Articolo di Rossella Ciciarelli
“Una delle prime cose che scopriamo in questi gruppi è che i problemi personali sono problemi politici. Non ci sono soluzioni personali in questo momento. C’è solo un’azione collettiva per una soluzione collettiva.”
Carol Hanisch
Di che gruppi si sta parlando? Chi è Carol Hanisch? È lei l’inventrice del famoso slogan “Il personale è politico”, in cui sicuramente ci sarà capitato di imbatterci più volte?
Soprattutto, quale significato è stato dato a queste quattro parole nel corso degli anni? E che valore hanno per noi?
Se vogliamo comprendere l’importanza di questa espressione, divenuta centrale nel mondo femminista, ci sono delle domande a cui dobbiamo necessariamente trovare delle risposte.
Per farlo, occorre viaggiare un po’ nel tempo, a partire da una sessantina di anni fa.
Gli Anni Sessanta: le origini di un’idea
Se è vero che gli anni Settanta sono passati alla storia come un decennio importantissimo per la lotta femminista, lo è anche che le prime tracce di questo fermento si trovavano già in quello precedente. Con la nascita del Movimento per i diritti civili degli afroamericani – da cui il femminismo avrebbe ripreso la pratica dell’autoriflessione sulla propria condizione e la valorizzazione della propria identità – le prime azioni di resistenza e disobbedienza civile avevano iniziato a diffondersi negli Stati Uniti. Di lì a poco e in tutti i Paesi occidentali, ulteriori spinte al cambiamento sarebbero arrivate dal Movimento studentesco, che si poneva come obiettivo quello di contestare svariati pregiudizi sociali e politici. Comune in ambo i movimenti era l’idea che il privato fosse, in qualche modo, collegato a fenomeni di più ampia portata, afferenti alla sfera pubblica.
Così, recitava, per esempio, il manifesto studentesco di Port Huron:
“È tempo di riaffermare il personale. Una nuova sinistra deve dare forma a sentimenti di impotenza e indifferenza in modo che le persone possano vedere le origini politiche, sociali ed economiche dei loro problemi privati e organizzarsi per cambiare la società.”
Per quanto riguarda il campo teorico, ad aprire il decennio era stato il libro del sociologo C. Wright Mills, “The Sociological Imagination”, in cui si sosteneva l’esistenza di un legame indissolubile fra le esperienze individuali e il contesto sociale e storico. “L’immaginazione sociologica”, per intenderci, potremmo pensarla come un paio di lenti capaci di rendere visibile tale connessione.
“Se abbiamo un’immaginazione sociologica […], possiamo focalizzare la nostra attenzione sulla sfera pubblica quando cerchiamo di risolvere i nostri problemi”.
A dimostrare di possedere queste lenti fu la femminista Betty Friedan, quando nel 1963, dopo aver intervistato numerose casalinghe, ne “La mistica della femminilità” sottolineò l’esistenza di un “problema senza nome”: le donne si sentivano infelici nel loro ruolo di mogli e madri e la loro insoddisfazione veniva trattata erroneamente come un problema personale sia da loro stesse che dai medici. Secondo Friedan, l’unico modo per risolverlo invece sarebbe stato trovare la giusta causa di questo malessere, che andava cercata nella posizione che le donne occupavano nella società.
Gli Anni Settanta: il motto della Seconda ondata femminista
Dopo aver militato nei movimenti studenteschi, sempre più donne avvertirono chiaramente la necessità di unirsi e di riflettere sulla propria condizione: alle femministe degli anni Settanta va il merito di aver formulato lo slogan “Il personale è politico”, di averlo fatto entrare nel lessico comune e di averlo reso un nodo cruciale del movimento.
La maternità del motto viene data, da alcuni, a Carol Hanisch, che utilizzò la frase in un testo pubblicato su “Notes from the Second Year: Women’s Liberation” (1970), da cui abbiamo tratto la citazione in apertura dell’articolo. Si tratta di uno scritto in cui Hanisch difendeva i gruppi di autocoscienza, nei quali le donne si riunivano per discutere dei propri problemi e delle proprie esperienze personali, dall’accusa di essere niente di più che sedute di terapia.
“La terapia presuppone che qualcuno sia malato e che esista una cura, una soluzione personale. […] Queste sedute analitiche sono invece una forma di azione politica. […] È politico dire le cose così come sono, dire quello che penso veramente della mia vita invece di quello che mi è stato sempre detto di dire.”
Nei gruppi di autocoscienza, in pratica, le donne stavano scoprendo un mezzo per politicizzare la comprensione di quello che sperimentavano quotidianamente e che erano abituate a nascondere e a pensare come strettamente privato. “Il personale è politico” stava diventando un metodo e una rivendicazione.
“Poiché abbiamo vissuto così intimamente con i nostri oppressori, in isolamento le une dalle altre, ci è stato impedito di vedere la nostra sofferenza personale come una condizione politica. Ciò crea l’impressione che il rapporto di una donna con un uomo sia una questione di interazione tra due personalità uniche e che può essere risolto nel privato. In realtà tutto va inscritto in una cornice più grande, e i conflitti tra singoli uomini e donne sono conflitti politici che possono essere risolti solo collettivamente”.
La frase “Il personale è politico” voleva quindi dire:
– riflettere sulla propria posizione di privilegio o di oppressione in un determinato contesto
– capire in che modo questa posizione influenzasse le scelte, le sofferenze, i fallimenti nella vita di tutti i giorni
– superare l’idea patriarcale dell’esistenza di due sfere separate: quella pubblica, del lavoro e della politica, dominata dagli uomini, e quella privata, della famiglia, della quotidianità, nella quale le donne erano relegate e i loro problemi nascosti
– se le norme e le pratiche sociali erano ciò che influenzava i problemi della sfera privata, allora affermare che il “personale è politico” voleva dire comprendere la necessità, per rimuovere questi problemi, di un’azione sociale e politica
– credere, di conseguenza, che la politica potesse essere indirizzata dalle singole esperienze di oppressione di coloro che fino ad allora erano rimasti senza potere
Per capire ancora meglio il senso dell’affermazione “Il personale è politico”, facciamo un esempio pratico.
Affermare che il personale è politico voleva dire che, se una donna era vittima di violenza domestica, sicuramente tale violenza era un attacco personale nei suoi confronti, ma era anche un attacco politico alla donna a causa di una società incapace di educare al rispetto e alla parità di genere. Quindi, solo cambiando politicamente la società si sarebbe potuta ridurre la possibilità che episodi simili si verificassero nel privato.
Tutto ciò, le femministe degli anni Settanta lo avevano capito bene, e, fra gruppi di autocoscienza e discorsi pubblici, erano pronte a svelare quanto di politico si celava dietro le loro sofferenze; era giunto il tempo di infrangere l’illusione che tutto andasse bene in casa, nello studio dell’ostetrico, e in tutti gli altri spazi della città.
La terza ondata: il Corpo Politico.
Se volessimo individuare un minimo comune denominatore fra la seconda e la terza ondata del femminismo, che è quella che va dagli anni Novanta del secolo scorso fino al 2008 (anno che segna la nascita della quarta) potremmo trovarlo proprio nell’idea del personale come politico, utilizzata per individuare e comprendere diverse questioni femministe che altrimenti sarebbero state considerate semplicemente “personali” e le ingiustizie meno evidenti.
Ottenuti alcuni importanti risultati legali e politici, infatti, il sessismo persisteva in modi più sottili. Ruolo centrale ricopriva ora il corpo, strumento primario per la resistenza e la lotta politica. Esso veniva utilizzato per sfidare la svalutazione culturale delle donne grasse, i canoni imposti di bellezza, e per riflettere sul significato in sé di questi canoni.
“Prendere peso e togliere la testa fuori dalla tazza del water è stato l’atto più politico che io abbia mai commesso”
Fortune Chernick“Ho iniziato a usare il mio stesso corpo come strumento politico, per sfidare il razzismo che avevo interiorizzato; la mera forma del corpo della donna nera è una fonte di potere e un simbolo di resistenza”
Jocelyn Taylor
In un femminismo che si faceva sempre più intersezionale, come quello della terza ondata, il concetto de “Il personale è politico” iniziava ad avere una grande importanza anche per la comunità LGBT+ e per ogni sorta di minoranza: appariva sempre più chiaro come diversi fattori, come la classe, il genere, l’orientamento sessuale e il colore della pelle si intrecciassero tra loro e influenzassero tanto la vita privata quanto quella pubblica.
Per le femministe di questi anni, poi, posizionare l’inizio della lotta in se stesse e nel proprio corpo, politicizzare il personale, voleva dire anche puntare i riflettori su un aspetto della vita delle donne fino ad allora nascosto al buio, dietro la porta chiusa a chiave del bagno di casa: il ciclo mestruale. Gruppi di giovani donne, attive per lo più fra Canada e Stati Uniti, infatti iniziarono a parlare e a scrivere testi sulle mestruazioni, con lo scopo di abbattere il tabù che le circondava e di promuovere il commercio di prodotti più salutari, meno costosi e meno dispendiosi in termini di risorse. Le poesie-manifesto del collettivo delle Bloodsisters e libri come “The Curse. Menstruation: The Last Unmentionable Taboo” di Karen Houppert o “Cunt: A Declaration of Independence” di Inga Muscio rendevano chiaro l’obiettivo: inserire il ciclo mestruale e la sua gestione in un discorso pubblico.
Possiamo ritenerci soddisfatte dei risultati ottenuti? Non del tutto. Ancora oggi, il costo degli assorbenti, la reticenza che alcune volte usiamo nel parlare di “tu-sai-cosa” – neanche fossimo Harry Potter che con cautela cerca di non pronunciare il nome di Lord Voldemort – e tutti gli altri aspetti inerenti alle mestruazioni sono problemi esistenti che non riguardano solo il nostro privato: sono frutto di una cultura che ci insegna a vivere le mestruazioni con vergogna e di una società che non dà sufficientemente voce e importanza al femminile.
Insomma, ieri come oggi, il personale è politico.
Il personale e il politico ai tempi dei social media
Oggi, l’uso delle nuove tecnologie di comunicazione potrebbe dare un importante contributo alla rottura della barriera fra il pubblico e il privato. Gli spazi online, che ormai visitiamo quotidianamente, creano infatti importanti opportunità per la condivisione di informazioni su scala globale, per dare visibilità e per esplorare le proprie esperienze, per promuovere la consapevolezza sulle questioni di genere. Il web, quindi, potrebbe in qualche modo svolgere le stesse funzioni dei gruppi di autocoscienza degli anni Settanta e in alcuni casi ha già dimostrato di saperlo fare. Basti pensare al movimento #MeToo, nato online e che incarna il principio del “personale è politico”: ogni vittima di violenza ha una sua storia individuale, di cui porta le ferite a livello personale, ma il movimento, dando la possibilità di condividere la propria esperienza e di riconoscerne la validità, fornisce a queste persone la possibilità di capire che non sono sole: raccontare la propria storia e riconoscersi in quella degli altri permette di individuare i fattori sistemici che stanno alla base di queste violenze. Il passo successivo? “Un’azione collettiva per una soluzione collettiva”, come ci ha suggerito decenni fa proprio Carol Hanisch.
Non è incredibile quanti significati possano nascondersi dietro un’espressione così breve?
In un’ultima sintesi, lo scopo del motto femminista “Il personale è politico” è quello di ricordare di riportare il personale su un piano politico e rendere il politico uno strumento per cambiare il personale. Si tratta di un promemoria importante: in gioco c’è il modo in cui dovremo vivere.
Per Approfondire:
– R. Heberle, The Personal is Political, in “The Oxford handbook of feminist theory”, 2016.
– N. Fixmer, J. T. Wood, The personal is still political: Embodied politics in third wave feminism, in “Women’s Studies in Communication”, 2005.
– Chris Bobel, Judith Lorber, New Blood: Third-Wave Feminism and the Politics of Menstruation, 2010.