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Un viaggio nel rap di oggi e di ieri, insieme a Paola Zukar
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Un viaggio nel rap di oggi e di ieri, insieme a Paola Zukar

Non è questione di convincere a suon di citazioni, name-dropping di artisti, pillole storiche et similia gli irriducibili di “il rap è inascoltabile/è un’accozzaglia di parole/non è musica”, che il rap, al contrario, sia una forma espressiva potentissima, caratterizzata da una ricerca di linguaggio, carica di significati, attenta a tematiche umane (lavoro, politica, rapporti sociali, razzismo, famiglia, droga, povertà…).
È questione che al rap, come a qualsiasi altro genere musicale, bisognerebbe avvicinarsi per quello che è, senza troppi preconcetti, cercando di capirne l’essenza e la consistenza.

Il rap è realismo, inclusione, cultura, trasversalità, contestazione e poesia. Il rap provoca, educa, consola. Il rap è anche innovazione: un esempio è la derivazione trap degli ultimi anni. Ma a volte è anche sessismo, basti pensare alle tante espressioni maschiliste, misogine e discriminatorie disseminate nei testi di rapper di fama nazionale e internazionale, qui più che in altri generi. Altre volte, il rap è polemica, dissing. Oltreoceano, poi, è stato violento e sanguinario.

Il rap, con le sue radici impregnate di soul, funk, reggae, jazz e rhythm’n’blues, le sue peculiari ritmiche e il suo canto recitato, nasce ufficialmente nel Bronx sul finire degli anni Settanta. In Italia poi è arrivato a fine Ottanta. Tra i fautori della crescita del fenomeno nel nostro Paese e della diffusione della controcultura che si porta appresso, c’è Paola Zukar, che del rap si è innamorata a Genova, la sua città, ormai più di trent’anni fa. Un amore che si è trasformato in lavoro, portandola a diventare redattrice della storica – ormai chiusa – fanzine AELLE, e in seguito a fondare l’agenzia Big Picture Management, diventando manager di artisti quali Clementino, Fabri Fibra, Marracash.

Paola è un’istituzione per il rap italiano. È La Signora del Rap.

Con estrema disponibilità e gentilezza, ci ha fatto viaggiare nel tempo, dando uno sguardo all’evoluzione che il rap ha avuto in Italia, e approfondito cosa significhi – e implichi – lavorare nel settore.

Come ti ha fatto innamorare il rap? Qual è stata la spia che si è accesa quando ti sei avvicinata a questo genere e che non te lo ha fatto più mollare? Come spiegheresti la cultura rap a chi se ne è sempre tenuto lontano senza approfondirne valore e significato?

È stato un avvicinamento strano, a tappe, ma ti posso garantire che ho sempre capito che questo genere mi diceva qualcosa più degli altri. Poi, andando avanti, ho scoperto quali suoi elementi mi colpivano maggiormente: senz’altro la libertà di esprimersi, l’essere indipendenti, originali, il non copiare, il farsi una propria identità e il portare avanti la propria idea seppur con pochi mezzi. Quest’ultimo aspetto l’ho ritrovato più e più volte man mano che mi sono avvicinata ai diversi elementi del rap. Ed è stato probabilmente quello che più mi ha convinta.

Come spiegherei la cultura rap a chi non ha voglia di approfondire… Oggi il non volere approfondire è un problema, e i social non aiutano: la complessità delle cose, delle situazioni, delle emozioni, di tanti argomenti, vengono troppo semplificati e riassunti. Alle volte si riesce a essere efficaci anche con un tweet o con un commento su Instagram ma molto spesso no, perché le cose non sono mai bianche o nere, ci vogliono strumenti, preparazione, molti elementi, per dare forma e valore a qualcosa. Ci vuole tempo e voglia di capire.

Che cos’è l’old school? Ieri e oggi: quali sono le differenze principali del genere e dei suoi esponenti che nel tempo si sono succeduti?

L’old school è la “vecchia scuola”, composta da tutti i pionieri che hanno messo le radici, creando e sperimentando la musica rap. Il vero fondamento dell’hip hop è Dj Kool Herc, dj di origini giamaicane che si è inventato questo modo di mixare due brani con il giradischi a due dischi, concentrandosi su una parte della canzone, quella più emotiva e riproponendola in loop. Ovviamente l’evoluzione tecnica e artistica di questo genere ha poi necessitato molti anni per affinarsi. È difficile darti un anno di fine della vecchia scuola e di inizio della nuova, ma diciamo che gli anni Novanta sono sempre più considerati old school, visto che si allontanano sempre di più e hanno dato modo a nuovi artisti di nascere.

Oggi il rap ha oltre quarant’anni, possiamo dire che si sono avvicendate tre generazioni di artisti. Le differenze principali… È stata un’evoluzione lenta e continua di quelli che sono gli elementi portanti del rap: rime, nei suoni, musica e tecnologia utilizzata. Anche se, ti dirò, oggi alcune cose del rap degli anni Ottanta continuano a essere veramente molto valide e rilevanti, tanto era al tempo così originale e unico.

Qual è secondo te, nel panorama italiano, il testo più pregnante e – passami il banale – “più bello” scritto nel genere? E l’artista da considerare quale pietra miliare e da ascoltare senza se e senza ma? L’artista invece da tenere d’occhio di questi tempi?

Sono davvero negata a rispondere a domande del tipo “qual è il più bello/importante/forte/il più”: ascoltando questo genere da così tanti anni, ti garantisco che è impossibile scegliere un più bello.
Posso dirti che il testo più importante per me – e credo per tutta la scena rap italiana – sia stato “Sfida Al Buio” di Speaker Deemo, perché è stato il primo testo riuscito sotto tutti i punti di vista in italiano e ha gettato le basi affinché il rap si potesse fare anche nella nostra lingua. C’è stato un periodo infatti in cui non era così scontato si potesse fare anche in italiano: tanti artisti infatti si avvicinavano al rap in inglese, verso la fine degli anni Ottanta e i primi Novanta. Gli artisti con i quali lavoro sono quelli che rispetto di più – ed è il motivo per cui ci lavoro, sono chiaramente di parte: Fibra (NdR, Fabri Fibra), Clemente (NdR, Clementino), Marra (NdR, Marracash), Madame – che è veramente forte anche se è giovanissima. E poi ce ne sono tanti altri che mi piacciono anche se non lavorano con me: Salmo, Ghali, Sfera, Tedua, Rkomi, Gemitaiz… Ce ne sono davvero tanti!

Cosa significa essere un manager di un*artista? Che cosa fa di un manager un buon manager? Quali sono le skill imprescindibili per fare bene il tuo lavoro? Che scelte e che gavetta c’è da fare per diventare un riferimento come lo sei tu?

Ci vorrebbero sette ore e mezza per rispondere! Il manager di un*artista è l’interfaccia dell’artista con tutte le realtà che gli/le ruotano attorno: dalla casa discografica, al promoter che organizza i concerti, il merchandiser, le agenzie pubblicitarie che vogliono chiudere accordi di endorsement o placement – e oggi anche questa è una voce importante. È un po’ il factotum dell’artista. Il buon manager è quell* che l* capisce e l* mette nelle condizioni di fare il proprio lavoro al meglio senza snaturare il suo percorso artistico.

Le skill imprescindibili secondo me sono l’onestà e la visione comune: devi avere molta somiglianza nel percorso artistico con il/la tuo/a artista: se ogni volta la vedete diversamente, lavorare insieme diventa difficile. Vedi per esempio me e Madame, che ha meno della metà dei miei anni: per quanto si sia diverse, le cose che dico a lei le risuonano giuste e viceversa le cose che mi dice lei. Ci vuole anche un po’ di diplomazia con l’artista e con le altre figure con le quali ci si interfaccia. La gavetta è molto, come sempre, consigliata: tutti oggi possono provare a fare uno pseudo-management affiancando un amico, un compagno di scuola, un vicino di casa, cercando di ampliare il proprio raggio d’azione.

Abbiamo detto che nella musica sei un’istituzione e per giunta sei pure donna: questo aspetto ti ha penalizzato/rallentato nel percorso? Qual è il consiglio che daresti a una ragazza che sogna di lavorare nel dietro le quinte della musica?

Forse mi ha rallentata, ma non di più che in altri mestieri: è l’Italia che è ancora alla ricerca di un equilibrio corretto nel lavoro come in casa, tra la figura femminile e quella maschile. I miei artisti sono quelli che mi hanno incentivata di più a prescindere dal genere: hanno sempre guardato più i risultati che non tutto il resto. Quindi non posso dire di essere stata penalizzata più di quel tanto. Poi chiaramente più cresci più sviluppi un’autostima, più funzioni nel tuo lavoro, più scopri che è il lavoro giusto per te, più ti fai valere. Il management è un lavoro molto adatto alle ragazze: la diplomazia, che è molto importante, è una caratteristica molto più nostra che dei maschi, che spesso preferiscono far saltare un accordo piuttosto che portare a casa un po’ meno, ma portarlo a casa comunque ed essere tutti più contenti.  Credo le ragazze in questo siano più brave, e per questo siamo più facilitate.

E come ti spieghi invece che le donne che rappano sembrano sempre così poche rispetto alla quota maschile? C’è qualcosa che tiene lontano le donne dall’intraprendere una carriera musicale nel rap e, se sì, cos’è, secondo te?

Non sono tanto fan delle quote rosa: aprono una porta ma durano poco. Ci vuole del valore: stiamo pur sempre parlando di un campo meritocratico e non si può imporre una quota rosa se poi le persone non ti ascoltano a prescindere. Il rap è una musica molto competitiva, piuttosto aggressiva, ed è una caratteristica che peraltro nelle donne è poco accettata: se un uomo è aggressivo si dà per scontato che possa dire certe cose. Se lo è una donna, invece, si alza subito il branco che si oppone e attacca molto di più. Pensa a quello che è successo ad Anna, una ragazzina che rappa ed è anche più brava di molti suoi coetanei, ma viene attaccata molto più gravemente di gente meno brava di lei.

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Il consiglio che do alle ragazze è di dire le cose che vogliono dire, di crearsi un’identità e di essere pronte al contraccolpo soprattutto se la loro roba poi funziona. Purtroppo questo è un aspetto che bisogna considerare.

Da La Pina ad Anna: come sono cambiate e si sono evolute le donne del rap?

Ti ho anticipato una parte di risposta nella precedente domanda! Da un lato sono cambiate tantissimo, si è affinata prima di tutto la tecnica. La Pina è una pioniera del rap: ha iniziato prima di tutte. Prima di lei forse c’era questa ragazza mitologica che si chiama Carrie D di Torino, e basta. Loro due hanno iniziato per prime ed erano viste come delle eccezioni. Anna inizia a diventare la normalità, tra l’altro dopo di lei tante altre hanno iniziato su Tik Tok: vedrai che più Anna ci saranno, più ragazze ci saranno, più Madame ci saranno. Questa cosa diventerà esponenziale. Poi chiaro, non tutte riusciranno ma almeno tante ci potranno provare. Fino ad oggi forse non tante avevano provato.

Per quanto sappia essere estremamente sanguigno, umano, vicino alle problematiche sociali e alle tematiche più sensibili, il rap non riesce a liberarsi dall’utilizzo di un lessico offensivo e di espressioni discriminatorie e umilianti, in primo luogo verso le donne e la comunità LGBT+. Perché ancora nel 2020 non è in grado di includere, anziché contribuire a emarginare e diffondere stereotipi?

Il rap è un’istantanea della realtà, la interpreta attraverso l’artista, ma non significa che per forza l’artista incorpori esattamente quello che dice. L’arte e la musica sono lenti attraverso le quali guardare la realtà.
Una canzone non è un articolo di giornale o un dialogo tra due persone per strada.

Certo, essendo un pezzo scritto in prima persona e interpretato, puoi pensare che le due cose coincidano ossia che il testo violento di un artista pensi voglia significare esattamente quello che ha scritto: penso che il fatto che lo scriva gli impedisca di incarnare nella realtà questa cosa. Penso anche che ogni canzone che provoca crei un dibattito e quando si accende un dibattito è sempre cosa buona.
Il dibattito nelle canzoni di musica italiana non si crea mai perché i testi sono fatti per altro, per amare, sognare, evadere.
Se bastasse eliminare il linguaggio e la violenza, immagino che ci sarebbe una legge, e tutti la rispetterebbero, cercando di eliminare la violenza nei testi.
Il rap racconta e apre dibattiti creando provocazioni, bisogna sempre tenere presente questa importanza differenza.

Ad oggi qual è stata la soddisfazione lavorativa maggiore che hai avuto, in termini di artisti con i quali hai lavorato, al di là degli incassi e del successo che hanno raggiunto?

La soddisfazione maggiore è proprio quella di aver contribuito a far passare in Italia un genere molto particolare che non si presta alla tradizione italiana, piuttosto vetusta e incastrata nel suo passato, dove il linguaggio non riusciva a evolvere e a rappresentare la realtà dei ragazzi di oggi. Sono soddisfatta di aver contribuito a far passare un genere che porta avanti nelle teste di chi ascolta dei discorsi, dei ragionamenti, dei dibattiti, delle riflessioni, mentre la musica italiana non lo fa, è bella da ascoltare ma è fine a se stessa. E qui parlo del pop, perché oggi il rap ha i numeri del pop, non parlo del cantautorato o del punk o della sottocultura che fanno esattamente quello che fa il rap. A me piacciono i testi che provocano una reazione e che funzionano, e qui rispondo ulteriormente alla tua bella domanda precedente: secondo me il rap in qualche modo pur provocando include, perché porta la discussione su questi temi. Non credo che una canzone emargini veramente qualcuno.

Ps: Paola Zukar ha anche scritto un libro, “Rap. Una Storia Italiana“. Da leggere, indubbiamente.

Immagine di copertina: Cosimo Nesca
Foto centrale: Carlo Furgeri Gilbert

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