It’s an odd thing, but anyone who disappears is said to be seen in San Francisco. (Oscar Wilde)
Conosciamo tutti fin troppo bene la sensazione di quando si finisce una serie su Netflix e se ne inizia una nuova (dopotutto viviamo, ahimé o per fortuna, nell’era del binge watching), senza sapere se quella che iniziamo a guardare sarà all’altezza di ciò che abbiamo appena concluso. Riflessioni “seriali” a parte, scegliere di guardare Tales of the City è qualcosa per cui faccio ancora fatica a ringraziarmi abbastanza. Ho iniziato questa miniserie senza aspettative, senza sapere nel dettaglio di cosa trattasse, senza avere alcuna idea di come sarei stata presto sorpresa e sconvolta da una visione che toglie la terra sotto i piedi, riempiendo il cuore di magia.
Tales of the City è una serie Netflix, revival della omonima miniserie USA, ispirata dai romanzi dello scrittore statunitense Armistead Maupin. Recentemente, Netflix ne ha acquistato i diritti per realizzare questa produzione da dieci puntate, in cui si racconta la storia di Anna Madrigal, anziana donna transgender che si trasferisce a San Francisco e, in seguito all’acquisto di una casa al numero 28 di Barbary Lane, costruisce un rifugio sicuro per persone spesso emarginate dalla società di cui lei vede invece immediatamente il reale valore.
Ma Tales of the City racconta molto di più. Racconta come “casa” e “famiglia” possano avere significati diversi, spesso anche inaspettati, ma comunque preziosi. Famiglia sono Margot e Jake, una ragazza lesbica e un ragazzo transgender. Famiglia sono Brian, Mary Ann e Shawna: una coppia separata con una figlia bisessuale. Famiglia sono i due gemelli Jennifer e Jonathan. Famiglia sono Michael e Ben, due uomini gay innamorati, nonostante una sentita differenza d’età. Famiglia sono Anna e tutti i residenti di quel posto magico che è Barbary Lane.
La comunità di Barbary Lane è la quintessenza della famiglia e quelle pareti rappresentano molto più di una semplice casa: sono un rifugio, dove ogni persona può essere se stessa e non solo venir accettata, ma celebrata e amata in quanto tale.
Quando ti senti capito da una persona, come Anna Madrigal ti fa sentire, non te ne vai più. (Michael)
Tales of the City racconta anche di rappresentanza. Ogni minoranza, di qualsiasi tipo, sa quanto sia importante vedersi rappresentata. Gli autori non hanno creato infatti soltanto una serie impeccabile, capace di toccare ogni emozione, dalla tristezza all’allegria fino al coinvolgimento; ma hanno dato spazio a persone, orientamenti sessuali e identità di genere ancora troppo invisibili sui nostri schermi, grandi o piccoli che siano. Come scrive Thomas Page McBee, uomo transgender autore del quinto episodio della serie dal titolo “Not Today, Satan” (“Non oggi, Satana”): “Mi sono sempre sentito come se non avessi il diritto di esistere perché non vedevo mai nessuno come me”. Vederci rappresentati ci nutre da dentro e ci dice che esistiamo, che non siamo soli, che andiamo bene così come siamo. Viviamo spesso con la convinzione che nessun altro si senta come ci sentiamo noi e che siamo gli unici a provare determinati sentimenti; spesso non è così e la visibilità delle minoranze è fondamentale per sfatare questo mito e trasmettere empatia.
Uno dei tanti meriti della serie è poi aver raccontato i personaggi a prescindere dalla loro identità di genere o dal loro orientamento sessuale. In Tales of the City, sono molte infatti le storie che hanno come protagonisti persone non cisgender e/o non eterosessuali, ma le narrazioni non ruotano necessariamente intorno alla loro identità queer. I personaggi infatti vengono mostrati prima di tutto in quanto esseri umani, nelle loro sfaccettature più complesse e nelle loro versioni più complete: in grado, insomma, di fare altro sullo schermo oltre all’essere transgender o omosessuali.
La serie TV mostra anche quanto la ricerca identitaria possa essere difficile e complicata, senza però trasmettere il messaggio che ogni persona queer sia confusa. Il percorso di Jake ne è un esempio: Jake è un ragazzo transgender che si fa domande su come la transizione l’abbia cambiato più di quanto non immaginasse, ma che ci mostra, come dice Anna Madrigal, che non è mai troppo tardi per cambiare il finale della propria storia. Un simile percorso identitario lo realizza anche Margot, partner di Jake, che trova il coraggio di mettere se stessa, i propri sentimenti e le proprie pretese al primo posto.
La storia di Shawna è un altro dei fili narrativi cardine di “Tales of the City”. Interpretata da una splendida Ellen Page, Shawna è una ragazza bisessuale che vive a Barbary Lane, cresciuta col padre e abbandonata dalla madre, Mary Ann, che ha scelto la carriera sulla famiglia trasferendosi a New York. Shawna viene mostrata in tutta la sua vulnerabilità, ma allo stesso tempo in tutta la sua forza, mentre cerca di trovare il suo posto nel mondo. Il rapporto tra Shawna e Mary Ann è trattato con empatia e tenerezza, attraverso sia il punto di vista di una madre piena di rimorsi che cerca di riavvicinarsi, sia quello di una figlia orgogliosa e ferita che oppone resistenza.
Nella serie TV prodotta da Netflix, tutti i personaggi hanno la propria storia e la propria visibilità, ma ogni narrazione confluisce e si intreccia con la figura di Anna Madrigal, la madrina di Barbary Lane. Anna appare come un personaggio forte, affettuoso e maturo, ma al contempo misterioso. Il suo passato viene raccontato tramite un flashback lungo un episodio, dal titolo “Sacrifici piccoli e grandi”, che mostra il suo arrivo a San Francisco negli anni ’60, le difficoltà iniziali, la ricerca di una nuova vita, l’amore, la paura, l’emarginazione e le ribellioni della comunità transgender di quegli anni.
Tales of the City racconta, insomma, di magia e visibilità. Di come San Francisco abbia creato un porto sicuro per gli emarginati, offrendo loro la possibilità di essere se stessi. E racconta anche di come il concetto di famiglia prescinda dai legami di sangue e si basi piuttosto su amore e accettazione.
Non mi resta perciò che augurarvi buona visione e buon mese del Pride!