Articolo di Elena Russo
La prima volta che ho sentito parlare davvero di manicomio, è stato nell’ormai lontano 2007, quando Simone Cristicchi, vinceva la 57° edizione del Festival di Sanremo con il brano Ti regalerò una rosa.
Avevo 12 anni eppure, nonostante non le capissi bene, le parole di quella canzone riuscivano a commuovermi, così come era accaduto con Pensa di Fabrizio Moro e pochi anni prima con Mary dei Gemelli Diversi.
Siano benedette certe canzoni che ti mostrano uno stralcio di società che a 12 anni nessuno ti spiega. Siano benedette quelle canzoni che ti insegnano il valore dell’empatia e ti formano il carattere. Avevo 12 anni nel 2007, eppure ho provato ad immaginare Antonio, nato nel ’54 e rinchiuso per 40 anni dentro un manicomio. Ho provato a capire chi fosse, cosa facesse e perché per la società dei sani era spazzatura.
Antonio era un matto. Ma facciamo un passo indietro, chi sono i matti? Il vocabolario Treccani ci fornisce due definizioni del “matto” una antica, l’altra moderna.
Matto: agg. e s. m. (f. –a) [forse lat. tardo mattus, matus «ubriaco»]. – 1. a. ant. Stupido, stolto. 2. b. Nell’uso mod., di persona che non possiede, o non possiede interamente, l’uso della ragione.
La linea di confine, tra le due definizioni, è stata tracciata il 13 maggio del 1978, quando con l’approvazione della legge n. 180 – Legge Basaglia – si chiudevano i manicomi ordinari in Italia. Il professore Franco Basaglia, che la ispirò, introdusse una nuova concezione del malato. Se prima di allora era stato semplice seguire una visione empirica della psichiatria (al pari delle scienze naturali) adesso, per la prima volta, si comprende che dinanzi ad un paziente il medico non può procedere per classificazioni ed ipotesi. Basaglia sostenne infatti l’importanza di considerare il malato nella sua interezza: la vita, le emozioni, i bisogni, tutti elementi che lo rendono unico e non possono in alcun modo assimilarlo ad altri.
Da allora, tuttavia, la sensazione è che sia calato un grande silenzio sull’istituzione manicomiale, non siamo ancora capaci di assumerci le responsabilità di ciò che è avvenuto tra quelle mura.
Mi hanno sempre un po’ incuriosito i matti, ma non sapevo niente di quello che succedeva nei padiglioni dei manicomi in cui venivano internati appena 40 anni fa. Non sapevo delle torture, delle violenze, della solitudine, delle urla, dell’elettroshock e non mi sono mai soffermata a pensarci fino a pochi mesi fa, quando mi sono imbattuta ne “Il Diario di Pietra” di Alessandra Cotoloni, Edizioni Il Papavero.
Questo libro è una testimonianza preziosa, un faro acceso su un passato che si tende a dimenticare. Il Diario di Pietra narra la storia, in parte romanzata, di Fernando Nannetti, un uomo che ha trascorso quasi interamente la sua esistenza in manicomio. Il manicomio era un’entità totalizzante ed oppressiva, un contenitore in cui la società riponeva tutti coloro i quali uscivano dagli schemi e creavano scompiglio (schizofrenici, depressi, disabili mentali e motori, omosessuali, poveri, alcolizzati…). Condizioni molto diverse tra loro, bisognose di cure e attenzioni disparate. Il manicomio era una realtà alienante in cui ogni volontà veniva omologata ed annientata.
Eravamo fantasmi. Sarebbe bastato guardarci, sarebbe bastato osservarci, anche solo due volte…
Parlava così Fernando, intento a ricordare quegli anni in cui l’orrore più grande era ritenere quelle prassi normali e necessarie. Dove si decideva della vita di un altro, con la stessa facilità con cui si inseriva una spina nella corrente.
Ma a questo punto ci chiediamo: chi erano i sani e chi i malati? Difficile capirlo.
Qualcuno lo prendevano apposta e facevano con lui cose strane per vedere come reagiva il cervello. Non lo so che combinassero. Alcuni non sono più tornati…Di tutte le morti che vedevo e ho visto negli istituti, quelle che sono state la metà, ben il 50% e forse, chissà anche di più, sono state quelle dovute all’odio, al rancore, alla rabbia.
Fernando Nannetti era solo uno dei tanti, uno che ha cercato di preservare la sua identità al grido di “IO ESISTO”.
Per rendermi libero come neanche loro, che vivevano dall’altra parte del cancello, erano in grado di fare
La testimonianza di Nannetti è arrivata fino ai giorni nostri attraverso le sue stesse parole, fissate sul muro esterno del padiglione “Ferri” del manicomio di Volterra. Armato dell’ardiglione del gilet, dato in dotazione ai degenti, incise 180 metri lineari di pietra, il suo personale diario, dove ricavare uno spazio di libertà.
N.O.F.4. questa la sigla con cui firmava le sue pagine, a cui ha affidato la memoria delle sue origini, di una famiglia e degli amici immaginari e poi la geometria, la scienza, la poesia, tutto ciò che sapeva e che altrimenti avrebbe dimenticato.
Fin dalle prime pagine del romanzo ci accorgiamo che la lettura non ci risparmierà nulla. La scrittura della Cotoloni è scorrevole, cruda e decisa, a tratti emozionante. Fernando, figlio di NN., si sentiva un prescelto, il colonnello astrale al quale popoli lontani affidavano i segreti dell’universo. Verità, fantasia, follia? Non è importante saperlo.
Armato della sua fibbia, Fernando si estraniava da tutto ciò che lo circondava, dentro di sé ricavava degli spazi sicuri dove poter essere esattamente se stesso. Eppure osservava tutto. Interessante infatti è il quadro che traccia dell’intero manicomio. Pazienti ed infermieri, fantasmi contro guardiani, malati e sani. Tutti silenti, guidati da una forza a cui non sapevano disobbedire.
Ma Fernando aveva rispetto di ognuno. Pazienti, infermieri, uomini, donne. Nessun giudizio per le loro azioni, nessun segno di lotta. Ed è proprio questa l’eredità più grande che Fernando Nannetti ha lasciato al mondo. La nobiltà d’animo che resiste in un mondo brutale. Sarebbe stato più semplice per lui, conformarsi a tutto il resto, dimenticarsi degli altri, concentrarsi soltanto sul proprio essere.
Il Diario di pietra inciso da Fernando è arrivato fino a noi grazie ad un infermiere che l’aveva notato. Anni dopo quelle mura hanno destato un interesse artistico, tanto da diventare una delle principali espressioni di Art Brut. Oggi è possibile visitare una sezione dedicata a Nannetti nel Museo di Losanna in Svizzera.