Durante la Seconda Guerra Mondiale, il regime nazista perseguitò individui di diverse etnie, religioni e orientamenti politici o sessuali; le donne subirono gli stessi trattamenti degli uomini e non furono di certo risparmiate – se non in rari casi di cui vi parlerò più avanti – da fatica e morte.
IL DESTINO DELLE DONNE NEI LAGER
Le donne giungevano al campo con le loro famiglie; dopo aver viaggiato in condizioni brutali su vagoni per il bestiame, venivano separate dagli uomini e sottoposte ad una prima selezione. Da un lato venivano radunate le donne di sana costituzione capaci di lavorare, dall’altro si raccoglievano donne troppo deboli, malate o anziane per svolgere qualsiasi attività utile al Reich. Queste ultime venivano immediatamente condotte alle camere a gas; le donne selezionate per il lavoro, venivano guidate alla baracca di disinfestazione, dove attendevano il momento della doccia, in fila, completamente nude e bersaglio di sguardi, insulti, sputi e violenze da parte delle SS.
Dopo queste umiliazioni, ciascuna veniva affidata ad un Blocco e mandata a lavorare per 10/12 ore nelle industrie belliche limitrofe al campo.
I CAMPI FEMMINILI
In genere le donne vivevano e lavoravano separate dagli uomini, per questo all’interno dei lager esistevano dei sottocampi designati esclusivamente ad esse. Nel 1939 aprì, su ordine del capo delle SS Heinrich Himmler, il campo di concentramento di Ravensbrück.
Le prime donne che vi furono deportate erano austriache o tedesche, comuniste, antinaziste e/o colpevoli di aver violato le leggi di Norimberga sulla purezza razziale, fraternizzando con razze inferiori a quella ariana. Tra la fine del 1939 e il 1941 giunsero i convogli di donne nomadi e polacche. Nel 1942 la popolazione reclusa nel campo passò dalle 7.000 alle 10.000 unità effettive. All’inizio del 1944, a causa dell’imminente arrivo delle truppe sovietiche, furono trasferite al campo le prigioniere di quelli dell’est Europa, raggiungendo il sovraffollamento con più di 30.000 detenute. Himmler stabilì che ogni giorno si dovessero liquidare dalle 50 alle 100 prigioniere; le esecuzioni iniziarono a essere effettuate in uno stretto passaggio tra due alti muri chiamato “Corridoio della fucilazione” situato tra il Bunker e il crematorio. Nel 1945 per accelerare il processo, fu costruita una camera a gas azionata a Zyklon B; a gennaio le donne presenti nel campo erano più di 40.000, ad aprile dello stesso anno superavano di poco le 10.000. Il campo fu liberato il 30 aprile 1945, delle 3000 donne scampate alla marcia della morte e sopravvissute, diverse raccontarono di aver subito violenze anche dai liberatori sovietici.
Oltre ad essere un campo di concentramento, Ravensbrück fu anche campo di addestramento per le SS-Aufseherinnen, donne addette alla sorveglianza dei block femminili nei lager. Reclutate con appelli e giornali patriottici e dalla prospettiva di un buon stipendio si presentarono a migliaia all’esame di ammissione. Avevano stipendio e uniforme delle SS ma non avevano gli stessi diritti dei membri maschi. Molte, a guerra finita, furono processate e condannate a morte o a svariati anni di reclusione per crimini contro l’umanità.
PROSTITUIRSI PER SOPRAVVIVERE
Durante la prima attenta selezione da parte delle SS, alcune donne venivano scelte dagli ufficiali per far parte di Blocchi più “fortunati” nell’assegnazione del lavoro: smistamento delle proprietà dei prigionieri, sartoria, lavanderia, cucina…
In questi reparti le donne erano vittime vulnerabili di qualsiasi tipo di violenza, dalle percosse allo stupro; spesso diventavano vere e proprie schiave sessuali in cambio di cibo, beni di prima necessità e favori.
Nel 1942 Himmler visitò il campo di Mauthausen; data la scarsa produttività dei prigionieri, pensò che questa avrebbe potuto essere incrementata offrendo come incentivo la possibilità di “sfogarsi” nei bordelli. L’istituzione dei bordelli venne propagandata anche con la giustificazione che in questo modo si sarebbe evitata la diffusione di atti di omosessualità tra i prigionieri. Al modico prezzo di 2 Reichsmark, guardie, criminali politici e in generale i prominenti del campo, potevano soddisfare i loro appetiti. Da regolamento, la prestazione sessuale avveniva, previa visita medica, per un quarto d’ora, senza preservativo, nella posizione del missionario, sotto la stretta sorveglianza di una SS. Le gravidanze non erano un pericolo poiché le giovani venivano solitamente sterilizzate e nei rari casi si ricorreva all’aborto.
Tra il 1942 e il 1945 vennero attrezzati i Sonderbauten (ovvero “edifici speciali”) nei campi di Mauthausen, Gusen, Flossenbürg, Buchenwald, Neuengamme, Auschwitz, Birkenau, Monowitz, Dachau, Sachsenhausen e Mittelbau-Dora.
Le prescelte si prostituivano anelando alla promessa, mai mantenuta, di essere liberate dopo 6 mesi di lavoro. Le donne reclutate, tutte sotto i 25 anni, provenivano principalmente dal lager di Ravensbrück; il 70% di costoro erano tedesche o nate nei paesi occupati dal Reich. Le donne ebree, Roma o Sinti erano escluse perché ritenute contaminanti per il loro sangue impuro; a queste spettava un destino peggiore.
I “TRASPORTI NERI”
A partire dal 1941 le donne di razze inferiori furono selezionate per i “trasporti neri”.
Il medico eugenista Friedrich Mennecke le scelse personalmente per condurre le sue sperimentazioni; le internate venivano deliberatamente ferite, fratturate, amputate e infettate con virus e batteri. Per meglio simulare le infezioni in alcune ferite vennero introdotti pezzi di legno, vetro o stoffa, attendendo poi lo sviluppo della gangrena. Le ferite venivano successivamente curate con i nuovi farmaci o con nuovi tipi di operazione chirurgica per verificarne l’efficacia.
Altre donne furono scelte per testare i nuovi metodi di sterilizzazione basati su raggi X, chirurgia e diversi farmaci. Questi esperimenti di sterilizzazione avevano come ultimo scopo la sterilizzazione forzata di milioni di persone considerate “indesiderabili” per il “nuovo ordine mondiale nazista”. Tutte le donne sottoposte alla sterilizzazione, timorose delle conseguenze di un eventuale rifiuto, firmarono un documento di consenso dopo che le autorità del campo avevano promesso loro la libertà nel caso si fossero sottoposte all’esperimento.
Tra gli altri esperimenti messi in atto dai medici del Reich vi sono:
– Esperimenti di congelamento/ raffreddamento prolungato
– Esperimenti di vaccinazione
– Trapianti
– Ricerche sui gemelli monozigoti
– Ricerche sulla cura ormonale dell’omosessualità
MANTENERE VIVA LA MEMORIA
Grazie alle istituzioni e ai media, siamo più o meno tutti testimoni indiretti degli orrori che avvennero a seguito della “soluzione finale” perpetrata dai nazisti nei confronti di 15 milioni di esseri umani. Essere testimoni significa ascoltare, capire e impegnarsi a conoscere più dettagli possibili per saper riconoscere e combattere l’odio nei confronti di chi è diverso da noi.
Per questo chiudo questo articolo consigliandovi alcuni modi per mantenere viva la memoria.
- Visitate un campo di concentramento: va bene uno qualsiasi dei tanti che si trovano a pochi km di distanza da qualsiasi capitale europea. Nel caso specifico di questo articolo vi consiglio il Memoriale di Ravensbrück si trova a 80km da Berlino ed è facilmente raggiungibile in auto o in treno. QUI trovate tutte le info.
- Leggete! Sull’Olocausto ci sono libri di ogni genere, per tutte le età, in tutte le lingue, su qualsiasi argomento specifico, vi basta cercare su internet. Sull’argomento donne e lager personalmente vi suggerisco “Le donne di Ravensbrück” di Lidia Beccaria Rolfi, deportata partigiana.
- Guardate film e documentari, anche di questi ce ne sono davvero tanti e per tutti i gusti; per un punto di vista diverso da quello della semplice prigioniera vi consiglio “Kapò” un film italiano del 1960 che parla di una giovane ebrea che diventa aguzzina per sopravvivere. Vi lascio QUI la scheda.
Fonti:
|Enciclopedia dell’Olocausto|
|Wikipedia 1 e 2|
|La condizione femminile nei lager|
Sapevo della vita dei detenuti nei Lager, in generale, ma non di questi trattamenti riservati alle donne. Che storie tremende…
Tra i vari libri che parlano di Ravensbrück consiglio anche il romanzo della svedese Majgull Axelsson, “Io non mi chiamo Miriam”, che fa capire come, anche tra le donne ritenute inferiori, ci fosse una sorta di gerarchia delle preferenze. La versione italiana è stata pubblicata dalla casa editrice Iperborea. Ho dovuto leggerlo per un esame e sono sicura che, non fosse che ero più attenta a memorizzare vocaboli nella versione originale e che la storia della protagonista si alterna tra Ravensbrück e una Svezia tra anni ’40 e 2014, ne sarei rimasta più colpita di quanto non lo sia ora.