atto che influenzano lo spostamento delle persone. È un sito facile da usare, e ancora più facile è selezionare diversi passaporti per poterli comparare fra loro.
Per esempio, il passaporto italiano è al terzo posto della classifica, il che vuol dire che ha un potere invidiabile di cui forse nemmeno ci rendiamo conto: in quanto cittadini italiani, possiamo entrare senza visto in 127 nazioni e con visto d’ingresso o online in altre 41, mentre sono solo 30 i posti per i quali invece dobbiamo preoccuparci di avere tutti i documenti in ordine con l’ambasciata prima di partire. Il paragone con il passaporto indiano che detiene la mia amica Aakanksha parla da solo: il suo passaporto è al sessantottesimo posto dell’indice, e infatti per viaggiare lei deve invece richiedere il visto a 131 Paesi, mentre può entrare liberamente solo in 25.
Tra le tante cose che diamo per scontate, penso che la nostra capacità di “saltare su un aereo e andare” sia ai primi posti. Così tanto che è diventata tutta una corrente di pensiero, questa del “non serve pianificare, basta andare” (non che sia una filosofia che io appoggio particolarmente perché è

palesemente elitaria, dal momento che non tutt* hanno la possibilità di mollare la vita di tutti i giorni e passare mesi a esplorare gli angoli più sparsi del globo, oltre a non essere sempre ecologicamente responsabile, ma sto divagando).
Ma, proprio come tante altre cose nella nostra vita di occidentali, è un privilegio anche quello. Il fatto che io possa decidere domani di fare un viaggio in Corea del Sud e, con dovuta disponibilità finanziaria, ritrovarmi su un aereo poco dopo diretta verso Seul non è una cosa dovuta, è solo fortuna sfacciata. Fortuna ad essere nata, appunto, cittadina di un Paese in questa parte del mondo, con un passaporto al terzo posto nella lista dei più potenti del Pianeta. Per altre persone, invece, anche un viaggio minimo (di poca durata, o a breve distanza dal proprio Paese natale) richiede almeno tre o quattro mesi di preparazione e una discreta quantità di denaro e di moduli, perché, come dice Aakanksha, “Tutto quello che fai dipende dal visto.”
“Everything you do depends on the visa.”
È un cambio totale di prospettiva, quello che bisogna fare per capire quanto immensa sia la nostra libertà di movimento e quanto fortunati siamo ad averla — lo stesso cambio totale che è richiesto quando si analizza ogni aspetto del proprio privilegio, da quello di essere bianchi a essere eterosessuali a essere cisgender a essere uomini a essere magri a essere privi di disabilità e via dicendo. Ma io credo sia un

cambio di prospettiva che bisogna imparare a fare, e in generale bisogna imparare a farlo sempre e in ogni caso. Ma nella situazione specifica del viaggio, di cui stiamo parlando qui, è fondamentale farlo perché la libertà di spostamento (o l’assenza di essa) influenza e non di poco il modo in cui funziona il mondo — per esempio, è una delle questioni legate al fenomeno migratorio di cui suppongo che tutt* siamo ben consapevoli.
C’è un articolo di The Vision che lo spiega molto bene: l’area Schengen, così come il Regno Unito e gli Stati Uniti, è una fortezza, ed entrarci non è per niente facile, soprattutto quando si ha un passaporto debole. Torniamo alla mia amica Aakanksha, che voleva “solo” venire a trovarmi, e alla quale sarebbe quindi bastato quindi un semplice visto turistico per stare qui una settimana. Avrebbe avuto bisogno di almeno due appuntamenti all’ambasciata italiana a Dublino, in cui avrebbe dovuto produrre documenti di ogni tipo: estratti conti bancari, l’elenco dei Paesi in cui ha vissuto, assicurazioni varie. E, anche se fosse riuscita a ottenere gli appuntamenti, non era per nulla scontato che l’ambasciata le rilasciasse effettivamente un visto. Tutto questo essendo comunque già in possesso di un regolare permesso di soggiorno di lavoro per vivere in un paese dell’Unione.
“È un processo laborioso, perché ci sono moltissime cose che vogliono sapere di te già solo mentre presenti la richiesta”, mi ha raccontato Aakanksha. “La tua storia famigliare, quanti parenti hai che vivono all’estero, la tua situazione finanziaria e quella dei tuoi genitori, tutte le Nazioni straniere in cui sei stato anche solo per un viaggio di piacere”. La quantità di carta da presentare è tanta, e il risentirsi un po’ per la propria privacy e vita personale buttata nero su bianco non è contemplato. “Inoltre c’è spesso bisogno di un colloquio faccia a faccia,” ha continuato Aakanksha. “Devi andare lì a difenderti, a spiegare perché vuoi andare nel Paese nel quale stai cercando di andare, come se dovessi già da subito far cambiare idea a chiunque sia lì ad ascoltarti e dimostrare che sei degno di quel visto“.
Aakanksha, appunto, avrebbe avuto bisogno solo di un visto turistico. Spostarsi permanentemente (o semi-

permanentemente) in una nazione differente è tutta un’altra storia — che ha comunque sempre a che fare con la libertà di movimento, e il potere del proprio passaporto. Sappiamo più o meno tutt*, per esempio, che trasferirsi negli Stati Uniti non è proprio semplice: uno dei miei video preferiti sull’argomento è quello dei Try Guys, in cui i quattro, tutti cittadini americani, studiano diversi scenari di diversi immigrati per capire se avrebbero mai la possibilità di entrare legalmente negli Stati Uniti. Ma anche stabilirsi in Italia non è uno scherzo, e i video di Tia Taylor su tutte le sue complicazioni con la Questura ne sono un esempio lampante. E in tutto questo, Tia è americana — il suo passaporto sta, come il nostro, al terzo gradino dei più potenti del mondo. Se per lei è già così complicato, immaginiamo quanto può esserlo per chi ha un passaporto che sta verso il fondo della lista.
Ci stupisce, quindi, che per molte persone messe alle strette l’unica opzione disponibile sia l’immigrazione illegale? Di nuovo, è facile per noi dire “basta richiedere un visto”. È scontato: spesso non ne abbiamo bisogno (io, personalmente, ho vissuto in due Paesi dell’Unione un anno ciascuno e mi sono portata dietro solo la carta d’identità, nemmeno il passaporto) o se ne abbiamo bisogno non c’è niente che ci faccia pensare che ci sarebbe rifiutato. Ma non è così per tutt*, ed è qui che penso stia il punto che sto cercando di far passare con questo articolo: rendersi conto che non è così per tutt* è importante. Di più. È un dovere.
Tante questioni della società moderna hanno una soluzione intersezionale, e la libertà di spostamento non fa eccezione. La restrizione del movimento dei detentori di certi tipi di passaporti va a braccetto con il razzismo, e il colonialismo latente che ci porta ancora a vedere il mondo come Occidente da una parte e desolazione dall’altra. L’addetta dello scanner all’aeroporto è stata così gentile con me non solo perché dal mio documento si capiva che ero cittadina italiana, ma anche per il colore della mia pelle. Il motivo per cui nessuno ha neanche pensato di fermare per un controllo me e le mie amiche durante il nostro Interrail mentre vagavamo con i nostri zaini enormi in spalla per un’affollata stazione ferroviaria della Francia del Nord appena sei mesi dopo gli attentati di Parigi aveva di certo a che fare col fatto che eravamo sette ragazze bianche. “L’altra cosa è che ovviamente ho poi sempre paura che anche se presento tutti i miei documenti in tempo e in ordine, il visto non me lo diano comunque perché sono indiana,” dice Aakanksha. Ovviamente, ma non dovrebbe esserci assolutamente niente di ovvio.
Su quale sia la soluzione intersezionale più giusta al problema della libertà di movimento, l’articolo di The Vision che ho citato ha un suggerimento: il potere di un passaporto deriva dagli accordi diplomatici che un Paese (o un’unione di Paesi) ha stretto con le altre nazioni. Le nazioni in cima alla lista, quindi, devono cominciare a considerare i Paesi che invece sono al momento sul fondo del Global Ranking come “interlocutori sul [loro] stesso piano, con cui intrecciare rapporti e stipulare accordi che favoriscano una mobilità internazionale legale e sicura”.