Articolo di Pietro Balestra
Da giovedì 21 a domenica 24 settembre si è tenuta la nona edizione di Some prefer cake: Bologna lesbian film festival, l’unico festival italiano di cinema lesbico.
Lo scopo è sempre stato riunire femministe e lesbiste di città, generazioni e realtà socio-politiche diverse per tramandare, attraverso il racconto cinematografico, la propria Storia, che è una storia politica, una storia della filosofia, una storia del corpo (o, meglio, dei corpi) una storia dell’arte… Quest’anno, accanto alla Storia, si sono ricordate delle assenze. Quella di Luki Massa, in primis.
Attivista lesbista e artista poliedrica, attiva a Bologna dagli anni Ottanta, Luki Massa è stata la creatrice e direttrice artistica di Some prefer cake, fino all’ottava edizione nel 2015, quando a Luki è stata diagnosticata una malattia che l’ha portata alla sua morte prematura, all’inizio di quest’anno. È stata fondata un’associazione a suo nome che si è premurata di riorganizzare il festival, dedicando alla sua memoria la nona edizione.
Per tutta la durata del festival è stato possibile visitare due sue mostre fotografiche: da un lato, Punti di con/tatto (già esposta in Italia, Francia e Spagna), attraverso una fotografia in scala di grigi, intima e attenta al dettaglio, racconta la sensibilità e il furore della sessualità lesbica; dall’altro, Lesbiche all’Europride è una serie di ritratti di lesbiche l’una diversa dall’altra, scattati ad Amsterdam nel 1994.
Il pomeriggio di sabato è stato interamente dedicato alla commemorazione, a partire da una tavola rotonda, cui hanno preso parte diverse soggettività politiche che hanno ricordato sia la Luki attivista sia la Luki persona.
Affidabile, inequivocabile, anti-ideologica… Una donna di poche, precise e chiare parole. Comunicava molto col corpo, con gli occhi e con il sorriso. Pur essendo testarda e passionale, non s’imponeva mai: non avrebbe mai interrotto qualcuno solo perché la pensava diversamente da lei. Ma per rispetto, non per educazione, anzi, la maleducazione e la disobbedienza sono le più grandi eredità che ha lasciato alle sue compagne.
Ha intrapreso il suo percorso politico negli anni Ottanta, come lesbista separatista e radicale, e ha rivendicato quest’etichetta fino alla fine. Il suo – ci tiene a spiegare Elisa Coco, presidentessa dell’Associazione Luki Massa – non era un Separatismo senza porte e senza finestre, non era né escludente, né includente: Luki credeva fermamente nelle differenze e nella specificità di ogni lotta, ma credeva altresì che questo dovesse essere il punto di partenza per creare un movimento trasversale; perciò ha sempre stretto alleanze con gruppi gay, trans, queer, femministi… Ugualmente, il suo Radicalismo non era un ripiegarsi sulle proprie convinzioni, bensì rintracciare le radici per creare dei ponti tra identità diverse.
Era un’eclettica e aveva l’energia di un uragano: ha fondato diversissime realtà lesbiste in tutta Italia; ma, quando un progetto era avviato, lo affidava ad altre per buttarsi su qualcos’altro. Tuttavia non si è mai dimenticata di una sua creatura: durante il primo settembre di malattia – racconta Marta Bencich, direttrice artistica di quest’edizione del festival – Luki sentiva che di lì a poco sarebbe dovuto cominciare un Some prefer cake che, in realtà, era stato sospeso; così rovistava per casa, tirava fuori le vecchie cartoline, le brochure, le locandine… Neppure la malattia l’ha privata del suo furore.
Dopo il ricordo politico, sono stati proiettati i suoi cortometraggi.
Rapido finale con passione (1999), in cinque minuti, racconta la storia di Virginia, una tapparellista lesbica assunta da una famiglia composta da padre, madre, nonna e due figlie. È palese che una di loro abbia rotto la tapparella apposta per incontrare Virginia. Ma chi?
Fuoricampo (2007), realizzato in occasione della fondazione dell’omonima associazione, è la parodia in chiave lesbica di una pubblicità RAI. Infine, in Split (2007), due giovani studentesse di filologia s’incontrano a un bar per parlare di… non si capisce bene cosa. Non sono importanti le parole, bensì gli occhi che trasmettono la tensione erotica che le due provano l’una verso l’altra, ma non sanno come comunicarsi.
Insomma, nonostante la pesantezza delle battaglie intraprese dalla Massa, ella ha sempre saputo politicare divertendo e divertire politicando!
Venerdì è stato dedicato un momento al ricordo di Simonetta Spinelli, anch’ella venuta recentemente a mancare.
Teorica lesbica e redattrice per la rivista femminista DWF, la Spinelli – spiega Monica Pietrangeli – amava vivere al margine: ha scelto di abitare nella periferia romana e, lì, di insegnare in un istituto tecnico che non ha mai voluto abbandonare; alle riunioni di DWF, sedeva alla finestra fumando una sigaretta, senza intervenire, osservando, ascoltando e studiando… Per lei – racconta Francesca Manieri – gli ingredienti dell’agire politico erano passione e utopia. Metteva l’impegno politico prima di se stessa ed è stata la maggiore diffonditrice del lavoro della femminista Monique Wittig, eppure non le è mai stato dato alcun riconoscimento accademico.
Per tramandare il lavoro di questa straordinaria studiosa, purtroppo passata in sordina, DWF ha organizzato due giornate di commemorazione presso la Casa Internazionale delle Donne di Roma, il 28 e il 29 ottobre. Il secondo giorno sarà presentato un numero speciale della rivista, interamente dedicato alla Spinelli.
Nel frattempo, si raccomanda caldamente di sfogliare il suo blog, dove, prima di morire, ha raccolto i suoi articoli d’opinione e le sue (s)favole.
Un ultimo (non per importanza) omaggio è stato fatto a Diane Torr, anch’ella mancata quest’anno: domenica sera, subito dopo la premiazione, è stato proiettato il documentario Man for a day (2012), sulla sua attività di drag king.
Voleva creare una cultura del sesso alternativa alla pornografia, una cultura che desse potere alle donne, anziché svilirle. Ha cominciato la sua carriera di attivista come go-go dancer, ma era uno stile ripetitivo e tedioso, inadatto alla sua missione. Ha così inventato un personaggio: Danny King, un uomo di successo, sicuro di sé, autoritario, maschilista… ed ha cominciato a ballare nei panni di quest’ultimo, per sperimentare l’inversione di genere. È così che Diane Torr è diventata il primo drag king della storia.
Viene invitata come Danny a uno shoot fotografico, presso la Biennale di Venezia. Dopo il servizio, è uscita per strada di fretta, ancora in costume, e si è accorta che le persone si spostavano per lasciarla passare. Quest’epifania ha cambiato completamente la filosofia sottesa alla sua arte: impersonare un uomo non è più una sperimentazione, ma uno strumento delle donne per scoprire che hanno un potere nascosto e possibilità infinite, fin’ora negate loro dall’educazione di genere.
A tal scopo, ha cominciato a organizzare workshop dove le donne erano accompagnate nella decostruzione della propria identità socio-culturale femminile e nella costruzione di un’identità maschile parallela. Il documentario si focalizza su uno di questi workshop.
Nella categoria “miglior lungometraggio narrativo”, sia la giuria di qualità che il pubblico si sono pronunciati per The book of Gabrielle (2016); tuttavia, le organizzatrici hanno scelto di proiettare Chavela (2017), documentario più apprezzato dal pubblico, offrendoci un ultimo ritratto di donna forte.
Una delle cantanti più amate di tutto il Messico, un’innovatrice sia nella musica che nell’espressione di genere, un’icona per tutte le donne, questa è stata Chavela Vargas. Il documentario ripercorre tutta la sua vita, alternando, a delle sue vecchie interviste, i racconti di chi ha condiviso con lei gioie e dolori – amiche, collaboratrici, ammiratrici e ammiratori, amanti…
Cantava fin da piccola, in solitudine, per sfuggire al dolore dell’anaffettività dei suoi genitori. Dalla Costa Rica, è fuggita in Messico ed è riuscita a entrare nel mondo musicale quando il suo talento innato è stato notato dal compositore e cantante José Alfredo Jiménez, col quale successivamente ha stretto un forte rapporto amicale.
Ha spogliato la musica messicana di ogni orpello, mantenendo solo la chitarra e la voce. Ha rifiutato il trucco, gli scialle, i gioielli… e ha cominciato a vestirsi da uomo. La sua arte – raccontano – fa emergere la vera anima della musica messicana: un’anima dolente e affranta.
Il successo di Chavela smaschera le contraddizioni della società messicana: tutti sapevano dell’omosessualità della cantante, ma lei non l’ha mai dichiarata pubblicamente, perciò era accettata; perché in Messico anche l’illecito è lecito, purché non se ne parli. Allora, cosa lo rende illecito? Chavela ha spinto le lesbiche messicane a porsi questa semplice domanda.
Viveva in povertà, sempre accompagnata dalle sue più care amiche: la solitudine e la malinconia. Il suo dolore era compensato da una grande spiritualità, l’amore per la natura e l’universo che l’ha condotta a una morte serena.
Se in quest’articolo ci si è concentrati più sull’anima che su ciò in cui è consistito l’evento concretamente, è perché Some prefer cake dovrebbe essere un festival cinematografico, ma in realtà è molto di più: è ricordo, riflessione, gioco, musica, danza, cibo, teatro… è raccoglimento politico e sociale tra femministe e lesbiste, divise dallo spazio, dal tempo e dalle singole realtà, ma unite da una Storia ricchissima che dev’essere ricordata. Quest’anno, poi, tutte e tutti hanno potuto ricordare (o conoscere) Luki Massa, che è stata una presenza costante negli occhi, nelle parole, nei baci e negli abbracci di tutte le presenti. Se adesso stesse militando Lassù, volgendo lo sguardo in basso, non potrebbe che essere orgogliosa per la meravigliosa manifestazione, faticosamente realizzata dalle sue compagne, Quaggiù.